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Martedì, 11 Giugno 2013 10:18

ZEMI - idoli e megaliti delle Antille (articolo completo)

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 Qualche tempo prima dell'alba di un venerdì mattina dell'Ottobre 1492, il marinaio Rodrigo de Tiana, scrutando l'orizzonte dalla Santa Maria, avvistava per la prima volta una piccola isola del Nuovo Continente. Gli indigeni pacifici che l'abitavano la chiamavano “Guanahani”, ma il suo capitano, Cristoforo Colombo, l'avrebbe subito ribattezzata San Salvador. Cominciava così, toccando terra a Bahamas, la scoperta, o meglio la riscoperta, dell'America.

Un anno più tardi, scegliendo una rotta diversa e più meridionale, Cristoforo Colombo sarebbe invece approdato a Guadalupe, scoprendo l'esistenza delle Antille. L'11 Novembre del 1493 la flotta spagnola avvistò per la prima volta Waladli, Wa'omoni e Ocamanru (oggi rispettivamente “Antigua”, dal nome della cappella delle Vergine Miracolosa che si trova nella Cattedrale di Siviglia; Barbuda e Redonda). Ma l'esploratore genovese passò oltre senza sbarcare. Non seppe mai che gli stessi indigeni che continuava ad incontrare sulle diverse isole caraibiche, tutti discendenti di quella medesima popolazione che, partendo dal Sud America, aveva colonizzato nei millenni precedenti le Antille, ad Antigua, erano stati vicini a creare una vera e propria civiltà.

Nei resoconti dell'epoca vengono chiamati “Arawak”, dal nome della loro lingua e sono descritti come selvaggi piuttosto arrendevoli, con il corpo tatuato. Si cibavano di pesce, crostacei, frutta e soprattutto cassava (manioca); vivevano in capanne e si spostavano su semplici canoe. Solo nel XIX-XX secolo comincerà ad emergere, grazie agli studiosi e archeologi caraibici, la ricchezza nascosta di queste culture poco note.

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Le più antiche tracce umane datate con sicurezza nelle Antille risalgono al II millennio a.C. quando, si ritiene, si verificò la prima migrazione di tribù sud-americane dalle coste dell'odierno Venezuela fino a Cuba. Queste popolazioni presero il nome di Siboney (“gente della pietra”) o Saladoidi/Troumassoidi. Un gruppo viveva certamente sull'isola di Antigua nel 1775 a.C. lungo la spiaggia di Jolly Beach. Tracce di una successiva migrazione risalente al 35 a.C. Sono state identificate a Mamora Bay, dove si stanziò un gruppo appartenente ai Tainos di lingua Arawak. Gruppi dello stesso ambito etnico raggiunsero nuovamente Antigua nel 900 d.C. Infine, un differente gruppo, che gli storici indicano con il nome di “Carib”, raggiunse le Antille nel 1200 d.C. entrando in conflitto con i Tainos. Forse, dietro i diversi gruppi in migrazione, si nasconde semplicemente lo spostarsi dello stesso nucleo di tribù avanti e indietro per le Antille nei millenni.

Della spiritualità di questi popoli, come del resto di tutti gli aspetti della loro cultura, ben poco ci rimane: resti di bivacchi e villaggi, frammenti di ceramica, spianate bordate di pietre dove presumibilmente si praticava il batey”, un “gioco rituale” con la palla simile al sacro “ulama” dei Maya, qualche graffito e un controverso sito tra le alture di Antigua, che mostra tutte le caratteristiche di un antico complesso megalitico. La loro religione era di tipo animistico, basata sul culto delle forze della natura, che i Tainos raffiguravano come idoli zoomorfi, antropomorfi e geomorfi, modellati con la terracotta oppure cesellando gusci di conchiglie. Al centro della loro vita spirituale c'erano in particolare tre divinità: Atabeyra, la luna, dea della fertilità; Yocahu, il “portatore della cassava”; Opiyel Wa'obiran, guardiano delle anime e della morte. Secondo lo studioso Fred Olsen, l'essenza di queste e delle altre divinità risiedeva appunto negli Zemi, nome che significa non a caso “potere magico”.

triadeantille

Indigeni superstiziosi e primitivi dunque? Secondo me proprio no. Proviamo a capirci qualcosa, usando anche un pizzico di conoscenza radioestesica. Intanto, studiando la “trinità” divina su cui si basa l'intera cultura dei Tainos, si può scoprire di trovarsi di fronte non a una triade qualsiasi, ma alla fedele rappresentazione trinitaria dei principi che creano l'Universo. Non è questa una particolare conoscenza propria solo delle tribù delle Antille, ma un sapere diffuso e comune a tutte le civiltà evolute del globo.

Atabeyra, o Atabey, come si può comprendere dalle sue raffigurazioni, è l'eterna e grande Dea, la MadreTerra”, il ventre da cui ogni cosa proviene e insieme il contenitore, la forma di tutto ciò che esiste. È insomma il femminino sacro, l'acqua primordiale, il vaso “uterino” che riceve e che tras-forma, che forma attraverso di sé. Nelle cronache Taino Atabeyra è lo spirito del serpente cosmico”.

 

Atabeyra

Opiyel Wa'obiran, appartentemente banalizzato in “figlio della tenebra”, dio della morte e dell'aldilà, guardiano delle anime, è il principio opposto e complementare ad Atabeyra. E' il maschile sacro, ciò a cui tutto ritorna, la direzione verso cui viaggia inesorabile la vita (la morte).

Opyelu

Infine Yocahu è il terzo principio, l'unificatore, l'equilibrio che impedisce alle altre forze di collassare vicendevolmente. Si dice che sia la rappresentazione del micro-universo dei Taino, un'isola, oppure una tartaruga mitica. Tutto giusto, tutto sbagliato. P raffigurare un'isola, certo, ma la rappresenta con tutto ciò che la circonda: l'acqua che sta sotto e il cielo che sta al di sopra, così che il “cono vulcanico” è a sua volta il punto di equilibrio, ciò che separa l'acqua dal cielo e senza cui la vita non sarebbe possibile. Allo stesso modo può raffigurare la tartaruga, con quella testa mascolina che indica la direzione e quella forma vagamente uterina al posto della coda: parti visibili del corpo molle della tartaruga che, grazie ad esse tiene il carapace separato dal piastrone.

Yocahu, dunque, è per i Tainos ciò che il Tao è per i cinesi e gli orientali: l'espressione del tutto e di quella terza forza che il tutto rende possibile.

Yocahu

Dal movimento (vibrazione) generato dall'incontro di questi tre principi discende l'Universo. Tutto, ogni più minuta cosa, infatti, è il risultato mutevole degli infiniti rapporti che questi principi stabiliscono al loro interno ad ogni livello, strato e dimensione dell'esistenza. I Tainos lo sapevano bene. A questi consolidamenti variabili dei tre principi, a queste “forze” (vibrazioni/movimenti) hanno dedicato i loro culti e i loro riti, dando a ciascuna un nome e caratteristiche ben precise, che poi condensavano negli “idoli” chiamati Zemi.

Lo Zemi o Cemi è “forza magica” cristallizzata. E qui è opportuna una piccola digressione. Cos'è davvero la magia? Un po' di sana ricerca etimologica può spiegarlo. La radice sanscrita è “magh-a” e significa semplicemente “grandezza”, non in quanto dimensione bensì elevazione, distanza, è “ciò che esiste di più grande” (al mondo).

Il verbo sanscrito da cui deriva “magh-a” è a tal proposito mah-ati, che ha addirittura un doppio significato: onorare, festeggiare e “rendere più grande”, ma anche “sacrificare/sacrificarsi”. Non superstizione dunque, come si potrebbe supporre o pratiche negromantiche, incantesimi, fatture sacrifici cruenti e quant'altro, ma la conoscenza di ciò che è di più grande e puro, attraverso il sacrificio di sé stessi. Questo è “mago”, questa è “magia”.

Potremmo dunque azzardare per il nome “zemi” una traduzione diversa: “grande forza”, nel senso di “forza divina” quindi “forza delle origini”. Ecco dunque che ciascun zemi è il “risuonatore” di una particolare forza/vibrazione dell'universo, il suo richiamo, il collegamento con essa. Non sono banalmente gli dei, ma la manifestazione di quelle forze che il Creatore ha desiderato per il Mondo.

Ricavavano zemi dai gusci di conchiglia, li dipingevano sulle rocce, li incidevano nelle pietre, ogni zemi aveva il suo materiale, il suo modo di essere rappresentato, il suo tempo. Alcuni forse erano “personificazioni” di animali o di piante.

Per quanto ho potuto studiarli, ritengo che li posizionassero e li utilizzassero dovunque quella particolare “forza” era necessaria: elaborarono un complesso sistema di stampi per portare il segno dei loro idoli sul corpo, sulla parte per la quale era richiesto l'intervento di uno specifico zemi. Alcuni zemi erano riservati a ciascun tipo di contenitori in terracotta cui facevano da “manici”: da cottura, per contenere acqua o cibi solidi, per la conservazione.

CONTENITORI

È noto un solo zemi in cotone e fibre vegetali intrecciate con notevoli abilità, alto circa 70 cm. Contiene i resti di un cranio umano volutamente deformato, forse appartenente ad un personaggio di alto rango o a un “mago” precolombiano.

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I Tainos postulavano insomma un'idea dell'Universo tripartito, di cui il trigonolite è una efficace rappresentazione e in cui si avvicendano le “forze” che appartengono, contemporaneamente a tutti i piani di esistenza.

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La connessione acqua-terra-cielo è particolarmente evidente in un antico sito precolombiano ritrovato ad Antigua. All'interno dell'isola, sulle alture di Greencastle Hill, nome odierno della località e ricordo della piantagione che esisteva sulla collina, i Tainos o forse quei Siboney/Saladoidi/Troumassoidi loro antenati, edificarono quello che sembra in tutto e per tutto essere un “osservatorio astronomico” megalitico, una “stonehenge” delle Antille.

Dopo la scoperta del sito da parte del dottor W. Forrest tra il 1930 e il 1935, le prime prove di un probabile significato “stellare” delle pietre innalzate su questa altura emersero con le ricerche di Moira Imbert e Charlesworth Ross nel 1958. Ma se ne cominciò a discutere solo nel 1971. Il 14 Marzo di quell'anno compare un articolo intitolato “Antigua's Tropical Stonehenge” sul New York Times e quattro mesi dopo Al Hajji Talib Ahmad Dawud presenta al IV Congresso Internazionale per lo studio delle culture precolombiane delle Piccole Antille, lo studio intitolato “Greencastle Hill, Antigua: a possible Megalithic Monument of a Prehistoric Generation”.

Ulteriori ricerche sugli allineamenti sono state intraprese con successo da Desmond Nicholson. L'archeologo antiguano Dr R. Murphy ha poi condotto nel 1995 una campagna di scavi nell'area che ha fornito le prove dell'esistenza nel luogo di un insediamento umano databile tra il 500 e il 1250 d.C. Altri sopralluoghi sono stati compiuti da Maura Imbert e Arlene Atwell a partire dal 2001.

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I risultati, inizialmente molto discussi e poco accettati dalla comunità scientifica, sono per lo più concordanti e confermano l'ipotesi che si tratti di un “tempio astronomico”. Dallo studio della scarsa letteratura relativa agli indigeni precolombiani delle Antille, tali popolazioni mostrano un marcato interesse soprattutto per alcuni corpi e ammassi celesti: le costellazioni delle Pleiadi, Orione, l'Orsa Maggiore, Scorpione, Pegaso, Ariete, Ofiuco e le stelle Sirio, Procione e Aldebaran.

Pare che la comparsa e la scomparsa delle Pleiadi e di Orione nel cielo mesoamericano fossero indicatori per i cicli agricoli, il sorgere nel cielo dell'Orsa Maggiore segnava l'inizio della stagione degli uragani, Aldebaran aveva una funzione simile a quella della Stella Polare, Scorpione era legata agli aspetti sociali (matrimoni, alleanze, ecc.). Questo ed altro è esattamente quanto si può osservare sulla cima di Greencastle hill, traguardando il cielo per mezzo dei megaliti che vi furono innalzati. Il più significativo è sicuramente quello denominato “dio sole”, alto circa tre metri, composto di due tronconi, appartenenti a matrici diverse, sovrapposti e appoggiati su una sorta di basamento – forse un'applicazione dell'unione dei tre principi cosmici – che indica precisamente il sorgere del sole nei giorni degli equinozi.

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Un curioso insieme di menhir volutamente inclinati e divaricati a V, che è stato chiamato “Pietre femminili” indica la posizione delle Pleiadi il 31 Maggio, data che coincide con l'inizio dell'anno per i Tainos, nonché con i primi giorni della stagione degli uragani. E ancora altri gruppi di menhir divaricati o di singole pietre puntano alla posizione del sorgere dell'Orsa Maggiore, di Scorpione, di Sirio, di Orione, di Pegaso nei giorni degli equinozi o dei solstizi. Il punto da cui compiere le osservazioni usando i megaliti è sempre uno e uno solo, un menhir isolato detto “Pietra di puntamento”.

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E gli zemi? Esiste qualche traccia relativa alla connessione esistente tra i petroglifi Tainos che rappresentano la “rana” e la costellazione delle Pleiadi, così come la tartaruga sarebbe in qualche modo legata ad Orione.

La rana e la tartaruga (entrambe sono “anfibi”: vivono sulla terra e in acqua ma respirano anche aria) sono evidentemente una sorta di “animali totemici”, rappresentanti di ”forze” particolari sulla terra.

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Ritengo che anche le costellazioni siano rappresentanti di “poteri” particolari, ma nel cielo. Dunque l'animale e la corrispondente costellazione sarebbero consonanti, tra di loro e con una certa “forza”, a livelli diversi. Se la mia ipotesi è giusta si potrebbero nello stesso modo stabilire collegamenti preziosi tra gli zemi conosciuti e le stelle o costellazioni. Forse si riuscirebbe a stabilire un'identità tra Atabeyra e le Pleiadi e tra Yocahu ed Orione. E chissà cos'altro...

 


BIBLIOGRAFIA:

 

D.V.Nicholson, The story of Arawaks in Antigua & Barbuda, Linden Press, 1983

D.V.Nicholson, Heritage Treasures of Antigua & Barbuda, Museums of antigua&Barbuda, 2007

Fred Olsen, On the trail of theArawaks, University of Oklahoma, 1974

 

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Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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