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Martedì, 11 Giugno 2013 10:02

ZEMI - idoli e megaliti delle Antille

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 Qualche tempo prima dell'alba di un venerdì mattina dell'Ottobre 1492, il marinaio Rodrigo de Tiana, scrutando l'orizzonte dalla Santa Maria, avvistava per la prima volta una piccola isola del Nuovo Continente. Gli indigeni pacifici che l'abitavano la chiamavano “Guanahani”, ma il suo capitano, Cristoforo Colombo, l'avrebbe subito ribattezzata San Salvador. Cominciava così, toccando terra a Bahamas, la scoperta, o meglio la riscoperta, dell'America.

Un anno più tardi, scegliendo una rotta diversa e più meridionale, Cristoforo Colombo sarebbe invece approdato a Guadalupe, scoprendo l'esistenza delle Antille. L'11 Novembre del 1493 la flotta spagnola avvistò per la prima volta Waladli, Wa'omoni e Ocamanru (oggi rispettivamente “Antigua”, dal nome della cappella delle Vergine Miracolosa che si trova nella Cattedrale di Siviglia; Barbuda e Redonda). Ma l'esploratore genovese passò oltre senza sbarcare. Non seppe mai che gli stessi indigeni che continuava ad incontrare sulle diverse isole caraibiche, tutti discendenti di quella medesima popolazione che, partendo dal Sud America, aveva colonizzato nei millenni precedenti le Antille, ad Antigua, erano stati vicini a creare una vera e propria civiltà.

 Nei resoconti dell'epoca vengono chiamati “Arawak”, dal nome della loro lingua e sono descritti come selvaggi piuttosto arrendevoli, con il corpo tatuato. Si cibavano di pesce, crostacei, frutta e soprattutto cassava (manioca); vivevano in capanne e si spostavano su semplici canoe. Solo nel XIX-XX secolo comincerà ad emergere, grazie agli studiosi e archeologi caraibici, la ricchezza nascosta di queste culture poco note.

colombosbarco

Le più antiche tracce umane datate con sicurezza nelle Antille risalgono al II millennio a.C. quando, si ritiene, si verificò la prima migrazione di tribù sud-americane dalle coste dell'odierno Venezuela fino a Cuba. Queste popolazioni presero il nome di Siboney (“gente della pietra”) o Saladoidi/Troumassoidi. Un gruppo viveva certamente sull'isola di Antigua nel 1775 a.C. lungo la spiaggia di Jolly Beach. Tracce di una successiva migrazione risalente al 35 a.C. Sono state identificate a Mamora Bay, dove si stanziò un gruppo appartenente ai Tainos di lingua Arawak. Gruppi dello stesso ambito etnico raggiunsero nuovamente Antigua nel 900 d.C. Infine, un differente gruppo, che gli storici indicano con il nome di “Carib”, raggiunse le Antille nel 1200 d.C. entrando in conflitto con i Tainos. Forse, dietro i diversi gruppi in migrazione, si nasconde semplicemente lo spostarsi dello stesso nucleo di tribù avanti e indietro per le Antille nei millenni.

Della spiritualità di questi popoli, come del resto di tutti gli aspetti della loro cultura, ben poco ci rimane: resti di bivacchi e villaggi, frammenti di ceramica, spianate bordate di pietre dove presumibilmente si praticava il batey”, un “gioco rituale” con la palla simile al sacro “ulama” dei Maya, qualche graffito e un controverso sito tra le alture di Antigua, che mostra tutte le caratteristiche di un antico complesso megalitico. La loro religione era di tipo animistico, basata sul culto delle forze della natura, che i Tainos raffiguravano come idoli zoomorfi, antropomorfi e geomorfi, modellati con la terracotta oppure cesellando gusci di conchiglie. Al centro della loro vita spirituale c'erano in particolare tre divinità: Atabeyra, la luna, dea della fertilità; Yocahu, il “portatore della cassava”; Opiyel Wa'obiran, guardiano delle anime e della morte. Secondo lo studioso Fred Olsen, l'essenza di queste e delle altre divinità risiedeva appunto negli Zemi, nome che significa non a caso “potere magico”.

triadeantille

Indigeni superstiziosi e primitivi dunque? Secondo me proprio no. Proviamo a capirci qualcosa, usando anche un pizzico di conoscenza radioestesica. Intanto, studiando la “trinità” divina su cui si basa l'intera cultura dei Tainos, si può scoprire di trovarsi di fronte non a una triade qualsiasi, ma alla fedele rappresentazione trinitaria dei principi che creano l'Universo. Non è questa una particolare conoscenza propria solo delle tribù delle Antille, ma un sapere diffuso e comune a tutte le civiltà evolute del globo.

Atabeyra, o Atabey, come si può comprendere dalle sue raffigurazioni, è l'eterna e grande Dea, la MadreTerra”, il ventre da cui ogni cosa proviene e insieme il contenitore, la forma di tutto ciò che esiste. È insomma il femminino sacro, l'acqua primordiale, il vaso “uterino” che riceve e che tras-forma, che forma attraverso di sé. Nelle cronache Taino Atabeyra è lo spirito del serpente cosmico”.

 

Atabeyra

Opiyel Wa'obiran, appartentemente banalizzato in “figlio della tenebra”, dio della morte e dell'aldilà, guardiano delle anime, è il principio opposto e complementare ad Atabeyra. E' il maschile sacro, ciò a cui tutto ritorna, la direzione verso cui viaggia inesorabile la vita (la morte).

Opyelu

Infine Yocahu è il terzo principio, l'unificatore, l'equilibrio che impedisce alle altre forze di collassare vicendevolmente. Si dice che sia la rappresentazione del micro-universo dei Taino, un'isola, oppure una tartaruga mitica. Tutto giusto, tutto sbagliato. P raffigurare un'isola, certo, ma la rappresenta con tutto ciò che la circonda: l'acqua che sta sotto e il cielo che sta al di sopra, così che il “cono vulcanico” è a sua volta il punto di equilibrio, ciò che separa l'acqua dal cielo e senza cui la vita non sarebbe possibile. Allo stesso modo può raffigurare la tartaruga, con quella testa mascolina che indica la direzione e quella forma vagamente uterina al posto della coda: parti visibili del corpo molle della tartaruga che, grazie ad esse tiene il carapace separato dal piastrone.

Yocahu, dunque, è per i Tainos ciò che il Tao è per i cinesi e gli orientali: l'espressione del tutto e di quella terza forza che il tutto rende possibile.

Yocahu

Dal movimento (vibrazione) generato dall'incontro di questi tre principi discende l'Universo. Tutto, ogni più minuta cosa, infatti, è il risultato mutevole degli infiniti rapporti che questi principi stabiliscono al loro interno ad ogni livello, strato e dimensione dell'esistenza. I Tainos lo sapevano bene. A questi consolidamenti variabili dei tre principi, a queste “forze” (vibrazioni/movimenti) hanno dedicato i loro culti e i loro riti, dando a ciascuna un nome e caratteristiche ben precise, che poi condensavano negli “idoli” chiamati Zemi.

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Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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