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Sul versante alpino francese sud-occidentale, bagnato dalle placide acque della Durance, c’è ancora un enigma che resiste al tempo e agli uomini. In una stretta valle, una “pietra scritta” di epoca gallo-romana, incisa in un enorme masso che domina il corso tortuoso del torrente Riou, è l’unica testimonianza certa dell’esistenza di un “locus” leggendario chiamato Theopoli, scomparso dalla memoria e mai più ritrovato.

Il testo celebra l’impresa del prefetto gallo-romano Claudius Postumus Dardanus, che, fra il IV e il V sec., fece aprire, tagliandola nella viva roccia, la nuova e più agevole strada per raggiungere l’odierna piana di Saint Geniez, prima accessibile soltanto risalendo il difficile e assai più lungo percorso attraverso la valle di Vançon. Composta in parole semplici, l’iscrizione non ha ancora svelato tutti i suoi segreti, primo fra tutti l’assenza di riferimenti cronologici, inusuale soprattutto in epoca romana. Diciassette foglie di edera, pianta sacra a Dioniso come la vite, intervallano la scrittura e la valenza anche funeraria di questo rampicante potrebbe suggerire che sia stata incisa dopo la morte del potente condottiero, in suo onore e memoria.

Nascondono, come un codice, in bella vista un messaggio comprensibile solo ai meritevoli.

Dardanus è un personaggio storico conosciuto e misterioso insieme. Prefetto di tutte le Gallie, immenso territorio che comprendeva anche la Spagna e la Bretagna, era stato inviato in Provenza dall’Africa per contrastare la calata dei Vandali e poi dei Visigoti.

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Di origini modeste - aveva cominciato la propria carriera come “advocatus” - portava il nome del mitico tiranno di Troia, figlio di Zeus e della regione di Dardania, raramente in uso e soltanto in Africa e in area ellenica. Nella “pietra scritta” viene poi celebrato come “vir inlustris” e la moglie Nevia Galla, nella stessa iscrizione, come “clarissima et inlustre”, titoli che indicano l’appartenenza di entrambi all’aristocrazia senatoriale più potente della loro epoca.

Forse tra le due campagne prefetturali di cui fu investito (401/404 d.C. o 406/407 d.C e 412/413 d.C.), Dardanus, nonostante avesse eletto Arles a capitale dei propri domini, decise di riparare con 40.000 soldati e legionari sul remoto pianoro sorvegliato dal picco di Dromon, cinquecento metri più in alto della valle della Durance e qui, dopo aver costruito strade e mura turrite, si sarebbe insediato.

A questo punto comincia il mistero di Theopoli.

Si pensa che il condottiero avesse scelto quel luogo, così appartato, strategico (qui si “riunivano” molte strade di valico delle Alpi e di discesa verso il mare) e facilmente difendibile, in seguito alla conversione al Cristianesimo, che ben conosceva poiché era grande amico di Sant’Agostino e interlocutore privilegiato di San Girolamo, con i quali avrebbe intrattenuto per tutta la vita fitte relazioni anche epistolari: soltanto due preziose lettere si sono conservate, quella del 417 scritta dal santo di Ippona e quella del 414 del santo di Stridone, entrambe a lui indirizzate.

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La sua magione potrebbe essere sorta non a Chardavon, alle porte del plateau (dove si sarebbero insediati almeno dal XI sec. alcuni monaci agostiniani) ma presso l’attuale Saint Geniez, piccolo paese che conta soltanto 98 abitanti. Saint Genièz-Genesus, mediorientale come l’illustre prefetto delle Gallie, era infatti uno dei martiri più venerati della Gallia meridionale tra il IV e il V secolo. I suoi resti erano sepolti proprio ad Arles e si ritiene che il condottiero possa averne portata una parte fin sul plateau di Dromon, per custodirle nella cappella costruita presso la sua dimora.

Il luogo prescelto si chiamava “Theopoli”, nome riscontrato storicamente soltanto una volta, con la “s” finale e almeno un secolo più tardi, in relazione ad Antiochia di Siria. Distrutta da terremoti e invasioni, come racconta lo storico Malalas, la città era stata ricostruita nel 528 da Giustiniano I con il nuovo nome di “città degli dei” su consiglio di San Simeone Taumaturgo, ma l’aveva conservato per poco tempo. Con l’arrivo degli arabi sarebbe stata ribattezzata Antakiya.

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“Theopoli”, invece, non avendo la “s” terminale non può essere un nome riconducibile alla lingua greca e quindi neppure agli scritti di Sant’Agostino. Anzi, il termine “locus” presente nella “pietra scritta” e la perifrasi “locus cui nomen theopoli est” indicano senza dubbio un luogo di culto (la Basilica di Betlemme con la Grotta della Natività ad esempio era detta “locus Betlehem”), la tomba di un santo martire o il centro religioso di un “pagus” (villaggio rurale). “Theopoli” era quindi, come sostenuto da molti studiosi tra cui A. Grenier e W. Seston, più verosimilmente un luogo sacro custodito in armi anziché un’installazione militare.

Ma è certo, così si desume facilmente dalla “pietra scritta”, che il luogo esistesse già prima dell’arrivo di Dardanus il quale, portandovi le reliquie del santo Genesus, l’aveva riconsacrato al dio cristiano e l’aveva trasformato in una vera e propria città turrita con mura e strade di collegamento.

È possibile che il nome originario fosse quello del picco più alto che domina il plateau a nord-est: Theous, toponimo ancora oggi esistente ma di ignota origine, forse celtica e che potrebbe appartenere a una qualche divinità o un nume tutelare. Il prefetto delle Gallie ne avrebbe fatto un neologismo, unendolo al termine greco “polis” per indicare, con un gioco di parole, in Theous-poli(s) la città presso Theous e non la “città degli dei”.

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Ma di Theopoli oggi non c’è più traccia, soltanto leggende. Una racconta di un enorme tesoro nascosto tra le montagne intorno al pianoro. Il più grande studioso di questo enigmatico luogo, Roger Correard, sostiene che il tesoro fosse il bottino dei Visigoti trafugato durante il sacco di Roma e poi affidato dai barbari a Dardanus, con il quale intrattenevano buoni rapporti. Che il tesoro sia stato sepolto insieme ad Alarico nella tomba ricavata deviando un corso d’acqua vicino a Cosenza è infatti leggenda, così come è improbabile che possa aver raggiunto Rennes-le-Chateau dove lo cercavano i nazisti.

Fu proprio grazie al prefetto Dardanus che il re visigoto Atatulfo, appena succeduto al cognato Alarico, giunto con le sue truppe in Gallia accettò la sottomissione all’imperatore Onofrio, anziché all’usurpatore Giovino. Mentre la rivolta veniva sedata, i Visigoti furono arruolati per combattere i Vandali e gli Alani che stavano invadendo la Spagna e forse fu in quest’occasione che il tesoro venne affidato a Dardanus e nascosto a Theopoli. Ma Ataulfo morì in battaglia, i Visigoti non tornarono in Provenza e il tesoro non fu mai riscattato.

Intanto, alleati dell’imperatore fantoccio Giovino erano i Burgundi, tribù di origini visigote il cui re Gundicaro stabilì di accompagnare l’usurpatore fino alla Gallia del Sud (Provenza) dove si auto-nominò re delle Gallie. Avendo a loro volta accettato la sottomissione al legittimo reggente Onorio, avrebbero ricevuto, come terra in cui insediarsi, la Savoia.

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Gundicaro, Gundikar fu il primo re burgundo a fregiarsi del titolo di Nibelungo. È infatti il Gunther della saga dei Nibelunghi, che risale proprio al IV-V secolo ma non sia sa dove ne come sia stata composta. Può essere il tesoro custodito da Dardanus quello favoloso di cui Gunther, nella saga era entrato in possesso dopo aver ucciso Sigfrido?

Certo è che Theopoli non era stata inizialmente scelta per custodire il tesoro, bensì per altri scopi misteriosi e ormai dimenticati. Se qualche traccia rimane forse può essere rinvenuta nel luogo sacro che ancora esiste ai margini del pianoro, proprio sotto il picco.

La cappella di Notre Dame du Dromon è un semplice oratorio seicentesco con grezzi muri di pietra e malta bruna. La struttura non colpisce l’occhio, ma da sempre il luogo è profondamente venerato, come testimoniano le numerose lastre graffite inserite nella muratura esterna, ex voto dei fedeli che furono benedetti dall’intercessione della Vergine.

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I veri tesori sono all’interno. Nell’annesso settentrionale sono ancora visibili i resti di un pozzo cerimoniale lastricato, che richiama quello ben più famoso di Chartres. Si racconta che i lavori di sterro per ripristinarlo si siano interrotti dopo che la terra, in quel punto, presa a picconate, si era messa a tremare.

L’interno essenziale della chiesa, a navata unica con abside, mostra ancora le tracce di un’intonacatura artigianale. La cappella annessa sul lato meridionale è spoglia e l’altare ligneo è ormai in rovina, ma la roccia su cui è costruito il luogo affiora in più punti fino a un metro di altezza come se non ci fosse differenza fra la terra e l’edificio costruito dall’uomo. Alcune linee parallele graffite potrebbero essere atti di venerazione prodotti in epoche remote.

Presso l’abside maggiore, c’è l’immancabile sorvegliante, un viso di stucco quasi nascosto in un angolo che ha i lineamenti insoliti di una divinità con il berretto frigio, forse Mitra o Ganimede. Osserva l’altare, con la sua pietra consacrata, che non ha le consuete cinque croci (al centro e sui quattro angoli), bensì X inserite in cerchi e ruotate in modo da indicare i punti equinoziali e solstiziali, chiaro segno di un intento di natura astronomica e astrologica.

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Ma la sorpresa più grande si trova in fondo alla scala intagliata nella roccia che scende sotto la pavimentazione. Qui, fuori asse rispetto alla cappella superiore, si apre infatti un’eccezionale cripta, nota già dal X secolo ma riempita di detriti e riscoperta soltanto nel XVII secolo, unica nel suo genere.

Non c’è un altare; al suo posto erompe invece una grande roccia sporgente, come un ventre gravido, quello della dea-terra, della Grande Madre.

La luce del sole entra ad illuminarla soltanto nei giorni del solstizio estivo, all’alba, attraverso la finestrella sul lato opposto, accuratamente orientata. Nello stesso istante l’altra finestra, laterale, inquadra perfettamente il “polo celeste”, l’Orsa Minore, con la Stella Polare.

Tre colonne romaniche reggono la volta stretta e due capitelli sono scolpiti con motivi enigmatici. Uno presenta sui quattro lati volute che si attorcigliano come fossero nodi, l’altro mostra genitali e teste di toro, spighe di grano e due pavoni.

È un luogo antico, da sempre frequentato con devozione, che è passato attraverso le dominazioni, le religioni, gli editti e le distruzioni, conservandosi miracolosamente intatto.

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Quando si scende, ci si sente come spaesati, quasi che il tempo perda significato e ci si trovi in un “altrove” che non appartiene a questo mondo. La roccia attrae ogni attenzione, come una divinità assisa sul trono. La chiamano “Pietra della fertilità”, ma è un nome che non rende merito, onore e giustizia a ciò che dimora nel silenzio di quella cripta.

La presenza, nella cappella superiore, della testina identificata con Mitra o Ganimede, per quanto molto posteriore, sembra suggerire che l’ipogeo fosse un luogo di “incubazione”, pratica non soltanto greca, mediorientale e sarda ma anche celtica che, mediante il “sonno” accanto al simulacro della divinità ancestrale, permetteva di riceverne guarigione e messaggi. L’antica grotta potrebbe dunque essere un santuario druidico diventato poi un antro mitraico dove i numerosi legionari del contingente potevano praticare il loro culto.

La cripta di Dromon ha resistito ai millenni. Nonostante l’editto di Teodosio (380 d.C.) e i successivi decreti, che vietavano qualunque forma di culto e perfino l’accesso ai templi pagani, è rimasta gelosamente custodita dai picchi che sovrastano il plateau. Ha attratto fondazioni monastiche e una chiesa è stata eretta su di essa affinché il culto di questo luogo potesse continuare. Tra i suoi muri e ai piedi della roccia sacra ancora dorme il suo sonno il mistero di Dardanus e di Theopoli.

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BIBLIOGRAFIA

Roger Correard, Théopolis. Gite Secret Du Lion, Arqa, 200

Aa. Vv., Bulletin de la Société d'études des Hautes-Alpes, Société d'études des Hautes-Alpes, Gap, 1943


 

Pubblicato in Europa
Lunedì, 30 Gennaio 2017 19:19

Perche si chiama "Répit"?

Il “ritorno effimero in vita dei bambini mai nati” viene spesso indicato con il termine francese “répit”. Si ritiene in genere che il primo studioso “moderno” di questo fenomeno millenario a utilizzare tale termine sia stato Émile Nourry, esperto di folklore, che pubblicò nel 1911 un saggio sul “rito della piuma” con lo pseudonimo di Pierre Saintyves.

I significati etimologici derivabili da tale sostantivo sono molteplici: termine di pagamento; si dice di una persona che si è rimessa dopo una malattia grave; Sosta, sospensione momentanea di un’azione, di un obbligo, di una tensione, di una sofferenza fisica o morale, interruzione, pausa, riprendere fiato, tregua; tempo di riposo, rilassamento, allentamento, sosta, pausa; riposo, rilassamento salutare, pausa di alcuni giorni, anno, istante, giorno, momento, settimana, tempo di pausa.

Ma Saintyves, in verità, permuta “répit” da un passaggio, preso quasi letteralmente, di un corposo lavoro dell'abbé Corblet che, nel 1881, aveva raccolto in otto tomi le sue ricerche sulla storia e le origini del Battesimo e già citava alcuni casi francesi di “ritorno effimero in vita” dei bambini mai nati.

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Secondo il prelato, che non fornisce chiarimenti in merito, la denominazione sarebbe stata coniata in Piccardia e si riferirebbe non al rito, bensì al luogo in cui si svolgeva: “En Picardie on donnait le nom de répits, aux chapelles qui étaient censées jouir de ce privilège miraculeux” (In Piccardia è stato dato il nome di répit, alle cappelle che erano reputate beneficiare di tale miracoloso privilegio).

E poiché, nella regione i “répit”, conosciuti sono soltanto due - la Cattedrale di Amiens e Notre Dame de Liesse - è possibile che il nome o soprannome originario sia fiorito presso uno dei due santuari e in seguito sia diventato di uso comune.

Tra i due, il più antico e più probabile luogo di origine del termine è Notre Dame de Liesse, la cattedrale che custodisce una delle più antiche Vergini nere francesi, che operò prodigi della “doppia morte” per secoli prima che la stessa usanza cominciasse ad essere praticata anche ad Amiens (dove il primo caso risale al 1655 e si verificò nella Cappella dell'Annunciazione, di fronte alla pala d'altare di Nicolas Basset). La sua storia leggendaria è all'origine dei suoi numerosi prodigi tra i primi dei quali, appunto, figura proprio una “doppia morte”: la vita sarebbe stata brevemente restituita, infatti, tra il XII e il XII secolo, al figlio di un mercante borgognone. Si racconta che la madre si fosse addormentata durante il bagno lasciando cadere in acqua il bambino, di soli quindici giorni. Il mercante, tornato a casa, avrebbe trovato la consorte in prigione accusata di infanticidio e il figlio già sepolto da almeno quattro giorni.

Per tentare di salvare dalla pena di morte la moglie, il borgognone aveva infine deciso di disseppellire il corpicino e di portarlo al cospetto del giudice per dimostrare che si era trattato di un incidente. Ma, una volta che il bimbo era stato tra le sue braccia, vedendone lo stato ancora buono di conservazione, si era lasciato andare a una preghiera alla Signora di Liesse - alla quale era molto devoto e che già aveva invocato tempo prima affinché proteggesse quel parto - e improvvisamente il figlio aveva cominciato a dare segni di vita.

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Il nome “répit”, potrebbe celare le sue origini nella leggendaria vicenda della statua della Beata Vergine Nera di Liesse. Per quanto poco o nulla, a parte il colore dominante, richiami quel lontano paese, il simulacro proviene dell'Egitto.

Protagonisti del suo arrivo in terra francese furono i Cavalieri di San Giovanni, stanziati nella vicina Làon, presso l'Abbazia di San Giovanni. La frammentaria ma precisa memoria lasciata dal cancelliere dell'Ordine fra' Melchiorre Bandini, racconta di come, nel 1134, tre dei cavalieri laonesi erano partiti per la Terra Santa e si trovavano quell'anno impegnati al confine meridionale del Regno di Gerusalemme, dove il re Foulques aveva affidato all'Ordine Ospitaliero la fortezza di Bethgebrim, l'antica Bersabea, all'indomani della conquista di Ascalona, presidiata invece dai Templari. Nel mese di Agosto i tre erano caduti un'imboscata tesa loro dai soldati del califfo egiziano mentre pattugliavano la strada di collegamento fra le due città.

Portati in catene fino alle prigioni de Il Cairo, gli aguzzini del califfo avevano senza successo tentato di convincerli a convertirsi all'Islam. Infine il califfo in persona, adirato per la loro resistenza, aveva mandato da loro l'amata e piacente figlia, Ismérie, con la speranza che cedessero alle sue lusinghe. Ma a vacillare era stata invece la stessa “sultana”, colpita dalla parole e dalla venerazione per la Vergine che i tre mostravano. Così, per metterli alla prova, aveva chiesto loro di realizzarne un'immagine, affinché potesse vedere con i suoi occhi questa figura celestiale e aveva dato loro strumenti e un lume. Nella notte, nonostante il Signore d'Eppes, il Signore di Marchois e il terzo cavaliere (di cui non si ricorda il nome), non avessero alcuna velleità e capacità artistica, era accaduto il prodigio. Un angelo aveva scolpito per loro, mentre dormivano, una statua della Vergine.

Il mattino seguente Ismérie, profondamente colpita dalla visione di quella effige, l'aveva portata nei suoi appartamenti. In sogno la Vergine le era apparsa, convincendola a convertirsi e a liberare i tre cavalieri e così era accaduto. Il quartetto aveva viaggiato per giorni nel deserto, cercando di sfuggire ai soldati del califfo, finché si erano addormentati sotto una palma e di nuovo, prodigiosamente, erano stati trasportati fino a Liesse.

Ismérie aveva ricevuto il battesimo con il nuovo nome “Maria” e aveva vissuto presso la cappella, pare, fino alla morte. Il suo corpo santo sarebbe stato sepolto nella navata della nuova cattedrale in costruzione, insieme ai tre eroici cavalieri.

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Dove finisce la storia, però, comincia il mistero. Il racconto si snoda tra la realtà terrena e la dimensione del sogno che si alternano ripetutamente, indicando la precisa volontà di ricollegare e rendere “cristianamente” accettabili fatti che, altrimenti, non lo sarebbero. La verità, se ancora è possibile scorgerla, si nasconde nei dettagli.

I protagonisti sono tre, ma soltanto due hanno un nome, uno invece rimane imprecisato, quasi come se non fosse possibile attribuirgli - o non ce ne fosse bisogno - neppure un titolo oltre a quello generico di cavaliere. Sono dunque davvero tre diversi individui o sono forse le tre (in senso simbolico) “personalità” di uno stesso guerriero?

Quanto a Ismérie, ha un nome davvero insolito e tutt'ora senza una spiegazione esaustiva. Potrebbe essere una corruzione, come molti sostengono, del nome proprio germanico “Ismar”, il cui uso in Piccardia, però, non è semplice da motivare. Compare altrove solo nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, secondo cui si chiamava così la Madre di Santa Anna e nonna della Vergine Maria, di cui non c'é tuttavia, alcuna altra traccia, neppure biblica.

Scarsamente invece, poiché l'idea dominante è che la statua non possa essere venuta dall'Egitto e quindi la storia sia una “devota fantasia”, l'attenzione è stata rivolta proprio ad una possibile origine “moresca”. Nella lingua araba, esiste infatti il termine “izmer” o “zmer/zemer”, dalla radice “zmr” che, variando le vocali inserite (secondo la costruzione lessicale semitica), assume molteplici significati tra cui “cuore”, “avere a cuore” cioè “amare” e “fare musica/cantare”.

Nella forma in cui si presenta potrebbe assumere un valore ”passivo”, quindi potrebbe essere tradotto come “colei che sta a cuore a”, “l'amata da”. E questo è precisamente l'equivalente dell'antico titolo egiziano “mer-i-amon”, “amata da Amon” (e anche “nel cuore di Amon”), con cui veniva invocata la dea Iside. Più precisamente il nome completo era Is (is) Meri-a(mon), da cui potrebbe essere stato derivato Isméria/Ismérie.

Curiosamente, poi, il nome Ismérie viene attribuito indifferentemente sia alla “sultana” convertita che alla sacra effige di Nostra signora di Liesse. Essa stessa è Ismérie. Il motivo di questa confusione, solo apparente, è nella particolare spiegazione, assolutamente non gradita a Santa Romana Chiesa, che anticamente i fedeli di Liesse davano della venerata statua. In essa non vedevano un Madonna con Bambino, bensì - ce lo ricordano i primi “storici” che scrissero dei fatti di Liesse - la principessa egiziana Ismérie assisa in trono che “presenta” la Vergine. Quest'ultima dunque sarebbe stata rappresentata come una giovane Maria, Maria Bambina o Maria Nascente.

Così l'immagine ricorda molto la scultura antica egizia, non nelle forme ma nell'impostazione, con la divinità di grandi proporzioni, ai cui piedi o presso le cui ginocchia sta il faraone, di proporzioni nettamente più ridotte, che è anch'egli una divinità, ma di “rango inferiore”, più “terreno”, non ancora assunto nelle schiere celesti, in divenire.

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L'aiuto provvidenziale che la Vergine Nera Ismérie elargisce è la “liberazione dalle costrizioni” (dalle catene): emancipa la principessa dalla non-fede (dalla non-credenza nella Vergine cristiana), attraverso di essa affranca dai ceppi i tre cavalieri e infine riscatta il quartetto dalla permanenza forzata in terra straniera, trasportandoli nel sonno fino a Liesse.

Questa stessa particolarità è propria della dea Iside Egizia in quanto “mer-i-amon”, in un suo particolare aspetto venerato, come altri, nell'immagine di una misteriosa e assai invocata dea dalla testa leonina (il leone è rappresentazione della forza che si sprigiona) che aveva templi da Elefantina ad Athribis. Africana era la sua origine, non tanto per la pelle scura (con cui tutti gli dei egizi venivano raffigurati) quanto perché rappresentata accanto a una gazzella, animale delle savane e tipica preda del leone, ma che il leone “può decidere” di lasciare libera.

Altrettanto “africana” doveva essere Ismérie, spesso indicata come “soudane”, non nel senso di “sultana” ma di “sudanese”: il padre è infatti stato identificato in uno dei califfi/imam egiziani (al-Ḥāfiẓ li-dīn Allāh), non in un sultano (il primo sultano d'Egitto fu Saladino, nominato nel 1175/1176).

La dea egizia era la protettrice delle cataratte, i “salti” o cascate del Nilo, vere e proprie porte attraverso cui l'acqua scura del fiume poteva raggiungere i campi e fertilizzarli. La sua benevolenza era della massima importanza affinché le cateratte rimanessero aperte, altrimenti l'acqua sarebbe rimasta imprigionata negli altipiani africani.

Era colei che “apriva la porta degli eoni”, poiché il giogo dei giochi, la prigione per eccellenza è il tempo, della cui progressione era la divinità. Era dunque il nume del rinnovamento, del tempo eterno e del rinnovamento. Poiché era “nel cuore di Amon” rappresentava il “cuore ideale” del defunto, leggero come la piuma, così da essere immune alla bilancia di Anubis, liberò dall'afflizione del tempo e degno di entrare nell'eternità.

Era venerata con mille nomi - Ahemait, Amam, Ammemet, Ammit, Ammut, Amtent, Aperetiset, Triphis (presso i greci) - e aveva il proprio importante sacrario nel tempio della nascita di Dendera e in tutti gli altri templi legati alla nascita terrena e alla rinascita. Ma aveva un nome particolare, lo stesso con cui veniva designata l' “immagine perfetta” di ogni Dio, come la miracolosa immagine di Liesse.

Il suo nome era Répit.

Ismérie, l'antica di tutti gli antichi è l'immagine (répit) di sé stessa che si rinnova (ringiovanisce, si mostra come bambina) in accordo con i nuovi tempi, liberandosi dal giogo della propria “vecchiaia”. La principessa “sultana” altrettanto, aveva visto sé stessa rinnovata e se ne era fatta veicolo, così come era accaduto a un'altra Maria a Nazareth molto tempo prima.

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Liesse è il luogo (in occidente) del nuovo rinnovamento, così come l'antico luogo (in oriente) è l'Egitto (antico). Proprio questa liberazione da una certa “spiritualità antica”, per quanto cristiana, a favore di una spiritualità nuova, ma che nello stesso tempo è più vicina a quella primordiale, è ciò che con buona probabilità, cercavano e sperimentavano i Cavalieri di San Giovanni e i loro fratelli Templari, almeno nelle iniziali intenzioni. Tant'è che a Malta, fin dal 1620 esisteva una chiesa dedicata a Notre-Dame-de-Liesse, in quanto “patrona” dei Giovanniti, che era stata costruita a spese personali del bailo d'Armenia fra' Giacomo Chenn de Bellay. Tra le sue mura si conservano tutt'ora le spoglie di San Generoso, personificazione della tenera prodigalità della Nera Vergine; un dipinto del 1623 del Casarino (allievo di Caravaggio) raffigurante San Mauro che guarisce un fanciullo e un altro dello stesso autore che ritrae San Luigi, annoverato tra i patroni del répit.

A chi portare, dunque un fanciullo morto prima-del-tempo se non a colei che del tempo-che-ritorna è Signora?

 

 

[Le foto di questo breve saggio sono tratte da Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse-Notre-Dame, 1862]

 


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BIBLIOGRAFIA

Bandini, (frà) Mechiorre, Historia di Detta Religione, 1464

Corbet, (abbé) Jules, Histoire dogmatique, liturgique et archéologique du sacrement de baptême, Paris, V. Palmé, 1881

Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse Notre Dame, Liesse-Notre-Dame. Pottelain-Masson, 1862

Duployé, Aldoin, Notre-Dame-de-Liesse: légende et pélerinage, Laon, Brissard-Binet, 1862

Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Légende et cantique de Notre-Dame de Liesse, Laon, Ed. Fleury, 1862

Le Clere, Adrien, Des pélerinages de Notre-Dame de Liesse, Paris, Librairie de A. Le Clere et Cie, 1833

Petrie, William Matthew Flinders, Athribis, in Britsh School of Archaeology in Egypt and Egyptian Research Account XIV year 1908, London, Office of School of Archaeology University College, 1908

SaintYves, Pierre, Les résurrections d'enfants morts-nés et les sanctuaires à répit, in Revue d'ethnographie et de sociologie II (1911), Paris, Ernest Leroux, 1911

Villette, Etienne Nicolas, Histoire de Notre-Dame de Liesse, Laon, A. Rennesson, 1708

Villette, Etienne Nicolas, Histoire de l'image miraculeuse de Notre-Dame de Liesse: avec discours préliminaire sur la vérité de cette histoire, & sur l'antiquite de la chapelle de Liesse, Laon, C. Courtois, 1743


 

Pubblicato in Ritualia
Giovedì, 08 Settembre 2016 12:06

Varchignoli: orti del cielo, giardini di gioia

Salendo la stretta strada che da San Bartolomeo penetra nella valle Antrona, laterale dell'Ossola, si incontrano quasi subito piccoli borghi aggrappati alla montagna che una volta erano abitati da vignaioli.

Gran parte del declivio montuoso è stato trasformato, in tempi passati, in terrazze delimitate da poderosi muri a secco, nei quali si aprono decine di ambienti di ignota destinazione e sotto i quali scorrono canalizzazioni d'acqua.

Solo negli anni '80 e '90, però, gli studiosi si sono accorti che l'intera struttura era molto più antica di quanto si pensasse. È un piccolo tesoro di mura megalitiche, buie camere sottofascia e strutture riferibili ad attività agricola, che potrebbe essere stato concepito almeno dieci o venti secoli prima di Cristo.

 “Io, Assur-na¯sir-apli,

non smetto di cogliere frutti

nel giardino della gioia”

(stele di Assurbanipal)

 

A cosa poteva servire? Poiché fino a poco tempo fa, a Varchignoli si coltivava la vite, che cresceva proprio su alcuni di quei terrazzamenti e veniva fatta correre su pali tenuti dai “palanghér”, la spiegazione che gli studiosi hanno dato é, appunto, che già millenni fa l'uomo svolgesse la medesima attività. Tale conclusione è però non più che un'ipotesi. Per loro stessa ammissione, infatti, se fosse vero, l'apparizione della viticoltura a Varchignoli sarebbe avvenuta con un difficilmente spiegabile “rilevante anticipo sui tempi”.

Sorvolando sull'inevitabile e deplorevole abbandono in cui versa il sito (dopo gli iniziali interventi e la costituzione di un piccolo museo, la comoda incertezza che erode l'autorevolezza e l'indolenza atavica che affossa ogni slancio hanno avuto la meglio!) molti sono i dubbi e le domande che rimangono aperti. Ma più di questo non sembra possibile dire, a meno che futuri ritrovamenti offrano nuovi spunti.

VarchignoliAbus

Casa de' Conti (Varchignoli): nicchia con copertura a tòlos (probabile tomba)

usata come "inceneritore" per gli sfalci del bosco

Così, non si riesce ancora a motivare le conoscenze dei suoi realizzatori, la particolare localizzazione dell'insieme o la presenza e l'utilità delle camere sotterranee, che hanno manifestamente un aspetto “cultuale”, oppure ancora delle innumerevoli doppie-scale monumentali addossate ai muri o da essi emergenti, visibilmente in esubero rispetto alla reale necessità di spostarsi da una balza all'altra e di solito affiancate a formare doppie scalinate opposte convergenti o divergenti.

Invero, se ci si perde per un po' tra le balze terrazzate, respirando l'aria umida che fluisce dalle vetuste condotte idriche ormai prosciugate e sostando in silenzio accanto alle mura poderose, il sospetto che non si tratti di un semplice impianto agricolo, alla fine viene.

Da buon curioso ma “non addetto ai lavori” dopo ripetuti pomeriggi in solitudine trascorsi a Varchignoli, mi sono fatto “la mia idea”, attingendo alla mia povera sensibilità. E qui umilmente, come sempre, la propongo.

Cardine di tutto l'insieme, sembra siano i “palanghér”, null'altro che fori praticati in una lastra orizzontale di pietra lungo i muri di pietra, in modo da inserirvi la base di un palo, fatta poi appoggiare su una mensola al di sotto, o fissata con cunei. Sui pali si poteva poi far crescere la vite. E non solo quella. Almeno è così che fin dal medioevo la coltivazione viticola si sarebbe sviluppata.

Sembra che esistessero due tipi di “buche da palo”: quello più antico formato da due metà avvicinate, come fosse una tenaglia; quello più “moderno”, a foro unico praticato in una pietra piatta.

Ho guardato bene... i tipi potrebbero essere invece tre, se non quattro. I palanghér a foro unico, infatti, presentano spesso curiose (e oserei dire “volute”) svasature del foro, più aperto a volte verso il basso, a volte verso l'alto.

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Sono insomma “polarizzati”, come se dovessero raccogliere qualcosa dal basso (o dall'alto) per convogliarlo (e addensarlo filtrandolo) dalla parte opposta. Lo stesso può dirsi del “tipo vecchio” in cui le due “braccia” sono sempre dissimili per dimensioni.

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E quando capita di scorgere diversi di questi dispositivi, ad altezze differenti e polarizzazioni varianti, la mente li riconosce intuitivamente come una sorta di enorme “tastiera”, fatta per suonare suoni invisibili e soavi.

Posizionati sulla verticale della bocca di una canalizzazione, ai piedi di una delle scalinate ad aggetto lungo i muri, poi, paiono proprio comporre la sezione longitudinale di uno di quegli incredibili pozzi sardi, con un piccolo buco svasato sulla sommità, quasi un invito al Cielo a “buttarsi in acqua” passando da quello stretto foro.

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E le scale... le scale... troppe, ridondanti e disagevoli. Lo spazio per scalinate più ampie e sicure non mancava di certo! Sono quasi sempre a coppie, divergenti o convergenti secondo la necessità. Di nuovo i paralleli con altre culture non mancano. Pare di vedere l'interno del meraviglioso pozzo Chand Baori ad Abhaneri, nel Rajastan, risalente al VII secolo. L'invaso circondato da scale divergenti/convergenti consente di raggiungere l'acqua sul fondo, che le scalinate rendono “nettare della gioia” (come la dea cui il pozzo è dedicato).

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C'é anche un particolare sito a una manciata di chilometri da Cuzco, in Perù, che fa il paio con Varchignoli. Fu ricavato terrazzando una conca a Tipòn. Non si sa con certezza quando. Doppie scale punteggiano le mura di contenimento e le acque incanalate dalle sorgenti della montagna vi scorrono accanto. Di nuovo, in questo caso, i gradini ad aggetto non paiono avere un'effettiva funzionalità, anche in considerazione della presenza di ben più comode scalinate frontali che collegano i terrazzamenti. Anche di Tipòn si dice che fu un'installazione ad uso agricolo.

L'immagine più vivida che queste doppie scale richiamano è però quella dei fregi sopra gli ambienti trogloditici della meravigliosa Petra, in Giordania. Nella capitale dei Nabatei, per molto tempo fiorente e strategico snodo commerciale del medioriente, la decorazione sul fronte delle case sembra fosse un'indicazione imprescindibile dei suoi occupanti. Dicono gli archeologi che, in città, case e tombe di oriundi egizi fossero sormontate da piramidi, mentre le doppie scale incoronassero le case e le tombe dei Nabatei: la doppia scala convergente indicherebbe le sepolture, mentre la variante divergente le abitazioni o comunque ambienti riservati ai viventi.

Così, a distanza di migliaia di chilometri e di anni da Varchignoli, ricompaiono gli stessi simboli polarizzati: le scale divergenti a indicare “vita” e quelle convergenti l' ”altro mondo”. Ma a Petra è per lo più l'unica traccia che si può seguire per tentare di collocare le grandiose facciate scolpite nella roccia rosata e le camere che custodiscono.

Anche a Varchignoli non esiste un'indicazione chiara e valida del motivo per cui numerose camere furono ricavate sottofascia. Diverse per dimensioni, impianto e tipologia costruttiva, presentano coperture megalitiche realizzate con lastroni (forse già presenti e sotto i quali furono ricavate), con lastre e pietre più piccole oppure “a tòlos”, una sorta di “cupole” ante-litteram spesso adottate per gli ambienti di sepoltura. Ciò farebbe propendere per un uso “cultuale” almeno di alcune.

In certi casi internamente sono state ricavate “panche” la cui funzione è ignota, oppure nicchie.

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Per parte mia, ho constatato quanta perizia sia stata messa nelle loro impostazione e non solo nella loro costruzione. Se, dunque, nulla fu “fatto a caso”, l'orientamento, le dimensioni, la tecnica, lo stile potrebbero rappresentare validi indizi sulla loro reale funzione.

Una delle più ampie, quella contrassegnata con i numeri di rilevamento 171-172 (località “Valin Bianch”), è comodamente raggiungibile dalla parte più occidentale del muro in cui è ricavata, confinante con terrazzamenti piuttosto ravvicinati e larghi, anche se crollati. In posizione opposta, dove il muro è più elevato c'é l'immancabile scala discendente in direzione dell'ingresso.

Il muro in cui si apre la camera non è rettilineo, bensì curvo: una doppia curva studiata, come quella di certi “oranti” rinvenuti nei pittogrammi rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio, non lontano da qui.

e ci si pone a questo punto con le spalle all'ingresso della camera, si nota subito un particolare: è orientata perfettamente verso il punto in cui il sole scompare dietro le montagne al tramonto del Solstizio Invernale (21 dicembre).

La parete di fondo però é inclinata, si rivolge ad un punto diverso, l’ovest, che la cima più alta del panorama contrassegna perfettamente e che corrisponde al tramonto equinoziale. 26° circa più a nord-ovest il sole tramonta al Solstizio Estivo, disegnando, a partire da alcuni gradi a nord dell’ovest un cono d’ombra nella camera, che si estende fino all’unica pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.

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Al tramonto Solstizio Invernale mentre la “bocca” inquadra il punto in cui il sole viene occultato dalle montagne (stagliandosi sul Capricorno), la via lattea, in verticale sulla direzione ovest si “riflette” sulla pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.

Al tramonto Equinoziale mentre Il sole, stagliandosi sull’Ariete, si riflette sul fondo della camera e la “bocca” indica la costellazione dell’Aquario.

Al tramonto del Solstizio Estivo, infine, la parete di fondo inquadra la costellazione del Leone, mentre la “bocca” abbraccia la Vergine.

Così accadeva nel 1350 a.C. circa, la data approssimativa nella quale secondo gli studiosi, sarebbe stato costruito in complesso di Varchignoli.

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La mia ipotesi è che, perciò, questa struttura (e di conseguenza anche le altre) sia una “camera di risonanza” attraverso cui richiamare, condensare e avvicinare una certa porzione zodiacale del cielo alla terra. Ciò non contraddice l'idea che Varchignoli possa essere nato come impianto agricolo, piuttosto riveste di una nuova importanza i frutti della terra che qui si coltivavano.

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Se la mia ipotesi è corretta, qui non si coltivava soltanto la vite. Inoltre, se erano importanti i periodi di semina individuabili attraverso i movimenti solari (le camere funzionavano forse anche come “orologi”) e probabilmente anche lunari, altrettanta importanza dovevano avere i legami di ciascuna specie seminata con il rispettivo “maestro” celeste e il corrispondente “nume” ipogeo.

Di tali misteriose associazioni, che potremmo impropriamente definire “astrologiche” in effetti qualche traccia documentale si è trovata. Il controverso “La Dea Bianca” di Robert Graves, ad esempio, mal compreso da molti e travisato da molti altri, ne è un notevole compendio.

Forse Varchignoli e le aree circostanti erano un insieme unico e altamente organizzato, suddiviso in aree delle giuste dimensioni, in cui era presente il “richiamo” a una precisa parte del cielo e nella cui terra veniva seminato il vegetale che si riteneva corrispondervi.

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L'acqua pura sapientemente incanalata vivificava il suolo, scale e “palanghér” (almeno quelli che non sostenevano nulla) aumentavano l'effetto, ricomponendo gli eccessi e riequilibrando i difetti.

Così, i frutti della terra diventavano “pomi d'oro”, cibi celestiali, il nutrimento da offrire agli dei.

Alcuni ambienti sotterranei non è escluso fossero destinati alla sepoltura dei custodi di quel luogo che, in tal modo, avrebbero potuto continuare a vegliarlo anche dall'aldilà. Altri ambienti infine, potevano essere “di riequilibrio” per gli esseri umani sullo stesso principio di corrispondenza fra gli astri e i diversi “tipi” umani.

Forse Varchignoli era simile ai leggendari “giardini pensili di Babilonia”.

L’acqua incanalata scendeva dall’alto fino ai giardini; i viali sono odorosissimi, le cascatelle brillano come gli astri del cielo in questo giardino di delizie. I melograni, coperti di grappoli di frutti come la vite di uva, ne aumentano il profumo. Io, Assur-na¯sir-apli, non smetto di cogliere frutti nel giardino della gioia...”. Così si legge nella stele di Assurbanipal.

I giardini babilonesi, avevano anche un altro nome: “Al suo palazzo egli fece ammassare pietre su pietre, fino ad ottenere l’aspetto di vere montagne, e vi piantò ogni genere di alberi, allestendo il cosiddetto «paradiso pensile»”.

Erano un “paradiso” in terra, un giardino di delizie riservato ai re, agli dei e agli eroi, come quello delle Esperidi.

Forse lo era anche Varchignoli.

 


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BIBLIOGRAFIA:

AA.VV., Megalitismo in Ossola?, Atti del convegno, in Oscellana XX, Domodossola, 1990

Bertamini, Tullio, E dalla pietra il vino, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003

Bianchetti, Gian Franco, Varchignoli: il contatto con le origini, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003

Caramella, Pierangelo e De Giuli, Alberto, Archeologia Alto Novarese, Antiquarium Mergozzo, Mergozzo, 1993

Chevalier Jean e Gheerbrant, Chevalier, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 1986

Copiatti, Fabio e De Giuli, Alberto, Sentieri antichi. Itinerari archeologici nel Verbano, Cusio, Ossola, Grossi, Domodossola, 1997

Copiatti, Fabio, De Giuli, Alberto, Priuli, Ausilio, Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola, Grossi, Domodossola, 2003

De Santillana, Giorgio e Von Dechend, Hertha, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano, 1983

Gaspani, Adriano, Astronomia e antica architettura sull'arco alpino, Priuli&Verruca, Ivrea, 2009

Graves, Robert , La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1992

Negri, Paolo, Varchignoli: l'affermazione del megalitismo in Ossola, in Oscellana, XXIII, Domodossola, 2003

Piana Agostinetti, Paola, Il vino dei Leponti. Ipotesi sull’inizio della coltivazione della vite nelle Alpi Centrali, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003


Pubblicato in Italia
Giovedì, 09 Giugno 2016 18:15

Santa Cazzuola

Raccontano le agiografie che all'alba del Cristianesimo nel Nord Italia, sulle rive del Lago d'Orta erano giunti due fratelli predicatori dalla lontana Grecia. Le gesta dei fantomatici Giulio e Giuliano sono piene di accadimenti prodigiosi. Tra le tante, è curiosa la storia di come, mentre l'uno erigeva San Lorenzo a Gozzano e l'altro la futura Basilica sull'isola in mezzo al lago, si lanciassero l'un l'altro l'unica cazzuola e l'unico piccone che possedevano. Gli arnesi volavano dunque di continuo per chilometri, cascando alternativamente nella mani di questo e di quello che, in tal modo portarono avanti contemporaneamente i due divini progetti. Si dice che una volta Giuliano non si sarebbe accorto dell'arrivo volante del piccone e che si sarebbe di conseguenza ferito una mano per cercare di acchiapparlo. Lo schizzo di sangue lasciato su una pietra diventò oggetto di intensa devozione.

Identica faccenda pare essere accaduta anche sulle rive del Lago Maggiore, poco più a est. Qui sorge, sulle alture varesotte di Ranco, una placida, millenaria chiesa dedicata a San Quirico. Si racconta che fu edificata da un qualche “monaco errante”, che aveva viaggiato insieme ad un confratello, il quale aveva proseguito fino al Monte San Salvatore sopra Massino Visconti, sull'opposta riva del lago.

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San Quirico al Monte (Ranco di Angera) - fonte: Wikipedia

Mentre l'uno innalzava San Quirico, l'altro costruiva la primitiva chiesa che probabilmente pre-esisteva al santuario benedettino che vi sarebbe sorto nell'anno Mille.

Di nuovo, a causa della mancanza di attrezzi, si vide per diverso tempo una cazzuola sfrecciare fischiando di traverso al lago, da una chiesa all'altra. Di tale mirabolante prodigio sarebbe stata ripetutamente testimone tale Servilia, rifugiatasi nei boschi circostanti insieme all'anziano padre per sfuggire ai dominatori longobardi.

Più tardi le leggende finirono per sovrapporsi e i due santi monaci cristiani di Angera (Ranco) e San Salvatore diventarono Giuliano e Giulio, i quali vi sarebbero arrivati dopo essere passati dalla vicina Brebbia e prima di giungere ad Angera. Dei due, ovviamente, Giulio si sarebbe occupato di San Salvatore, “andando avanti” lungo la strada, come poi avrebbe fatto anche tra Gozzano e Orta.

Una volta di più è valido ciò che ormai molti storici confermano e cioè che le agiografie dei santi furono creazioni molto più tarde di quando i supposti santi sarebbero vissuti, confezionate ad arte su modelli stereotipi ben definiti. Del resto, a parte quella leggendaria storia che le accomuna, le due chiese non sembrerebbero avere nulla a che fare l'una con l'altra.

Cambia il lago, cambiano i protagonisti e la faccenda si ripete. Ma l'ispirarsi ad una medesima fonte per redigere le agiografie, forse, non spiega ogni cosa. Dovrebbe essere quantomeno sospetto che sia stato inserito un evento tanto strano e poco rappresentativo in luoghi diversi e differenti storie di santi.

 

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Monte San Quirico (Ranco di Angera), vista dalla riva occidentale del Lago Maggiore

San Quirico Al Monte è dedicata a un santo bambino. Senz'altro è essa stessa una chiesa-bambino. Però Quirico è di solito accompagnato dalla figura materna. Essendo questo un caso in cui la dedicazione è riferita soltanto a lui e non a “Quirico e Giulitta”, la “madre” dove può trovarsi?

Il “lancio della cazzuola” avanti e indietro, come a tessere una tela invisibile, conduce inevitabilmente a San Salvatore. Non è difficile immaginare che tale Santo non sia probabilmente la dedicazione originaria. La “Salvezza”, il Cristo evangelico, venne dal grembo della “Madre”, Maria e forse proprio a lei fu intitolata, prima dell'arrivo dei Benedettini la sommità del monte. Come già intonava una celebre preghiera mariana orientale, Sub Tuum Praesidium: «Proteggici o Madre di Dio / sotto la Tua ala da ogni pericolo: / Tu sei il nostro rifugio, la nostra massima speranza...». La Theotokos è dunque anche la fonte della “speranza di salvezza”.

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Abbazia/Santuario di San Salvatore (Massino Visconti)

Del resto il monte, prima dell'arrivo dei benedettini, si chiamava “Biviglione”, con il significato di “(montagna) delle grandi betulle”. L'albero in questione è di certo di natura femminile e femminili erano le “vesti” con cui veniva adornato nei giorni della Pentecoste (mese di Maggio, il mese della Vergine Maria) prima di essere gettato nel fiume per propiziare la pioggia. Nelle saghe europee e soprattutto nordiche è infatti un albero della vita, un veicolo della creazione e precisamente l'entità arborea che dona la luce al mondo.

 

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Non a caso, dal XV secolo, quando il monastero passò agli Agostiniani, proprio questi ultimi vi portarono (o riportarono) il culto della Madonna, quella detta “della Cintura”, di origini bizantine. L'originale, la reliquia della cintola, una sorta di fascia indossata sopra i fianchi per reggere le vesti, pare fosse custodita a Bisanzio-Costantinopoli nella chiesa di Santa Maria Chalchoprateia, in un prezioso reliquiario, la Santa Cassa.

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Madonna della Cintura (statua moderna) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

C'é poi un curioso legame con la femminilità e l'atto creativo nascosto nelle “absidi da celebrazione” del complesso di San Salvatore. Questi curiosi ambienti semicircolari sovrapposti voluti dai benedettini e la cui funzione non è chiara, hanno infatti dedicazioni non casuali: Santa Margherita di Antiochia, Maria Maddalena e lo stesso San Quirico! La prima è la patrona delle partorienti, l'ultimo dei fanciulli ed è fanciullo egli stesso e ciò porta a supporre che nella loro presenza fu codificata una vera e propria venerazione per l'atto spirituale e terreno di “creazione e manifestazione della vita” nelle sue tre fasi salienti.

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Ecco dunque la chiesa “madre”, in cui il bambino è presente e la chiesa “bambino” sull'altra sponda del lago. La cazzuola parrebbe dunque una sorta di legame invisibile tra i due luoghi, mantenuto vivo attraverso il suo andirivieni “sul filo della cintola”. Il “dono della cintura” fatto dalla Vergine a Santa Monica (madre di S.Agostino), all'origine di tale culto, era infatti un chiaro simbolo di appartenenza e di fiducia insieme, come già era stato scritto in Isaia 11,5: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà”.

 

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Scala santa e ingressi delle absidi da celebrazione - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Quanto allo strumento attraverso cui viene indicata la “cintura invisibile”, un attrezzo da costruttore, è facile ricondurlo ai simbolismi del compagnonage libero-muratorio, per lo più come indicazione di una volontà precisa e studiata, appannaggio di pochi sapienti.

Se poi si cerca un motivo per cui la cazzuola sarebbe stata messa nelle mani di Giulio e del suo fantomatico “fratello” Giuliano, di nuovo San Salvatore offre uno spunto curioso nella figura di una delle dedicatarie delle cappelle da celebrazione. Prima di Giulio, già Santa Margherita di Antiochia era stata una “ammazzatrice di draghi”, una “sauroctona”.

Infine vale la pena soffermarsi su un dettaglio del Libro di Isaia. Due sono le “cinture” ricordate. Una è quella chiamata dai greci “zone”, la cintura vera e propria annodata soprai fianchi, che è il segno della fedeltà, della fede che è come un “filo” che “mantiene” un legame, una promessa come quella dei Templari che indossavano, per tale motivo, un filo di candido lino in vita, sopra l'armatura... la promessa della salvezza, appunto, su cui fu edificato il Monte San Salvatore.

L'altra è invece quella indicata in Grecia come “strophinon” ed è la fascia che avvolge il seno, annodandosi nella zona renale/lombare, segno di giustizia, secondo Isaia. Forse anche questa “fascia invisibile” esiste sul Lago Maggiore.

Poco più a nord di San Quirico al Monte, sorge infatti l'antico Eremo di Santa Caterina del Sasso, fondato, si racconta, come ex-voto dal mercante Antonio Besozzi, scampato ad una violenta tempesta mentre attraversava il lago.

Esattamente di fronte, sull'opposta sponda, fra le alture di Stresa, esiste un altrettanto antico oratorio, quello della Madonna di Passera, la cui leggenda di fondazione è identica a quella dell'eremo: di nuovo ne è protagonista un mercante, di vini questa volta, salvatosi miracolosamente anch'egli da un nubifragio mentre attraversava le acque del Lago Maggiore.

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Leggenda di fondazione (miracoloso salvataggio da naufragio) - Oratorio della Madonnadi Passera, Stresa

La coincidenza dei fatti non è passata inosservata. Più nascosto invece il legame tra i due luoghi e le rispettive dedicatarie. Da una parte vigila la santa alesandrina -forse mai esistita, forse confusa con l'eroica Ipazia- patrona dei giuristi, degli uomini di giustizia; dall'altra parte si venera la Presentazione della Vergine al Tempio. Tale è la denominazione esatta dell'oratorio. Ma la Madonna fanciulla presentata al Tempio ha anche un altro nome: Madonna della Salute.
La salute è integrità. L'integrità è giustizia. E una fascia sottile, la stessa che tenne sollevati i mercanti naufraghi dalle onde del Lago, è ancora tesa fra le due.

 


BIBLIOGRAFIA

Aa.Vv., Ranco, civiltà e storia del Lago Maggiore, Nicolini, Gavirate, 1991

Manni E., Massino Visconti e il Santuario di San Salvatore, Capelli, Varallo, 1975

Vincenzo De Vit, Il lago Maggiore, Stresa e le isole Borromee: notizie storiche, A.F. Alberghetti, Prato, 1875-1878

Lucia Sebastiani, Culto dei Santi, feste religiose e comunità della Lombardia post.tridentina, in Verbanus nr.VII, Alberti Libraio, Intra, 1986

Piero Orlandi e Gian Carlo Botti, Monasteri e conventi in Lombardia, Celip, 1988

Luciano Besozzi, De Besutio, Lulu.com, 2012

James Frazer, Il ramo d'oro. Studio della magia e della religione, 2 voll., Torino: Einaudi, 1950

Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1992

Alfredo Cattabiani, Florario: miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1992

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur-Rizzoli, Milano, 1999


Pubblicato in Cose
Sabato, 28 Novembre 2015 09:36

Il volto della luce

Chi è la Signora delle Rocce? Così viene chiamato nel 1052 il nume tutelare di un remoto villaggio dell'alta Provenza, la cui dimora sorge tra i bastioni a picco sul minuscolo centro abitato.

Cinque fonti di acqua pura sgorgano da sempre nella stretta valle del ranvin d'Anguire e si gettano in uno dei torrenti che danno vita al meraviglioso spettacolo naturale delle Gorges Du Verdon, non prima però di aver alimentato le fontane e i lavatoi del paese, zampillando qui e là tra le case accarezzate dal sole.

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Il mio nome è Signora dal Bel Viso (incarnato)

il mio nome riespande la luce.

Chi viene verso questa soglia è colui che desidera luce

 

Reperti vecchi di 30.000 anni raccontano che l'uomo già saliva a rendere omaggio e supplica a quell'antica dea in epoche così remote da non esser più ricordate. Millenni più tardi, nel V secolo, ai tempi di San Fausto e di Sidonio Apollinare, esisteva un tempio, tra queste pareti di roccia.

Lì, dove si levava un altare della terra, ne fu alzato uno nuovo alla Vergine e al suo volto, al viso benevolo e scintillante di luce che essa mostra al nobile pellegrino, giunto ad onorarla. La chiesa viene già citata nel 1009, nell'atto di donazione firmato da tale Rostaing. Nel 1052 si insediano a Moustiers alcuni canonici regolari provenienti dall'abbazia di Lerìns. Meno di cinquant'anni più tardi, il signore del borgo, Guillame e la sua sposa Adelais cedono ai monaci la chiesa detta di «Santa Maria dell'Annunciazione sotto il nome di Roca», insieme a tutti i loro averi nel «Castello Monasterii».

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L'intitolazione «in Roca» pare sia stata decisa addirittura da Carlo Magno. Il ritrovamento nei dintorni del paese di una villa di epoca carolingia, sembra avvalorare la leggenda.

Il pellegrinaggio a questo straordinario santuario, così prodigo di miracoli, ben presto diventa uno dei più importanti della Provenza e oltre. Viandanti di ogni rango, ceppo e classe attraversano le foreste dell'entroterra sud-orientale della Francia per recarsi alla prodigiosa cappella. Giunti al paese salgono faticosamente la stretta mulattiera tra le rocce, accompagnati soltanto dallo scrosciare delle acque del ranvìn e infine l'avvistano.

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Austera nelle sue forme romaniche e gotiche insieme, con il suo alto campanile (22 metri) ornato da un grande orologio, la cappella attende nel silenzio i pellegrini e i bisognosi. Hanno sostato brevemente in paese e pregato nella chiesa parrocchiale, hanno chinato umilmente la testa ai piedi di Santa Filomena, «quella dei prodigi impossibili», che custodisce l'accesso al sacro recinto del «Belvolto» e ora sono al cospetto della Vergine luminosa, il cui figlio li attende a braccia aperte sopra l'arco di ingresso.

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La chiesa e la cappella sono parte di un unico disegno vitale. La cappella, lassù tra le rocce, è il frattale energetico del vallone stesso. Come due bastioni, che paiono piedi, uno un po' più avanti ed uno un po' arretrato, ne custodiscono l'ingresso, così due alti cipressi svettano davanti al portale della cappella. La scalinata li avvolge, ma non li tocca, come se fossero lì da sempre, da molto prima che i gradini fossero messi in opera. Diceva Confucio che «gli yin piantavano cipressi presso gli altari della Terra».

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Oltre i 12 gradini, l'ingresso è asimmetrico rispetto alla scalinata e ai due cipressi, così come la vallata procede curvando verso la montagna. Sei archi, con profili alternativamente spigolosi e tondeggianti, in un preciso ritmo di polarizzazione, attraggono il pellegrino verso la porta.

L'interno è grigio e austero, la volta alta e sfuggente, il transetto solo accennato. L'altare - oggi coperto da un paramento barocco rivestito d'oro - è lontano, quasi soffocato nella luce crepuscolare, come un baluginio in fondo a una galleria. Avvicinarsi alla madre «graziosa» è arduo, pesante, come risalire la corrente di un fiume in piena. Poi, finalmente al cospetto della madre antica, è impossibile reggere il suo sguardo e sostare proprio di fronte ad essa. Tale è la sua immane potenza, tale è la vita che da lei sgorga, da essere insostenibile per l'uomo. Solo ai bimbi che nascevano già morti era concesso. Qui, dove ogni cosa accadeva e nulla era impossibile, la luce del volto della Vergine era così forte da ridare la vita perfino agli sventurati che non ne avevano potuto beneficiare. Durava il tempo di un solo respiro, ma era sufficiente ad impartire loro il Battesimo, necessario a sottrarli dalla dannazione eterna del limbo.

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In questa cappella, si svolsero innumerevoli e incredibili fatti legati a questo rito, tra i più interessanti e documentati. Se ne contano ben 336 andati a buon fine in soli 30 anni! Molti di più ne avvennero, ma di intere annate di questo periodo – il 1667, il 1640 e gran parte del 1641- la memoria è andata perduta.

Stupisce e meraviglia che tutti siano stati confermati e controfirmati non soltanto dai sacerdoti e dai presenti ma anche da notai, avvocati, magistrati, personalità in vista, celebri viaggiatori e perfino autorità militari, medici e chirurghi. Molti di essi, dapprima scettici, dovettero ricredersi di fronte a tali prodigi!

Di tutti gli accadimenti occorsi tra il 1659 e il 1673 i curati tennero diligentemente registro negli stati delle anime parrocchiali. Dopo il 1670, tutti gli atti e le testimonianze furono raccolti in un apposito registro, il «Libro dei nati-morti che sono portati alla cappella di Notre-Dame-De-Beauvoir di questo paese di Moustiers, i quali, avendo ricevuto il Battesimo grazie a un miracolo particolare concesso dalla Vergine, sono inumati nel cimitero della parrocchia». Insieme al nome del bambino e alla data di morte e rinascita venivano minuziosamente indicati i nomi di genitori, testimoni, i segni di vita manifestati, i sacerdoti che avevano impartito il Battesimo e le informazioni relative all'inumazione nel cimitero di Moustiers.

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Il libro, purtroppo, andò irrimediabilmente perduto, ad eccezione di qualche foglio. Fu il curato Félix a ricostruire per primo la memoria storica di questi fatti, un secolo più tardi, rintracciando 123 casi. Dalle successive ricerche risultano essersi verificati 2 «ritorni temporanei in vita» nel 1640, almeno 6 nel 1641, 5 nel 1659, 6 nel 1660, 7 nel 1661, 13 nel 1662, 33 nel 1663, 42 nel 1664, 19 nel 1665, 48 nel 1666, 27 nel 1667, 112 nel 1669, 12 nel 1670, 4 tra il 1671 e il 1673.

Il prodigio avveniva soprattutto l'8 di Settembre o nei giorni precedenti e successivi. Emerge inoltre dai documenti che le madri giungevano anche da altre diocesi (Aix, Gap, Digné, Embrun, Frejus, Apt, Glandéves, Marsiglia, Nizza, Senez, Riez) compiendo lunghi viaggi. I loro bambini erano certamente morti da tempo ed erano stati sepolti almeno 24 ore, se non giorni, più giorni, prima di venire riesumati ed essere portati a Moustiers.

Un monaco attendeva quelle madri, ritto all'ingresso della cappella. Prendeva con sé il corpicino, avvolgendolo in un drappo candido e si avviava verso l'altare, tenendo nella mano libera una candela accesa, seguito da tutti coloro che desideravano partecipare. Durante il breve tragitto si recitava un'invocazione: «Ave, Regina coelorum, Mater regis angelorum, O Maria flos virginum, Velut rosa vel lilium, Funde preces ad Filium, Pro salute fidelium». Giunto all'altare, il sacerdote benediceva e baciava il crocifisso. Si recitava il Concede, si leggeva il Vangelo secondo Giovanni e si attendeva il prodigio...

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Ciò che accadeva era senza dubbio un miracolo e i segni erano inequivocabili. Si legge di un caso di un bambino che, portato davanti alla Vergine e grazie alle preghiere dei presenti, ad un certo punto «mosse un piede, aprì la bocca e arrossò alle tempie; il cuore diede un battito e il sangue prese a scorrere nel corpo... mosse una mano, tirò fuori la lingua umettata di saliva; aprì gli occhi, girò la testa; un calore sensibile si manifestò in tutto il corpo; il polso batteva».

Tra il 1670 e il 1673 l'usanza e il celebre pellegrinaggio subirono un brusco arresto. La mano lunga dell'autorità ecclesiastica si era spinta fino a Moustier proibendo la pratica sconveniente del répit, che pure aveva alleviato le sofferenze di tante madri e altrettanti figli. Ben presto la cappella cadde in rovina. L'attenzione fu nuovamente rivolta alla chiesa parrocchiale del paese che, fin dal 1336, aveva preso su di sé la dedicazione che, in precedenza, era stata di Notre Dame De Beauvoir. Nuovi contrafforti furono elevati per consoladarla e la Chiesa dell'Annunciazione, esistente fin dal XII secolo come oratorio del monastero fondato dai frati di Saint Victoire, tornò ad essere il centro spirituale di Moustiers.

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In verità, la cappella e la parrocchiale sono e sono sempre state un insieme unico, inscindibile. Esse sono la chiara rappresentazione della vita nel suo discendere fino a questo mondo e del suo manifestarsi. La forma stessa, in elevato, della parrocchiale, che somiglia a quella di un vaso aperto verso il basso, con muri e colonne deformati, richiama il profilo del vallone soprastante, come se tutta la potenza contenuta nella cappella del Belviso qui si «svuotasse».

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Qui, tra foreste di querce, che simboleggiano l'«asse del mondo», la vita fluisce e rifluisce. Qui, la terra «mostra il suo volto, lo splendore del suo «sguardo». Qui, dove la stella del leggendario Blacas, tornato vivo dalla crociata, ancora brilla sospesa in cielo tra i bastioni di Moustiers-Sainte-Marie, l'acqua ha il colore dei suoi occhi. Cos'altro, se non proprio l'acqua «di vita» è la Vergine («la più pura») «de Roca», che viene dalla roccia o d'Entremont, che sta dentro alla montagna?

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Forse il gran segreto che si cela dietro le misteriose Vergini delle Rocce dipinte da Leonardo, è proprio questo...

 



BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Les Églises de Moustiers, Alpes de Haute Provence, Beau'Lieu, Lyon, 2013

Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015

Gélis, Jacques, Pousser les portes du paradis. Le sanctuaire «à répit» de N.-D. De Beauvoir à Moustiers-Sainte-Marie (1640-1670), in Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène (a cura di), Itinéraires pèlerins de l’ancienne Provence. La Sainte-Baume. Notre-Dame de Moustiers. Notre-Dame de Laghet. Notre-Dame du Laus, La Thune, Marseille, 2002

Gélis, Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006

Hamon, André Jean Marie, Notre-Dame De France Ou Histoire Du Culte De La Sainte Vierge En France, Henri Plon Iimprimeur-éditeur, Paris, 1861


Pubblicato in Europa
Sabato, 22 Agosto 2015 17:51

La mia terra mi insegnò le verità

Dipinse l'acqua sopra il fuoco e accanto il demone dell'aria insieme alla terra nutrice. Non ci si può sbagliare e non può essere casuale. Perché altrimenti raffigurare il Battista lungo il fiume, sulla cappa che copre il focolare?

Aveva seminato come molliche di pane i brandelli delle verità in tante sue opere, nascosti ma visibili all'occhio acuto. Solo quando si era rinchiuso nella prigione dorata della sua nuova casa, al riparo dalle voci e dagli sguardi accusatori, coperto di vergogna per aver perso il titolo notarile, ignorando qualunque prudenza, aveva finalmente dato forma a quelle verità, senza più nasconderle.

Erano sincere ragioni maturate nel tempo con il cuore, non certo eresie! Erano sgorgate nel silenzio dell'animo di un nobile notaio e sensibile artista, nient'affatto risibili fandonie!

Quei primi flebili sospetti erano cresciuti con l'età e sbocciati a vita nuova mentre lavorava con mastro Fermo. Dissetandosi all sorgente di sapienza che prorompeva da quel rinomato pittore, ascoltandone le parole in silenzio, prendendo poco a poco il coraggio di fare qualche timida domanda nelle corte pause, rubando i sussurri forbiti degli architetti e del magister del cantiere, lentamente le verità che la sua terra gli aveva narrato da fanciullo avevano preso forma.

Le figure sante che gli avevano chiesto di tinteggiare nella chiesa grande di Montecrestese (1547) non gli avevano lasciato grandi spazi di manovra. Poi, due anni più tardi, finalmente l'occasione era giunta, quando aveva bussato alla sua porta niente meno che il priore dei Disciplinati di Santa Marta.

La confraternita era appena riuscita nella gravosa impresa di farsi concedere parte della chiesa pievana, per ricavarvi una cappella nella quale i disciplinati potessero radunarsi. Così avevano scelto lui, Giacomo, per decorarla come si conveniva. Il giudizio Universale, il Purgatorio e una grande Crocifissione erano i temi stabiliti, ma gli avrebbero concesso qualunque altra licenza se avesse accettato.

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Montecrestese (VB) - Chiesa Parrocchiale

Non aveva esitato un istante e noi, cinque secoli più tardi, ancora ne possiamo ammirare l'opera. La “disciplina”, per i confratelli, era uno strumento di guarigione. La flagellazione che essi si imponevano era il medicamento per i peccati dell'intera comunità. Nel dolore e nel sangue di quel gesto cercavano la redenzione, la trasformazione del peccatore in “figlio d'Iddio” e la sua rinascita nello spirito.

Giacomo si era immedesimato in quell'idea ma, superando l'ipocrisia della punizione corporale, ne aveva voluto restituire la verità profonda e non traviata dalle pulsioni umane. Prendendo a prestito la “lingua” dotta degli alchimisti e dei pensatori illustri di città, che stava imparando a conoscere, aveva fatto in mezzo alla parete un crocifisso bianco, del colore preciso della materia alchemica in trasformazione. Quel corpo martoriato non poteva che essere candido come il “latte” della Madre che, nutrendo i figli, li trasforma in “adulti”mondandoli da ogni peccato.

Accanto a quel gran sole, a ciascun lato aveva posto i due “banditi”, i due “esiliati”: il mansueto Disma a destra con la testa rivolta in alto, al cielo; il ribelle Gesta mentre si contorce come un serpente, volgendo all'indietro la testa, verso il basso, verso la terra, a sinistra.

Poi, tra le mille figure assiepate nervosamente ai piedi dei tre condannati, nascose sotto gli occhi di tutti un piccolo dettaglio, un brandello di colle, un pezzo della sua terra, di quella madre premurosa che fin li l'aveva “accompagnato”. Il declivio è tagliato, a metà c'é una sorta di cengia con una spianata davanti, trattenuta da un muro netto e verticale. Sette “pietre” sono sapientemente disposte sul terrazzamento, tutte diverse per dimensioni, ma organizzate secondo una logica invisibile.

Un solo luogo reale può averlo ispirato, a Montecrestese. È possibile che il sito megalitico di Croppole gli fosse già noto? Con buona probabilità non aveva idea dell'antichità di quelle pietre, ma non si può certo escludere che, in qualche modo, ne fosse rimasto affascinato. Del resto erano -e sono ancora- molto vicine alla frazione di cui Giacomo portava il nome.

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Se così fosse, il “sole di giustizia” esiliato tra gli esiliati, nell'affresco s'innalzerebbe dal centro della valle, in corrispondenza della confluenza tra la Toce e l'Isorno e il “ladrone ribelle”, elevandosi dall'attuale Pontetto-Roldo, “farebbe ombra” alla frazione Cardone, quindi alla casa del pittore e per analogia al pittore stesso!

In quella grandiosa scena ambientata ai suoi giorni, Giacomo già si raffigurava, lui e le verità che stava maturando, il “messo in ombra”, il “bandito”, l'escluso, l'esiliato, l'incompreso, senza immaginare quel che pochi anni dopo gli sarebbe davvero accaduto.

La collocazione del dipinto sulla parete settentrionale della cappella, inoltre, sembra dare una collocazione paesaggistica quasi astronomica all'insieme. Il Cristo Bianco sulla croce lignea, corrispondendo alla direttrice nord-sud, diventa ad ogni livello il vero “asse del mondo”, con le braccia a indicare i due “equinozi”. Dietro di lui, i due ladroni indicherebbero, entrambi a 45° e quindi nelle direzioni Nord-Est e Nord-Ovest, l'alba e il tramonto del Solstizio estivo ma anche, nella direzione dei loro sguardi, l'alba e il tramonto del Solstizio Invernale. Lo scorpione solitario, sul vessillo oltre il ladrone che si contorce sulla sinistra del Cristo, è un richiamo preciso e corretto alla costellazione omonima, contro la quale il sole sorge proprio al Solstizio Estivo se osservato da Montecrestese.

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Montecrestese (VB) - Crocefissione, particolari astronomici

 

Non pago, Giacomo aveva “corso il rischio” fino in fondo. Da quella parete nessuno mai avrebbe cancellato una tale immagine. Sarebbe rimasta intoccata, perenne testimone del dono che la sua terra gli aveva fatto e aveva fatto a tutti attraverso la sua opera.

Perciò i due ladroni-solstizi non sono appesi a croci levigate ma ad alberi nodosi e “antichi”, le cui cime potate sono diventate i patiboli, le braccia trasversali. Il rimando inequivocabile è al mito celtico del “re della quercia”, al taglio dei rami della pianta sacra a Odino e al sacrificio del “re” crocifisso al suo tronco, la cui morte è necessaria alla vita della terra.

Chissà che dipingendo nelle edicole delle frazioni, Giacomo non avesse conosciuto una delle sacerdotesse dette streghe, ultime depositarie del ricordo sbiadito e impreciso di ciò che era stata la raffinata spiritualità delle valli e delle montagne ossolane, legata alla terra, al cielo e ai suoi cicli, che all'epoca sicuramente esistevano ancora. A Montecrestese, non molti anni dopo la morte del pittore, ne saranno inquisite e condannate diverse (1591).

Un altro dettaglio astronomico e rilevante sono le ombre, le uniche ben definite dell'insieme, proiettate dai “megaliti”. Sono molto allungate a indicare un tramonto, quello del Sole quando si trova Nord-Ovest, nei giorni del Solstizio Estivo. Tale periodo è però nella simbologia dei “due san Giovanni” legato non al Giovanni Evangelista (e quindi al Cristo) bensì a Giovanni Battista.

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Fregio a "grottesche", casa di Giacomo Da Cardone - Montecrestese (VB)

 

E ciò ci riporta alla casa di Giacomo, al nascondiglio in cui si sarebbe rifugiato anni più tardi, affranto dall'infamia dell'accusa di eresia. Qui avrebbe sfogato il suo bisogno di verità e concluso la narrazione. Sulla cappa del camino, grandioso simbolo alchemico dell'elemento fuoco con le sue fiamme, dipinse il preludio a un battesimo, quello del Cristo, che giunge da lontano lungo un fiume Pensandoci bene, il torrente sembra essere il prolungamento serpeggiante delle fiamme che, di certo, si levavano crepitanti dal camino acceso. Il fregio a destra e sinistra richiama da una parte, nei loro profili “totemici”, le creature che popolano la terra e la madre che nutre, dall'altra forme svolazzanti, lievi, leggere, brezze, venti e soffi che escono dalle narici e dalle orecchie.

I quattro elementi del creato, così come li aveva mirabilmente teorizzati il celebre Agrippa, morto quando Giacomo era ancora un apprendista a Crevola, abbracciano quindi in tutta la loro perfezione i presenti che si intrattengono nella sala. Non c'é separazione, fluiscono uno nell'altro in un movimento perpetuo e direzionato.

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Non è un “gabinetto delle curiosità”, un wunderkammer da collezionisti rinascimentali, ma un insieme omogeneo oltre le apparenze, in cui l'artista aveva ambito a sintetizzare la verità unica, così come filosofi e teorici l'avevano sognata, non ultimo l'illustre Giovan Pico Della Mirandola, alla fine del Quattrocento.

Che tutto, ma proprio tutto, nel creato “abbia un sesso”, quindi una “prevalenza”, una direzione e un movimento è senza dubbio una delle verità che Giacomo aveva maturato. Era stato attento a non evidenziarla troppo nelle realizzazioni “religiose” che gli avevano commissionato a Baceno. Ma non aveva potuto trattenersi quando si era trattato di decorare la casa Marini di Crodo, nel 1547. Nei fregi di quella dimora nobiliare perfino gli angeli “hanno un sesso” e accanto ad un “femminile” compare sempre un “maschile”, in un'alternanza studiata e non casuale di opposti che si attraggono, proprio come i mistici di ogni tempo raccontano accada in ogni atto di creazione, ad ogni livello, dal più minuto a quello delle stelle.

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Wunderkammer del XVII sec. (da Wikipedia)

 

Tale è la musica, il canto del creato, la “sinfonia delle sfere”, il suono che crea e vivifica, ossessivamente rappresentato da Giacomo nelle teorie di musicanti, di menestrelli e di quell'Orfeo, della Casa Marini nel quale forse si identificò. C'é una strana similitudine nella posa delle braccia e nello sguardo vacuo, incurante e quasi di sfida, del suonatore mitologico, del soldato in primo piano nella crocefissione di Montecrestese e del Giovanni Battista sul camino della sua casa.

Orfeo canta e suona. Il suo è un canto di verità. La natura soltanto lo comprende e accorre ai suoi piedi. Nei suoi occhi c'é la solitudine ma anche un qualche compiacimento per la prova cui sta sottoponendo qualcuno che, però, non verrà.

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Eppure Orfeo continua a diffondere la sua musica, assiso su quella terra che gli ha insegnato le verità e incurante dei demoni inquisitori che, da lontano, lo osservano. Lo prenderanno, prima o poi, ma la verità sarà preservata.

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Gian Franco Bianchetti, Il pittore Giacomo di Cardone, in Oscellana, 1988

Tullio Bertamini, Le disavventure del pittore Giacomo di Cardone, in Oscellana, 1991

René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1962

Henric Cornelius Agrippa, De Occulta Philosophia libri tres, Anversa, 1531

Giovanni Pico della Mirandola, De ente et Uno, 1489

Jean Chevalier e Alain Geerbrant, Dizionario dei simboli, Parigi, 1969

Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, New York, 1951

Robert Graves, La Dea bianca, Faber & Faber, Londra, 1948

Frederic Portal, Des couleurs symbolique, dans l’Antiquité, le Moyen Age et les Temps Moderne, Parigi, 1837


 

Pubblicato in Personaggi
Giovedì, 13 Agosto 2015 20:40

Il silenzio degli Dei

Fino a quando gli animali
avranno da mangiare
e tutti i ruscelli
potranno cantare
saremo gli amanti
della nostra Madre Terra
le foreste ci proteggeranno
l’inverno.
L’amore è così sacro
come l’acqua e la terra
gli uomini e i fiori
sono fratelli e sorelle.
Una legge ci unisce
è il cosmo che vive
armonia dei colori
pace nel mio cuore.

(Jacqueline Fassero)

 

Quella parete, lassù nella valle, con le sue strane pitture, i suoi fantasmagorici simboli e la sua sconosciuta antichissima sapienza, non smette mai di chiamare. Ci capiti una volta - non ti han detto dov'é, perché è proibito raggiungerla, ma la determinazione ti ha portato fino a lei – e non la lasci più. Non ne parli, pensi ad altro, hai una vita da vivere, eppure nel mezzo della notte, nel più profondo silenzio, la ritrovi.

I segni che pregò i tuoi antenati di realizzare, nascosti all'uomo per millenni, estreme suppliche rivolte all'uomo cieco e sordo di un futuro lontano, ora si sono rivelati. Il tempo stringe. La valle materna che in tutti questi eoni ha sopportato e retto ogni angheria affinché l'essere umano, pur immeritevole, potesse prosperare fra le sue braccia, è allo stremo delle forze.

Le rocce da cui la vita stillava e quelle in cui la vita si raccoglieva, giacciono sotto cumuli d'immondizie, abbandonate e offese dall'incuria. Non è vendetta quella che pende sul nostro capo, è il male che noi ogni giorno, unici re e imperatori delle nostre scelte, abilmente ci procuriamo.

Non contano le parole e i concetti che furono scritti, conta che sono stati scritti “a chiare lettere” per essere letti nel più buio dei tempi... il nostro. Meglio sarebbe stato se quella parete non fosse mai tornata a parlare.

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Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)

Quella parete, lassù nella valle, è nata con la valle stessa, da sconvolgimenti geologici e “placche” impegnate in epici scontri, quando la terra era ancora un ammasso rovente, le cui ferite sarebbero poi state curate dal silenzio e dalle pia vegetazione che presto sarebbe cresciuta sulla roccia.

Lì e solo lì, come è stato scritto nel libro della creazione, schematiche linee di un rosso ocra e forme pure disegnate da mani “bambine” non avrebbero patito le intemperie e l'usura del tempo. Lì, proprio lì, furono vergate. Fu un gran lavoro e non fu una mano sola. S'intuisce e si vede, se si ha l'occhio accorto. Pressione, direzione, dimensione raccontano di un gruppo, di un insieme scelto che lavorò come un sol corpo.

Erano uomini quei favolosi artisti? O forse erano donne? Da dove venivano? È scritto con il colore del fuoco in quelle stesse pitture.

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Grotta di Pech Merle

Ci sono forse immagini di guerra? Ci sono forse titani dalle spade affilate o temibili guerrieri?

Ci sono cacciatori impavidi impegnati a uccidere enormi animali feroci?

Io non ne vedo.

Ci sono alberi da frutto? Campi da dissodare? Giardini ricolmi di delizie?

Io non ne vedo.

E non vedo neppure asettici “oranti in preghiera”, innocui “meandriformi” e “recinti” che non recintano nulla.

Ciò che vedo è una grande storia, l'epopea della vita raccontata dalla sorgente da cui la vita sgorgò. Vedo una storia che non insegnano sui libri di scuola, vedo il racconto di un'età dell'oro di cui non abbiamo quasi ricordo.

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Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)

Ci hanno insegnato che le terre europee, dall'ultima glaciazione fino al nascere dei primi grandi imperi e anche oltre, fra il 10.000 a.C e il 2.000 a.C. erano il rifugio di sparuti gruppi di cacciatori/raccoglitori, trogloditi capaci al più di sopravvivere, tra cui si muovevano orde d'invasori giunti da ogni dove, svelti ad andarsene così com'erano venuti.

Ma in quell'oscuro periodo, incastrato fra le glaciazioni, tra l'alba dell'uomo e l'Età del Ferro, gli esseri umani crearono civiltà sempre più raffinate, che non fabbricavano né usavano armi. Erano società pacifiche, stanziate presso i fiumi e i torrenti, nelle valli verdeggianti, in cui il maschio e la femmina incarnavano ciascuno il proprio scopo naturale in armonia. Non si riscontrano distinzioni nelle sepolture, né nel rango sociale.

Madre Terra era il loro nume tutelare e il loro cervello bicamerale poteva udirne la voce amorevole, così come tutte quelle degli spiriti di natura. Nel suo abbraccio e nella sua ciclicità, ampiamente rappresentata nelle incomprese “veneri paleolitiche”, trovavano tutto ciò di cui avevano bisogno, cibo e risposte, forma ritmo e direzione in ogni cosa e per ogni cosa.

Dalla Siberia, a Malta, ai monti Cantabrici, fiorì la grandiosa e libera civiltà “gilanica”, in tutte le sue splendide particolarità locali e regionali. Catal Huyuk, Hacilar, Gobekli Tepe, la Balma dei Cervi antigoriana, sono soltanto alcuni degli antichi centri abitati intorno a cui l'umanità matri-patriarcale prosperò per molto tempo.

Lucas Cranach dA Das Goldene Zeitalter Nasjonalgalleriet Oslo

Lucas Cranach - Il Paradiso in terra

Poi qualcosa, nel cervello dell'uomo, cominciò a mutare. Qualcuno prese a dubitare delle voci della terra, alcune cominciarono a sembrare migliori, più autoritarie delle altre. Nella grande battaglia interiore che ne scaturì, l'emisfero maschile ebbe la meglio.

I primi uomini in cui il cervello femminile era stato ridotto al silenzio, furono i Kurgan, i mitici “popoli indoeuropei” che, dalle steppe centro-asiatiche, scesero verso l'Europa e il mediterraneo nel V millennio a.C. per portare la “civiltà”.

I resti dei loro tumuli sepolcrali sono venuti alla luce negli anni Novanta del XX secolo, proprio nell'area del bacino del Volga dal quale erano partiti tanto tempo prima.

Così come la Dea taceva nelle loro teste, così avrebbe taciuto nei templi, nelle città, nelle grotte e presso le fonti. Urlando tutta la loro rabbia, scuotendo terribilmente i loro corpi e battendo sugli scudi scesero fino al Mediterraneo e la costrinsero al silenzio.

Furono loro a portare la guerra che l'Europa non conosceva, furono loro ad accentrare il potere in grandi città fortificate, furono loro a dichiarare maschio l'unico, feroce dio supremo e a farsene profeti ed esecutori. Così fu espugnata Troia e passati per la spada tutti i suoi occupanti. Atlantide bruciava. Il paradiso in terra era perduto.

 Nemo Aronax Atlantis

Le Rovine di Atlantide - da Ventimila Leghe Sotto i Mari (ed. Hezel)

I grandi santuari megalitici furono dimenticati o diventarono improbabili fortezze, il sangue cominciò a scorrere tingendo i fiumi di riflessi purpurei e il timore di essere assaliti spinse perfino i morti a portarsi una spada nella tomba.

Grandi imperi si imposero sui pacifici gilanici. La sapienza diventò potere e il potere logorò l'animo umano. La Terra guardava in silenzio l'uomo compiere le proprie scelte e costruirsi da solo la sua rovina. La Terra non sarebbe perita, non erano che piccoli fastidi sulla sua immensa pelle. Ma nell'immane misericordia che custodiva nel proprio grembo, la Dea soffriva per l'uomo. La Balma fu forse un incompreso atto di amorevole pietà.

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Balma dei Cervi - Valle Antigorio (originale nel riquadro piccolo)

Se è vero che furono donne le ultime a sentire ancora le voci della Terra, assise sui loro scranni dentro gli antri sibillini più bui e profondi, non saranno state (anche) loro le mani che l'hanno dipinta?

Dita scelte, di uomini e di donne hanno tracciato quei segni, affinché vi infondessero struttura e funzione secondo natura.

Poi il silenzio.

Fino a oggi.

 

 

La riscoperta della civilità “gilanica” paneuropea nel XX secolo è opera dell'archeomitologa lituana Maria Gimbutas. Dopo aver postulato l'esistenza di una forma di aggregazione sociale matriarcale e patriarcale insieme, pacifica e ugualitaria, precedente le prime grandi civiltà, ne rinviene le tracce durante le lunghe campagne di scavo che svolge tra gli anni 70 e gli anni 90.

Megaliti, grotte dipinte, “veneri” paleolitiche, massi coppellati, petroglifi, i grandi insediamenti dell'anatolia non sono altro che i resti di questa perduta “età dell'oro”.

Il suo lavoro viene poi ripreso e ampliato a partire dagli anni 90 dalla scrittrice e divulgatrice statunitense Riane Esler e dall'archeologo James Patrick Mallory.

Intanto i lavori di Erich Fromm e soprattutto di Julian Jaynes in campo psicologico, rivelano la fondamentale modificazione morfologica del cervello umano antico che avrebbe portato alla fine di tali società pacifiche, a vantaggio dell'ordinamento patriarcale, che domina ancora il mondo moderno.

Come disse la stessa Maria Gimbutas: “La base di ogni civiltà risiede nel suo livello di creazioni artistiche, di conquiste estetiche, di valori non materiali e di libertà, che danno significato, valore e gioia alla vita per tutti i suoi cittadini, così come un equilibrio di potere tra i due sessi”.

La Balma fu dipinta quale ultima possibilità per l'uomo di ritrovarsi e ritrovare la Terra, quando nient'altro avrebbe più potuto convincerlo...

 

 


BIBLIOGRAFIA

Maria Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Venexia, Roma, 2012

Maria Gimbutas, Le civiltà della Dea, Le civette, Viterbo, 2012

Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano, 2008

Riane Esler, Il piacere è sacro, Frassinelli, Milano, 1995

Riane Eisler, Il calice e la spada. La nascita del predominio maschile (1987), Pratiche Editrice, Parma, 1996

Anna De Nardis (a cura di), Momolina Marconi: Da Circe a Morgana, Venexia, Roma, 2009

Luciana Percovich, Colei che dà la vita. Colei che dà la forma, Venexia, Roma, 2009

 


 

Pubblicato in Italia
Martedì, 23 Giugno 2015 11:06

Audesia e lo stregone

Nella penombra degli archi e delle volte intonacati ma cadenti, quando la prima lama di luce s'infila nel vano appena schiuso del portoncino d'ingresso, vescovi e madonne sgranano gli antichi occhi affrescati. Finalmente un raggio di sole buca la polverina sottile sospesa nell'aria, finalmente qualcuno si è ricordato di loro.

L'ultima frequentazione è di non più di due decenni fa. Poi di nuovo l'oblio. Si decise di scavare nel pavimento di San Lorenzo e quel che ne venne fuori... Ci si affrettò a sostenere e celebrare la fondatezza della leggenda, quella del diacono cristianizzatore che, insieme al fratello, poi approdato all'Isola di Orta, aveva rovesciato le are degli Agoni, sostituendole con gli altari del dio cattolico.

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Ma su come davvero la Religione si fosse diffusa tra i pagani ai piedi dei laghi alto-piemontesi, mancavano -e in parte mancano- studi efficaci. Quanto agli scavi autunnali del lontano 1996, sono stati dati alle stampe soltanto resoconti tecnici. Una ricerca che, finalmente, ritessendo coraggiosamente i fili della storia, accordi le informazioni, le storie e le leggende, ancora tarda a nascere.

Di certo c'é che, tra il settembre e il dicembre di quell'anno, molte sorprese vennero fuori dal pavimento della malconcia chiesa dedicata al martire Lorenzo. Si sapeva, così narrano le cronache, che l'aveva fondata un missionario giunto da Egina nel V sec. circa. Giuliano, poi, si era costruito al suo interno -o lì accanto- una tomba per sé.

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Le reliquie vi rimasero per alcuni secoli finché, in data ignota, furono tolte da quel sepolcro -si presume per proteggerle dagli invasori longobardi- e nascoste nella nuova Basilica del paese.

Di recente resti del castrum antico, di vetusti selciati e di vecchie cripte colme di ossa sono comparsi inavvertitamente nel corso di lavori di manutenzione sul colle che domina il paese. Avrebbero potuto “colmare molti vuoti” se non fossero stati frettolosamente ricoperti e riconsegnati all'oblio e al silenzio per colpa del solito, immancabile disinteresse e fastidio per le nostre origini, mascherato da “mancanza di fondi”.

Della presunta “traslazione” conosciamo solo il giorno, 24 Ottobre, come racconta il Diploma del 919 di Berengario I, che concede di organizzare in tale giornata una fiera annuale in onore del “santo” a Gozzano. All'epoca, come testimonia lo stesso documento, i resti del missionario si trovavano già da qualche parte nella chiesa pievana del paese.

Ma sarebbero venute alla luce quasi miracolosamente, poiché il punto esatto in cui furono inizialmente sepolte non è tutt'oggi noto, molto più tardi, poco prima della costruzione della cripta in cui sono ancora esposte.

Di chi sono davvero quelle ossa? Gli scavi a San Lorenzo avrebbero dovuto rispondere affermativamente a quella semplice domanda. Invece, hanno sollevato, insieme alle lapidi e a tre diversi pavimenti, una gran quantità di domande.

 

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Sulla tomba primitiva di Giuliano sorsero almeno quattro edifici. La pavimentazione di quella attuale copre un intero cimitero che la occupa tutta. Voci non confermate, relative a saggi effettuati all'esterno, insinuano che l'area sepolcrale si estendesse ben oltre la prima chiesa, che vi fu poi costruita al di sopra.

Molte delle fosse, si è infatti scoperto, furono ricavate riutilizzando materiali provenienti da sepolture precedenti... precedenti al Cristianesimo. La lapide utilizzata come copertura di una di queste, la cui dedica si riferisce a una dea pagana, è ancora prudentemente conservata in qualche buio magazzino torinese.

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Autesai.kar/nitus.Petua [...]” recita il fregio, che sovrasta una ruota a quattro raggi e un simbolo composto da due semicerchi vicendevolmente tangenti, molto simili a certe figurazioni rupestri.

ad Autesa eressero Petua [...]”: è la dedica di una donna, Petua -forse insieme ad altre- a una dea, come anche i simboli suggerirebbero, il cui nome è Autesa, non di certo un nome di luogo, anche se richiama da vicino denominazioni come Autessiodurum o Auxerre.

L'unico altro indizio appartiene a millenni più tardi e precisamente al 1612. È una notizia da fonte non confermata, riportata dal Bascapé nella sua “ Novaria seu de ecclesia Novariensi”, secondo cui quella chiesa era inizialmente dedicata non a San Lorenzo e neppure a San Giuliano, bensì a Maria.

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Curiosamente, in effetti, il primo dedicatario noto, Lorenzo, viene festeggiato il 10 agosto, pochissimi giorni prima della festa dell'Assunta, della Vergine. Che questo fosse all'inizio un “luogo della terra”, successivamente romanizzato (come lasciano supporre diversi reperti ritrovati nelle tombe) ed infine cristianizzato?

Sotto al cenotafio che la tradizione racconta essere il sepolcro del “diacono”, è stata trovata una fossa voltata ben costruita. Altre due la fiancheggiano disponendosi come raggi intorno al perimetro esterno di una struttura semicircolare che non racchiude un altare.

 L'identificazione dell'insieme come un “synthronon” bizantino (i primi esempi sono quelli della post-teodoriana nord di Aquileia e della pre-eufrasiana sud di Parenzo), una sorta di gradinata semicircolare di pietra su cui sedevano i prelati, è un tentativo che lascia aperti numerosi dubbi. Il “synthronon” era concepito per privilegio e auto-celebrazione dei vivi, la strana struttura sotto San Lorenzo pare invece una conseguenza delle sepolture sulla parte convessa.

 

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Le tre tombe, pressoché coeve -del resto sono le più antiche- esistevano già prima della primitiva chiesa e i suoi occupanti erano semplici riutilizzatori delle fosse già presenti, come testimoniano le cassettine ritrovate in almeno due delle tre. I resti nelle cassette dovevano essere così importanti, che non erano stati tolti dalle fosse e sepolti altrove per far posto ai nuovi corpi, ma erano stati radunati e lasciati al loro posto.

Quando poi la prima chiesa fu costruita al di sopra di questo insieme, l'abside fu impostata in modo da inglobare le tombe, ma erano già così antiche che, non essendone visibili le parti terminali, l'emiciclo finì sovrapposto ai piedi degli occupanti di quelle laterali.

Il particolare “emiciclo”, inoltre, diversamente da un syntronon è chiuso sul fronte da un muro, in cui però si aprono ben due probabili ingressi, come lascia supporre la traccia di pavimentazione. Esternamente, in linea con il muro di chiusura, sono ancora visibili sui due lati le basi di due colonne o pilastri o forse basamenti, che sembrano una sorta di “guardiani” dell'insieme.

C'é poi una certa somiglianza tra questa struttura e il “sacellum” romano, oppure con i monumenti sardi detti “Tombe di giganti”. Ufficialmente vengono ritenuti tombe collettive. Ma la quantità di corpi ritrovati, per quanto abbondante, non suffraga appieno l'ipotesi che si trattasse di sepolcreti comunitari. Piuttosto, erano categorie specifiche di persone a essere seppellite, a più riprese, al loro interno.

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Nella loro struttura simbolica, che sarà poi ripresa anche dal Cristianesimo, il grande emiciclo frontale delle “tombe” è la volta celeste, mentre i “sacerdoti” venivano tumulati nel lungo tunnel retrostante, “oltre il cielo”. Forse è lo stesso tunnel in cui dicono di trovarsi coloro che sperimentano gli stati di “pre-morte”. I “sepolti” erano così un medium, un tramite continuo tra il mondi dei vivi e quello dei morti.

A San Lorenzo le tre tombe si trovano altrettanto “oltre il cielo”. I corpi inoltre avevano la testa appoggiata su un “cuscino” ricavato da una pietra e orientato a est. Si ritiene che questo fosse un “privilegio” sacerdotale, ecclesiastico. Anche oggi, la cassa con il morto, in chiesa, viene per lo più posizionata con i piedi verso l'altare, che di solito si trova ad est. Il cielo, con il trapasso, diventa infatti la “nuova terra” su cui il defunto poserà i piedi.

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Il “gigante” in senso spirituale, nelle “tombe” sarde e in San Lorenzo, fu invece posto con il capo e con il cuore nell'alto dei cieli, ma con i piedi ancora saldi su questa terra, cosicché potesse continuare a “benedire” i “fedeli” raccolti nell'emiciclo, esercitando le proprie “virtù” anche dopo la morte.

Le “legendae” in effetti, magnificano le capacità taumaturgiche del diacono gozzanese e del “fratello”, che vengono definiti “grandi medici”. Ma, curiosamente, il biografo non spende parole sui prodigi operati. Certo, sarebbe stato difficile attribuire a un solo individuo le guarigioni operate dalla terra stessa attraverso un “collegio” di sacerdoti pagani morti, gli stregoni della dea Audesia...

Ma potrei anche sbagliarmi.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, Parrocchia di Gozzano, 1982

Aa. Vv., VI centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, Parrocchia di Gozzano, 1961

L. Pejrani Baricco, Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento, in cantino Wataghin et al., 1999

L. Pejrani Baricco, Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania, in Brogiolo 2003

M. Perotti, La “legenda” dei santi Giulio e Giuliano e gli inizi del Cristianesimo nel territorio novarese, in Novarien 19, 1989

 


 

Pubblicato in Italia
Mercoledì, 10 Giugno 2015 15:13

Io sono la genitrice dell'universo

Nelle leggende del Graal, tra le sue mille forme e apparenze, compare sempre quella del vaso, del contenitore, che raccoglie un qualche “cibo” o “nettare” divino. A chiunque potrebbe palesarsi, ma solo pochi si rendono conto, in ritardo, come Perceval, di cosa sia.

Nonostante il successivo affacciarsi, nelle storie dei trovatori, della figura di Giuseppe d'Arimatea e di un altro calice, quello che avrebbe accolto il sangue del Cristo morente, esisteva da sempre un “vaso” di cui forse il Graal era davvero rappresentazione. Ma chi mai avrebbe potuto accettarlo? Come poteva il ventre di una donna e ciò che contiene essere la più ambita delle reliquie?

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Nel 1994, nel dipartimento francese dell'Ardèche, esplorazioni speleologiche hanno inaspettatamente riportato alla luce i più antichi dipinti in grotta dell'intero pianeta. Nei meandri della grotta Chauvet, uomini impavidi e ingegnosi, 32000 anni fa, dipinsero un intero mondo di visioni. Ne è rimasto stregato il celebre regista, produttore e attore Herzog che, nel 2010, ha ultimato un commovente documentario dell'intero sito, intitolato “La grotta dei sogni dimenticati”.

I suoi 500 metri e più di estensione ospitano varie centinaia di pittogrammi. Ma è giù, nel profondo della terra, nella “camera” più lontana dall'ingresso, che giace su uno sperone roccioso il più antico di tutti. E' una “venere”, una dea madre, di cui sono ben intuibili le gambe e soprattutto l'attributo vulvare, la “porta” del suo grembo, di cui l'intera Chauvet è una grandiosa rappresentazione.

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Quella madre fu dipinta anche nelle alpi, nell'Ossola remota dei “Leponzi”, nella parete scoscesa di una balma naturale affacciata sulla valle. Anche qui, come a Chauvet, ancora esiste. Come nell'Ardèche, dove fu trasformata nei suoi animali totemici (uno “stregone” o una divinità con le corna e la testa e un felino aggiunti successivamente, circa 26-27000 anni fa) anche in valle Antigorio è stata rappresentata attraverso il suo equivalente animale, il cervo, dal cui naso la vita viene soffiata in questo mondo.

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In entrambi i luoghi le “preghiere sognanti” raccontano la stessa storia, fatta di ritmi, di ascese e discese, di nascita e di morte, di trasformazione, delle forze universali che si avvicendano nella magnifica danza della Creazione. Qui la vita raggiungeva il mondo dalle profondità siderali del cosmo, diventando materia, come suggeriscono le dee madri partorienti rinvenute a La Madeleine, ad Angles Sur l'Anglin e a Tursac accanto a entità animalesche cornute. Forse qui venivano portate le donne affinché il parto si svolgesse nel migliore dei modi. Quale luogo è più adatto alla nascita, infatti, del ventre profondo di Madre Terra, genitrice dell'Universo intero?

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Alla grande madre di ogni cosa si sono rivolti i culti di ogni epoca. Con mille nomi l'hanno chiamata, a volte dimenticandola, a volte ricordandosi nuovamente di lei, come la dea stessa racconta nelle Metamorfosi di Apuleio: “Nel mondo io sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi”. È la Cibele dei Frigi, la Minerva degli Attici, la Venere cipriota, la Diana cretese, Ecate, Rammusia, Giunone, Proserpina.

Il suo nome più antico, però, è forse Isthar o Iside, quella di cui, nel tempio egizio di Sais era inciso sull'altare: “Io, Iside, sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà... Il frutto a cui ho dato nascita è il sole”. Il trono è il suo emblema, il trono è il “sostegno” della vita.

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Viene ricordata e venerata dalla notte dei tempi e fino a tutta l'antichità. Poi, improvvisamente, qualcuno la solleva dal trono e spodestandola, la getta nell'oblio. All'incirca è un giorno di gennaio tra il 35 e il 39 d.C. Il cilicio Saulo, allievo del celebre filosofo gerosolimitano Gamaliele e feroce persecutore dei rivoltosi “cristiani”, cade e rimane parzialmente cieco mentre si reca a Damasco per proseguire la sua opera inquisitoria.

Ecco. Il feroce oppositore originario di Tarso, nato all'ombra di Iside, assalito dalle visioni insieme ad Anania come i sacerdoti della dea nel tempio di Philae, ben presto si rivolta contro i suoi stessi dei, dalle fattezze di animali: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Lettera ai Romani1).

Proclama invece il messaggio cristico come unica religione, inventando di fatto il Cristianesimo moderno. Ma non può sfuggire alle sue origini e non soddisfatto della guerra che sta portando alle “forze” e agli “enti” di cui è “figlio”, si dichiara unico depositario della sapienza divina: “ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Lettera ai Filippesi). L'onnipotenza di cui presto si fregia è senza dubbio quella che sta usurpando alla dea, alla Grande Regina Iside, chiamata appunto “Myrionima” proprio nella sua terra, la Cilicia in cui sorge Tarso.

Sfortunatamente per lui, continua ad ogni peregrinazione a dover fronteggiare la dea cosmocrate gnostica e i suoi sacerdoti, che addirittura gli si mostrerà come Artemide in Tessalonica. La dea, dunque, va definitivamente scalzata dal suo scranno. E ciò si compirà con la lettera ai Colossesi in cui, definitivamente, il Salvatore cristiano ne prende il posto: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ci aveva già provato tanto tempo prima il sovrano egizio Akhenaton, che aveva cercato di spazzare via tutti gli dei in favore di Aton, l'unico: “Tu hai l'eternità nelle membra, e tutte le creature vivono in te. [...] Tu li fai crescere per tuo figlio, colui che uscì dal tuo corpo...”. Ma solo il suo “pronipote” cilicio riuscì dove lui aveva fallito.

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Sconfessata e privata della devozione, la dea, giace a lungo quale semplice figurazione della Sapienza divina solo per aver dato il natale a Gesù. Della vera teotokos rimane solo qualche riflesso nell'iconografia bizantina della Vergine. La Sapienza viene fatta sedere “sopra” il grembo della Madre, tolta a forza dal suo interno.

Mille anni la dea avrebbe atteso. Ci voleva una mente eccelsa ed illustre, quanto grettamente umana, perché di lei i popoli tornassero a parlare. Quando quel giorno del XII secolo alcune gocce del latte di sapienza stillarono dal suo seno direttamente nella bocca del monaco Bernardo, il tempo finalmente giunse. Egli ne divenne il nuovo alfiere. Come si era fregiato dei suoi attributi chi l'aveva sepolta, così avrebbe fatto il prodigioso teologo grazie al quale sarebbe tornata al suo posto negli altari. Bernardo era l'unico che si era abbeverato direttamente alla sedes sapientiae e nessun altro, nessun Abelardo di questo mondo gli avrebbe potuto passare innanzi.

 

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I nascenti Templari sarebbero serviti allo scopo e il presule lo dichiara apertamente nella sua più discussa opera, la Lode alla nuova milizia: “Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione”. Lo scopo per cui l'ordine era stato fondato si sarebbe perso presto, fino a scomparire con il 1315 e la loro soppressione, ma altri ne avrebbero ampliato e proseguito l'opera.

Mentre i Cavalieri si diffondevano in tutto il vecchio mondo, i trovatori provenzali cominciarono a intessere le lodi alla Dea nella forma dell'amor cortese e nelle leggende del Graal. Certi re presero a farsi chiamare “trovatori della regina celestiale”, come i sovrani dell'antica Babilonia. Quel che non ci si ricordava veniva ripreso dai testi patristici del 6°-7° secolo (Liturgie basiliane, Gioie di Maria, Omelie della Vergine Maria di Germano di Costantinopoli, Lignum Crucis). Culti rinnovati si rivolsero alle oscure madri nere celate nelle cripte delle chiese. Riti perduti tenuti nascosti riemersero trasformati in usanze cristiane e alla paura del destino infausto che attendeva i bambini mort-né (morti-nati), i “mai nati”, si sostituì una nuova speranza nella madre dea, che concedeva loro una breve apparizione in questa vita affinché i loro corpicini potessero riposare in pace in terra consacrata.

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La dea era tornata. Solo una cosa ancora mancava, una nuova effige della dea che riparasse al millenario affronto che le era stato inflitto dall'uomo. Sarebbe nata a metà del XIII secolo, dapprima in Portogallo e Spagna per poi diffondersi fino in Polonia e nelle terre germaniche. L'avrebbero sostituita alle altre al sommo degli altari. E i fedeli, avvicinandosi a questa nuova Madre assisa, come un grande trono su cui è seduto il “frutto del suo seno”, l'avrebbero vista aprirsi, spalancarsi come le porte della Gerusalemme celeste, per mostrare chiaramente la Sapienza di cui era il contenitore, il vaso.

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Sarebbe durata poco. Già il Concilio di Trento ne avrebbe decretato la quasi totale scomparsa, condannandone la maggior parte delle figurazioni. A quelle che rimanevano avrebbe pensato Benedetto XIV nel 1745. Diversi erano i temi rappresentati dentro a queste “vierges ouvrantes”, vergini aprenti. Erano di legno, più raramente di avorio come il trono di Salomone ed erano costruite come scrigni,scatole, vasi, il cui coperchio si spalancava: alcune riproducevano scende tratte dalle Gioie della Madonna, altre episodi della Passione. Le più controverse e le ultime a resistere contenevano... la Trinità, la stessa vergata nelle absidi e nelle volte delle chiese. Nel ventre scuro (chiuso) di queste madonne pesantemente vestite, albergavano i tre princìpi, i costituenti dell'Universo, la Vera Sapienza che nella Grande Dea Terra trova realizzazione! E non dovrebbe sorprendere che molte di loro fossero esteriormente Madonne Lattanti.

Se ne conoscono oggi una settantina, ma ad eccezione di una manciata che si sono salvate dall'oblio del tempo, le altre sono soltanto riproduzioni tarde. La più antica è quella di Boubon. Due di quelle autentiche si trovano in Italia. Una, risalente al XV secolo, è ancora esposta nel museo del Castello di Pozzolo-Formigaro (VC), l'altra è stata pochi anni fa riconosciuta nella Parrocchiale di Ayas ed è proprio quella presso la quale si svolgeva il controverso rito della piuma o répit.

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Nell'intenzione di chi la dipinse, forse, anche la Madonna di Re (VB), se fosse stata una statua, sarebbe stata una “Vierge ouvrante”. Il cartiglio ai suoi piedi, riprendendo le parole dei Padri della Chiesa, dice chiaramente “I gremio matris sedes sapientia patris”... la sede della Sapienza del Padre è nel grembo della madre, proprio dentro... non sulle sue ginocchia...

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Una manciata di chilometri più a sud ovest, in Valle Strona, a Luzzogno, nel 1547, qualche anno dopo il miracolo presso l'affresco di Re, il vescovo Bascapé, in visita, ordina che l'antica madonna lattante sull'altare del piccolo santuario, venga privata del corpo “deteriorato e malconcio”. Perché la testa fu mantenuta mentre il corpo fu sostituito? Era forse il corpo eretico di una madre gnostica? Era forse un “vaso” che poteva aprirsi e mostrare verità scomode, inconfessabili, eretiche, pericolose?

 

Ormai era tardi. Quando l'Illuminismo arrivò la Dea si era di nuovo ritirata nel profondo delle cripte.

Il mondo non era ancora pronto, non meritava il suo ritorno.

E non lo è ancora.

 

 

 


NOTE

 1La questione è stata ampiamente dibattuta ed è ragionevolmente provata, nonostante la controversia sulla effettiva paternità di San Paolo per molte delle “lettere” e dei testi che sono attribuite.

 


BIBLIOGRAFIA

Clottes, Jean, Chauvet Cave (ca. 30,000 B.C.), in Timeline of Art History, 2002

Le Guillou, Yves, Le Pont-d’Arc Venus – La vénus du Pont-d’Arc, 2001

Gimbutas, Marija, Il linguaggio della Dea, 1999

Graves, Robert, La Dea Bianca, 1959
Delporte, Henri, The shelter at Tursac Factor: study, 1968

Witt, Reginald Eldred, Isis in the ancient world, John Hopkins University Press, 1971

Mattioli-Carcano, Fiorella, Santuari a Répit, 2009

Chabanol, Renée, Les Vierges ouvrantes où à volets, ou statues triptyques, in Revue de la Société d’Histoire et d’archéologie de la Plaine de l’Ain (SHAPA), 2001

Clément, J.,Vierges ouvrantes , in La représentation de la Madonna à travers les âges, Paris, 1909

 

 


 

 

Pubblicato in Personaggi
Domenica, 22 Marzo 2015 15:37

La voce della terra (parte 3)

... segue dalla seconda parte...

Fino alla metà del 1300 San Gaudenzio in Baceno non era che un semplice oratorio correttamente rivolto ad Est, su un promontorio roccioso all'incrocio tra la Valle Antigorio e il vallone del Devero.

Nel corso degli anni, con il crescere del numero dei battezzati nella zona e nel paese, i suoi spazi erano diventati insufficienti e a poco era servito edificare un ingresso coperto (l'attuale Cappella del Rosario opera del chierico Signebaldo de Baceno figlio di Giacomo). Nel 1486, si era perciò deciso di cambiarne l'orientamento in senso nord-sud per aggiungervi un nuovo e ampio corpo a tre navate, nell'occasione del matrimonio di Bernardino de Baceno, valvassore imperiale di Antigorio e Formazza, con la nobildonna Ludovica, figlia di Antonio Trivulzio, rappresentante del duca di Milano in Ossola.

 

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Terminati i lavori nel 1524, era stato assegnato alla bottega del noto pittore novarese Tommaso Cagnola, il compito di affrescarne gli interni. Grazie alla sua opera era così comparsa negli intradossi degli archi laterali del presbiterio un'intera teoria di 16 sibille goticheggianti, divise in due gruppi, cui si aggiungevano i profeti biblici all'interno dell'arco centrale.

Una ventina di anni dopo, mentre Antonio Zaretti de Bugnate proseguiva l'opera del Cagnola, le navate laterali erano state parzialmente smantellate e ricostruite di maggior ampiezza con l'inserimento di due doppie file di archi per sostenere il peso. Questa volta il compito di decorare le nuove navate era stato assegnato all'ossolano Giacomo de Cardone, impegnato a dipingere anche gli interni della chiesa dei SS Pietro e Paolo di Crevoladossola, dove Fermo Stella da Caravaggio, di cui forse era allievo, aveva appena dipinto 8 sibille di gusto vagamente fiammingo all'interno dell'arco di accesso al presbiterio.

 

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In tal modo era nata a Baceno una nuova teoria di 12 sibille negli intradossi del secondo, terzo e quarto arco laterale della navata occidentale, che andavano ad aggiungersi alle altre 16 già esistenti. Per quantità corrispondevano all'elenco canonico proposto da Filippo Barbieri (anche i vaticini riportati nella fasce di tutte le sibille in San Gaudenzio provengono dal Discordantiae). A ben guardare, però, la successione non è quella offerta dall'inquisitore domenicano.

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Non è certo che l'autore della nuova dozzina di pizie sia De Cardone ma, in questa apparente accettabilità di elementi dietro cui si nasconde un codice iconografico indecifrabile, sembra di ravvisare la volontà di una mente libera, tipicamente cinquecentesca, la cui ricerca interiore di conoscenza è divergente rispetto alla spiritualità imposta, proprio come quella del pittore di Montecrestese. Il ciclo che realizzò di sua mano nella sua dimora rappresenterebbe in modo allegorico proprio la sua inclinazione verso una gnosi di tipo alchemico e non a caso, fu poi coinvolto in un processo per eresia di cui fu unico imputato - poi scagionato - nel 1561 per presunta adesione al luteranesimo.

Neppure l'altra serie più antica sembra seguire un ordine conosciuto, anzi, compare perfino una sibilla “Asia”. Parrebbe che il Cagnola, o chi gli ha commissionato il lavoro, abbia voluto suddividere le sibille in due gruppi, orientali e occidentali, secondo il carattere di ciascuna, come fossero la rappresentazione delle due parti, dei due emisferi e delle due “epoche” del “nuovo” mondo trascendente di cui la chiesa antigoriana si apprestava a diventare testimone e baluardo.

 

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Leggendo da occidente a oriente, in direzione del “nuovo”, del sole che nasce, cui corrispondeva l'asse dell'oratorio antico (dall'ingresso verso l'altare), gli affreschi sulle pareti di fondo della parrocchiale di Baceno, infatti, non si può non intuire un filo conduttore preciso e voluto, un “cammino” che, prendendo le mosse dalla spiritualità arcaica, quella della Madre fonte di ogni sostentamento e beneficio che viene “messa a riposo” (cappella della Vergine del Rosario, con una Mater galattofora e una “Dormitio Virginis”), rigenera ogni cosa con il Peccato Originale e la sua redenzione (Crocefissione) e attraversando le ere, sotto lo sguardo vigile delle pizie, diventa la nuova chiesa (cappella di S.Pietro).

Non è una soluzione del tutto nuova. Già Michelangelo aveva disposto sibille e profeti insieme alle scene bibliche della creazione nella volta della Cappella Sistina. Contemporaneamente aveva realizzato un impianto simile Arnault de Moles nella cattedrale francese di Auch, nel Gers.

Auch

 

Grazie a questa scelta e all'inserimento di un riferimento esplicito alla chiesa “nuova”, l'ideologia controriformista trova piena espressione in una valle pregna di tradizioni ancestrali, al confine con le terre svizzere pullulanti di eretici e miscredenti.

“Motore” invisibile di tutto il cambiamento sono così le sibille nei due archi e i profeti, attraverso cui il cambiamento si compie. Per lo stesso scopo il successivo ampliamento, affinché ogni cosa tornasse al suo posto, avrebbe richiesto l'inserimento di altre 12 sibille disposte, come la nuova parrocchiale, da Nord verso Sud.

Le sequenze di sibille a Baceno sono infatti successioni ordinate di fasi cicliche attentamente polarizzate e diversamente attive, come il sole durante il suo percorso nel cielo, flussi filtranti e selettivi che vivificano il luogo. La loro presenza inoltre è sempre un richiamo all'autorità divina, quella classica alla quale si rivolgeva l'uomo nell'antichità, ricevendone responsi e soprattutto quella di Dio Padre che aveva preannunciato la venuta del Figlio anche attraverso le loro parole. Infine, appartenendo ogni sibilla a un contesto geografico più o meno preciso, radunarle a Baceno e a Crevoladossola inseriva simbolicamente i due luoghi fra le “terre benedette”, quelle in cui gli dei avevano fatto sentire la loro voce, quasi fossero anche le due località ossolane “sedi” di sibille.

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In questa mappa simbolica in effetti c'é un particolare, una sorta di codice, un finto errore lasciato per trasmettere un messaggio. Sia la prima che la seconda sequenza sibillina ripetono una delle figure vaticinanti. Le due successioni sono quindi rispettivamente di 15 e 11 libisse. In quella più estesa ad essere citata due volte è l'Ellespontina, nell'altra la Cumana. Pur nella libertà di ordine con cui le sibille venivano rappresentate nel Medioevo e nel Rinascimento, c'é almeno un caso in cui le due pizie vengono rappresentate insieme. Compaiono affiancate in uno dei pennacchi di campata della chiesa conventuale di Santa Maria di Canepanova a Pavia (1500-1507). Curiosamente, l'architetto responsabile della costruzione dell'edificio era proprio lo stesso Giovanni Antonio Amedeo firmatario dei contratti tra le fabbriche ecclesiastiche milanesi e le cave di Ornavasso, Candoglia e Crevola. E ancora venivano dall'Ossola i mastri scultori rimasti per tre generazioni, tra il XV e il XVI secolo, sia a Milano che a Pavia, tutti con cognome “degli Arrigoni”, il cui capostipite era quell'Antonio da Domodossola che tanto aveva lavorato sia per i nobili di Baceno che per i Della Silva, guadagnandosi il nome di “Maestro di Crevola” con i suoi lavori proprio alla Parrocchiale di San Pietro e Paolo.

 

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La dinastia di scultori e il grande architetto ducale furono senza dubbio tra gli artefici del diffondersi nelle valli ossolane degli influssi artistici rinascimentali lombardi. Ma la ripetizione delle due sibille, troppo evidente per essere una svista o uno sbaglio, è un modo antico e nuovo per sottolineare il maggior valore di un elemento sugli altri, attraverso l'iperbole. Quelle ripetute sono “due volte” sibille, appartengono a due – o anche a molti - livelli di significato diversi.

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La duplice pizia della prima serie, l'Ellespontina o Elispontica, annuncia con il suo vaticinio mercuriale la futura nascita del Figlio di Dio. Voce delle voci, voce per eccellenza, è la voce stessa di tutte le sibille. Nelle iconografie classiche rinascimentali il fazzoletto le si incrocia proprio in corrispondenza della gola, come ad abbracciarla. A Baceno poco oltre l'arco in cui è dipinta, procedendo verso est c'é la cappella di San Pietro, la “nuova” Chiesa nata con la venuta del Cristo. Non è difficile quindi identificare la sibilla con la stessa parrocchiale, la chiesa-baluardo della cristianità tridentina.

In questo intrico di simbologie, però, non si esprime solo il ruolo che il clero controriformato ha assegnato a Baceno, ma anche il carattere profondo e antico del luogo, che trascende i loro scopi di potere.

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Secondo la tradizione, infatti, la chiesa, già prima di diventare la sontuosa parrocchiale oggi visibile, nonostante la dedicazione al primo vescovo novarese, Gaudenzio, era conosciuta e visitata sopratutto per l'antica Vergine Lattante ivi affrescata. Comunemente si ritiene che si tratti delle Virgo Lactans di gusto gotico affrescata in un angolo dell'antico ingresso dell'oratorio, oggi Cappella del Rosario.

Ma tale cappella doveva presumibilmente già esistere prima del 1326, anno di costruzione del portico e del 1372, anno in cui l'atrio fu destinato a cappella del Rosario. Un documento datato 7 aprile 1326 che istituisce la Cappellania della Madonna mostra che, quando la chiesa primitiva era stata distrutta per erigerne una di più ampie dimensioni (non ancora quella a tre navate, cinquecentesca), doveva già esistere una “Cappella della Madonna” in altra posizione rispetto alla successiva del Rosario. Forse si trovava sul lato opposto. Ma non è escluso che potesse essere la stessa chiesa primitiva. San Gaudenzio nel 1039 viene infatti donata da Gualberto ai Canonici di Santa Maria di Novara.

A tale prodigiosa e antichissima immagine “mariana” si rivolgeva la gente della valli, che giungeva fino in paese per adorarla, chiedere conforto o aiuto e portare doni in ringraziamento. Quella madre dal viso misterioso era insomma il nume tutelare cui rivolgersi tanto per tutti i problemi individuali e sociali quotidiani. La facciata interna alla cappella dell'arco opposto alla Vergine è in tal senso un vero e proprio catalogo di richieste: mani, braccia, gambe, occhi e parti anatomiche in segno di grazia ricevuta per traumi, ma anche oggetti di uso quotidiano, strumenti, animali per il lavoro nei campi e per il sostentamento, bastoni e stampelle.

 

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Tra gli altri oggetti affrescati, che forse all'inizio venivano portati e lasciati fisicamente ai piedi della Madonna Lattante, c'é poi una tipologia particolare di doni, che sembrano asciugamani o mantelle. Più precisamente sono sciarpe o ampi fazzoletti bianchi da indossare sulla testa e annodare al collo, proprio come quelli che velano le immagini delle profetesse e in particolare dell'Ellespontina.

Èevidente che laMater era riconosciuta come sibilla, depositaria della conoscenza, consigliera dell'uomo in tutti gli aspetti della sua vita, da quelli sociali e territoriali a quelli agricoli e dispensatrice di cure e benedizioni agli infermi.

Identico ruolo dovevano ricoprire le tanto temute donne di Baceno e Croveo, forse le ultime “sacerdotesse” di riti perduti, che furono riconosciute streghe e processate dagli inquisitori. Come si evince dagli interrogatori conoscevano l'utilizzo delle erbe medicinali, praticavano forme rituali arcaiche ed erano dotate di grandi capacità.

Soprattutto, grande era il potere delle loro parole, ne bastava una per maledire a vita e portare a morte certa. Unte con un olio portentoso e gridando, nel buio della notte le streghe raggiungevano il luogo del sabba per danzare orgiasticamente insieme al loro dio fino all'alba. Lo stesso appellativo “strega” deriverebbe appunto da “strix”, civetta, l'uccello sacro alla Dea (il suo nome scientifico non a caso è Athena Noctua), il simbolo di onniveggenza, saggezza e vita, con riferimento al suo elaborato richiamo notturno portatore di presagi.

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Forse alla capacità di udire la voce sibillina e alla necessità di orecchie fini per riuscire a sentirne il canto si riferisce un particolare e antico glifo inserito nella base del campanile della parrocchiale di Crevoladossola, unico altro luogo della valle in cui sono effigiate sibille: un omino a braccia spalancate in un gesto di accoglienza, con enormi padiglioni auricolari ben aperti.

Non si può a questo proposito non ricordare la storia dell'Asino d'oro di Apuleio, in cui già compaiono alcuni elementi di quella che poi sarà l'identica e assai più tarda tradizione stregonica medievale. Protagonista è Lucio, giovane di Patrasso appassionato di magia che si reca in Tessaglia per affari. Qui in casa del ricco Milone, affascinato dai prodigi della moglie-maga del suo ospite, Pànfila, capace perfino di tramutarsi in uccello, cerca di imitarla, ma sbaglia unguento e si trasforma suo malgrado in un asino.

Come tutte le maghe, anche è una sacerdotessa di quella dea dai mille nomi e dalla voce terribile cui nella stessa opera Lucio scioglierà una accorata preghiera: “...la notte con le tue urla spaventose e col tuo triforme aspetto freni l'impeto degli spettri e sbarri le porte del mondo sotterraneo, errando qua e là per le selve, accogli propizia le varie cerimonie di culto... con qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualunque aspetto è lecito invocarti:concedimi il tuo aiuto
nell'ora delle estreme tribolazioni, rinsalda la mia afflitta fortuna, e dopo tante disgrazie che ho sofferto dammi pace e riposo
”.

 

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La sibilla e le sue sacerdotesse, come le streghe, avevano potere di vita e di morte. Secondo un altro latino, Lucano, che riporta l'episodio nei Pharsalia, Sesto, figlio di Pompeo, dopo lo scontro tra pompeiani e cesariani a Durazzo, fugge in Tessaglia e va a consultare la potente maga Erìttone La pizia si serve del cadavere di un soldato che, rianimato, profetizza la morte di Cesare, la sconfitta di Pompeo e la rovina di Roma.

Alla Dea celebrata da Apuleio e da Lucano si riferisce ancora più prepotentemente l'altra sibilla ripetuta di Baceno, quella Cumana, presente due volte nella seconda serie di sibille. È la Deìfobe virgiliana, figlia di Glauco (protettore di Cuma) e forse di Scilla, la profetessa del sole Apollo che aveva mostrato il futuro ad Enea. La donna col vaso che compare di fianco al mostro inabissatosi nel Canale di Sicilia su alcune monete corinzie, Leucotea-Pirene, potrebbe essere proprio lei, “leuco-tea”, letteralmente la Dea Bianca, la Mater Matuta dei latini, la Madre-delle-madri, l'antica.

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Attributo classico della sibilla Cumana è la tazza d'oro, poi diventata mangiatoia e in qualche caso culla. Il suo vaticinio cristianizzato è quello della Morte e Resurrezione di Cristo, quale prefigurazione della fine del Mondo. Annuncia il cambiamento, la trasformazione, la stessa espressa dal “graal” della tazza con cui viene di solito raffigurata.

E' la dea bianca e nera, “la genitrice dell'universo, la sovrana di tutti gli elementi, l'origine prima dei secoli, la totalità dei poteri divini, la regina degli spiriti, la prima dei celesti; l'immagine unica di tutte le divinità maschili e femminili:sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi degli inferi. […] Perciò i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano madre degli dei, adorata in Pessinunte”.

Proprio una sibilla aveva fatto in modo, attraverso i Libri Sibillini, che nel 204 i Romani prelevassero la statua “aniconica” (una pietra) di Cibele nel suo sacrario a Pessinunte per portarla a Roma e collocarla nel nuovo tempio a lei dedicato sul colle Palatino. Nero era il simulacro della dea e “sibilla”, secondo una interpretazione basata su una riminiscenza illirica, significherebbe “vergine nera”. Proprio una Madonna Nera è quella del Santuario di Montevergine, nell'avellinese, sorto, pare, proprio su un antico tempio dedicato a Cibele.

 CibeleFrigia

Ma se ancora ci fossero dubbi sulle sembianze dell'unica sibilla platonica, di cui le altre non sono che specificazioni, è bene ricordare che almeno una volta essa le mostrò chiaramente. L'episodio è registrato già da Niceforo e prima ancora nella Storia di Tessaglia del greco Suida ed è stato poi ripreso nel Mirabilia (1140-43) e nel Graphia le prime ”guide turistiche” medievali di Roma.

Una colonna forata, forse a scopo astronomico, con l'epigrafe “A CUBICVLO AUGUSTORUM”, ancora esistente nell'attuale chiesa che vi sorse sopra, ricorda il luogo esatto.

Correva più o meno l'anno I a.C. L'imperatore Ottaviano Augusto, chiuso nella sua stanza nel palazzo sul Capitolio, stava consultando, come spesso faceva, la sibilla. I libri dei vaticini erano custoditi li accanto nel nuovo tempio dedicato a Giunone Moneta (ammonitrice), a quella dea detta anche Lucina, portatrice del latte, poiché da alcune gocce stillate dal su seno si sarebbe formata la Via Lattea. Chissà, forse ad Augusto venne un dubbio, forse gli passò per la mente che, in realtà le sibille non esistessero davvero.

D'improvviso, come se l'avesse chiamata, la sibilla rispose. Pare gli abbia detto: “Questa è l'ara del figlio di dio”, come a indicare che in quel luogo andava costruito un nuovo tempio.

Poi, gli occhi di Augusto, per un istante la videro.

Videro una donna, seduta.

In grembo, sulle ginocchia, teneva seduto un bambino.

 

 Antoine Caron

 Antoine Caron: Apparizione della sibilla ad Augusto

 

 


BIBLIOGRAFIA

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