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Francesco Teruggi

Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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Domenica, 05 Luglio 2015 14:42

Mai nati, mai morti. Alle origini del répit

con tutto il rispetto,

confidando nella correttezza delle fonti,

con il solo e umile proposito di suggerire una direzione...

 

È difficile, se non impossibile, sostenere che quella forma rituale nota come “répit”, “doppia morte”, “rito della piuma” o “riti delle ombre”, pietosamente amministrata in favore dei fanciulli morti-nati, nel periodo tra il X e XVIII secolo, possa essere esplosa all'improvviso nella storia.

Comunemente si attribuisce l'insorgere della pratica all'estendersi dell'ideologia nichilista sul limbus puerorum e sull'infausto destino dei bambini morti alla nascita, prima di aver potuto ricevere il battesimo. In quei secoli, mentre la disputa teologica chiudeva le porte ad ogni possibilità di redenzione per gli sfortunati bimbi, la pietà popolare veniva consolata dall'intercessione di qualche “santo”, quasi sempre della “Madre delle madri”, che “sospendeva” lo stato mortale del fanciullo deceduto. La momentanea “tregua” dall'abbraccio della morte, quando si verificava, corrispondeva ad uno o più segni di vita, rossori, livori, movimenti, fuoriuscite di liquidi ma soprattutto al rendere del primo e ultimo respiro. Così il fanciullo finalmente giungeva in questo mondo, per poi abbandonarlo immediatamente.

Nelle cronache di questi prodigi, il Battesimo, sempre presentato come il fine ultimo di tutta la pratica, viene invero descritto più come ovvietà, omettendo quasi tutti i dettagli. Veniva per altro impartito nella particolare forma dell'ondoiement ("se sei vivo, io ti battezzo") sviluppata per i parti difficili, in cui la presenza della vita nel nascituro non era facilmente riconoscibile e si doveva procedere a farlo “cristiano” anche se si trovava ancora nel grembo della partoriente. Bastava che sporgesse un braccio, un piede, la sommità della testa...

Le esplosioni di gioia, l'elevarsi dei canti di grazia, corrispondono invece sempre al momento in cui i segni si manifestano. Il prodigio era la sua venuta alla vita, anche se solo per un istante e il rito era un chiamare e celebrare, in quella, tutta la vita infinita. Era la vittoria su una condizione anomala, non sulla morte che, infatti, veniva soltanto “sospesa” ed era accettata come parte dell'esistenza.

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I lunghi ed estenuanti viaggi verso i santuari in cui il prodigio tendeva a verificarsi, certamente consentivano ad entrambi i genitori l'elaborazione dell'infausto accadimento. Ma nei rari resoconti non compare tanto la sofferenza di una madre per la perdita –pur gravissima– di un figlio, quanto piuttosto la sua disperata determinazione ad evitargli, attraverso una breve sospensione, l'eterna afflizione di trovarsi tra “color che stan' sospesi”.

Viene il sospetto che l'atto battesimale sia stato soltanto il veicolo dell'esplosione del fenomeno in tempi medievali, attraverso la fusione di una forma rituale precedente con le rinnovate necessità cristiane. Altrettanto, nell'esteriorità del rito, fatto di semplici preghiere e di un'attenta osservazione dei segni della venuta al mondo, finì per resistere solo un'eco lontana di quel che l'atto doveva essere stato all'inizio. Perciò, dal momento in cui storicamente cominciamo a conoscerlo, esso non fu che un “vestito buono” da indossare per l'occasione, un gesto di pietà verso i genitori, di accondiscendenza verso la loro sventurata sorte.

Arretrando nel tempo, invece e tralasciando la necessità battesimale e teologica in sé, poche, ma sufficientemente chiare tracce, raccontano di una pratica ben diversa. Due secoli prima del comparire del “rito della doppia morte” nei santuari, lo storico gallese Giraldus Cambrensis, nella sua Topographia Hibernica (1188) descrive, in forma “poetica”, quello che è probabilmente l'antenato e l'originale da cui si sarebbe poi sviluppato il répit: “...anche i più giovani che sono stati uccisi da qualche ferita [malanno], questo [animale] è abile a farli rivivere e restituire alla vita, grazie ad una certo fiore rosso di [crocus] zafferano. Come dicono quelli che lo testimoniano, e che hanno messo a morte piccoli cuccioli per il bene di questo esperimento, [la donnola] applica il fiore, che porta in bocca, prima sulla ferita, poi alla bocca e al naso come per soffiarglielo dentro, attraverso le prime fra tutte le aperture del piccolo corpo. Così a lungo, con l'esalazione [spiraculo] di quel fiore tanto quanto quello della bocca, o forse grazie al tocco della pianta più potente di tutte, [la donnola] sollecita al respiro chi sembra esserne ormai privo, ma forse con qualche traccia di vita rimanente, anche se nascosto”.

La descrizione non sembra essere quella di un mito o di una leggenda, ma di una forma rituale precisa e strutturata, di cui sono state rinvenute tracce in testi anche più antichi. Tra quelle di tanti cantori d'amor cortese, la storia ha conservato le opere di una misteriosa cantrice, una donna, quasi coeva di Girardo del Galles. Solo il suo nome è noto, Maria e come lei stessa precisa nell'epilogo della sua opera, è francese: “Marie ai num, si sui de France”. Si pensa fosse la badessa del convento di Barking, sorella di Tommaso Becket, ma non ci sono certezze. Tra i suoi “lai” e precisamente in quello più lungo (1184 versi), l'ottosillabo Eliduc, si nasconde un riferimento assai prezioso e curioso al répit originale.

Protagonista è Guildeluëc, moglie legittima dell'eroe Eliduc, ammalatosi perché la sua amante/amata Guilliadun è caduta in uno stato di “sospensione” simile alla morte, dopo aver scoperto che egli era sposato. Il corpo catatonico giace in una cappella nascosta nella foresta più fitta. Quando Guildeluëc lo scopre, per amore del marito raggiunge il luogo e imitando due “donnole” cui l'aveva visto fare, riporta in vita Guilliadun, grazie all'uso di certe erbe che pone sulla bocca della “bella addormentata”.

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I temi sono di derivazione arcaica. Se ne trova descrizione già nel Beowulf (apparso nel X secolo, ma composto quasi certamente nel VIII sec.). Nell'Eliduc si arricchiscono di elementi. Qui, più ancora che nelle citazioni di Girardo del Galles, viene sottolineato lo stato indeterminato di “sospensione” tra la vita e la morte. Fondamentale poi è il luogo, un punto preciso in cui il “ritorno in vita” può avvenire, di cui si specifica, appunto, che è una cappella nel folto del bosco, molto simile ai futuri santuari del répit.

Non è difficile poi riconoscere, nelle “erbe” e soprattutto nel fiore misterioso portato alla bocca, la piuma apposta alle labbra dei fanciulli in attesa di “tornare” in vita. Secondo alcuni la descrizione del fiore data da Girardo del Galles potrebbe riferirsi, simbolicamente, alla velenosità del bulbo del “crocus” alpino, meglio noto come “bucaneve” che, primo a fiorire quando giunge la primavera, può ben dirsi “fiore del risveglio”. Più probabilmente “fiore” si riferisce all'essenza stessa della vita, l'acqua, sangue della terra, che vivifica ogni cosa e quindi ad un'acqua particolare e prodigiosa in grado di portare la vita.

Ma qui, ancora, del “paramento” cristiano non c'é traccia. Non sono la preghiera e i suoi officianti a produrre, insieme allo strumento fiore/piuma/erba il prodigio, bensì un “animale” sapiente. È quel “totem”, grazie alla sua conoscenza delle piante “imparata dalla natura”, come sosteneva Alexander Neckham (De naturis rerum, 1190 circa). Secondo Hildegarda di Bingen sono addirittura “la sua urina e il suo respiro” a far diventare quelle erbe così potenti da ristabilire la vita.

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In quel “totem” animale sta un altro legame forte e chiaro con il répit. Nell'antichità si credeva che la donnola concepisse attraverso le orecchie e partorisse dalla bocca. Quale miglior modo per ristabilire la vita, in un bambino che ne era stato privato mentre nasceva, se non quello di infondergliela da bocca a bocca o per meglio dire da utero a bocca, così come nell'Antico Egitto la vita eterna del Faraone passava proprio dalla “apertura” della sua bocca?

Rimane solo una domanda: chi o che cosa era quella “bestia”? Nonostante i tentativi di spiegare i riferimenti insistenti e “pericolosi” alla donnola, con l'aver preso l'animale al posto del suo simile, l'ermellino candido, segno di purezza regale, la cui pelle ornava i mantelli dei potenti, è più probabile che non ci sia alcun errore. La donnola è infatti una delle metamorfosi di quelle “vergini guerriere”, grandi conoscitrici delle erbe medicinali e dei segreti di natura, che in tempi lontani abbondavano nei villaggi rurali e si prestavano anche come guaritrici e come levatrici.

Queste “sacerdotesse” o shamane, o strìe, come la donnola “concepivano” con l'orecchio, poiché sapevano ascoltare la natura, Madre delle Madri e Madre della vita stessa, traendone idee, principi. Di conseguenza “partorivano” con la bocca, poiché ciò che si erano “guadagnate” con fatica e sudore, era degno della massima autorità ed era la vita stessa che fluiva attraverso le loro parole. Nel medioevo erano con buona probabilità le ultime depositarie di un sapere antico, che aveva in pietre e radure i suoi centri sacri. Questa loro sapienza era un potere grande e rispettato timorosamente, un potere che la Chiesa, frustrata e pervasa dalla misoginia, avrebbe presto cominciato a temere e combattere.

Ed è proprio allora, quando la lotta alle eresie diventa persecuzione, violenza e sfogo sulle donne, che quell'antico, silenzioso culto di vita misteriosamente cambia abito, trasformandosi nella sua caricatura cristianizzata con il nome di répit.

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Mentre gli inquisitori affilano le armi contro le “donnole”, le cappelle silvestri, le benedette radure e le rocce che prendono e tolgono la vita (ad esempio nelle saghe irlandesi la donnola, la guerriera Ness, ritarda il suo parto indesiderato sedendosi su una pietra) vengono frettolosamente abbandonate. Il rito si sposta nei santuari più antichi e ad esse più simili. Il “fiore della vita”, il “germoglio di fuoco” dell'esistenza, l'acqua prodigiosa che si sveglia e divampando si esprime, pur sempre presente accanto ai nuovi santuari, diventa un'esile piuma senza “forza”, abbandonata all'aria. Le parole di potere pronunciate dalle guaritrici lasciano il posto alle preghiere canoniche.

Il rito, così camuffato, non ha però ancora un scopo cristianamente accettabile. Glielo fornirà quasi subito e forse con il beneplacito di qualche prete impavido, il battesimo “sub condicione”, quello che, per ovvie e pratiche ragioni, erano quasi sempre le levatrici ad impartire.

Proprio dai nuovi luoghi in cui l'antico rito prende a svolgersi sotto mentite spoglie, riemergono altre mute testimonianze delle sue lontane origini. Riaffiorano dalle nebbie del tempo soprattutto nelle vicende e nelle vestigia dei grandi santuari del répit, che non erano solo luoghi prodigiosi, ma anche grandi cimiteri ove i fanciulli, che avessero emesso o meno quell'ultimo respiro, venivano messi a riposare in eterno: Aviòt, in Belgio, il più prolifico in assoluto; Oberburen in Svizzera (XIV-XV sec.), dove sono stati rinvenuti, sotto il pavimento della navata, i corpi di almeno 550 infanti.

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Il più straordinario è però Blandy Les Tours, cappella “senza nome” (poi dedicata a San Maurizio) con cimitero annesso. Settanta e più corpi sono stati trovati nelle adiacenze del piccolo edificio sacro. Risalgono al X-XII secolo e per caratteristiche e posizionamento (sotto-gronda, presso il fonte battesimale e lungo la navata) sono unanimemente riconducibili al fenomeno del répit. Potrebbero addirittura esserne l'antecedente. Incredibilmente, però, non appartengono solo a bambini di circa otto/nove mesi, bensì in buona parte anche a bambini di 30 mesi o addirittura a feti di poche settimane.

Nuovi, inquietanti scorci sul nostro passato si spalancano attraverso le orbite vuote di quei corpicini, sepolti mille anni fa in un cimitero a loro riservato, proprio come si faceva presso certe spiagge tre millenni prima, ai tempi dei Fenici e dei Cartaginesi, ma anche delle leggende bibliche. Di questi “tofet” (così li chiamarono gli archeologi) ne sono stati trovati in Italia meridionale e centrale, in Sardegna, nella zona di Cartagine e nell'Africa punica. Quei semplici recinti, stranamente simili ai camposanti attuali, erano “santuari” all'aperto in cui, come molto, molto più tardi a Blandy Les Tours, venivano deposti feti e fanciulli fino a tre anni di età circa, in semplici urne sormontate da cippi o piccoli pilastri. I più antichi hanno la forma di un trono... Gli archeologi, scoprendoli, inizialmente pensarono che ospitassero le vittime sacrificali di cui parla il Deuteronomio, i bambini “fatti passare per il fuoco di Baal” nei pressi di Gerusalemme. Ma non c'é traccia di violenza sui loro resti, anzi, non si può che constatarne la cura e la tenerezza con cui furono “messi a riposare in eterno”.

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Nel 1931 viene ritrovato, presso l'antica Agorà di Atene, un pozzo. Sul fondo ci sono i resti di 450 bambini, morti alla nascita o sopravvissuti per qualche settimana o mese. Di nuovo, ci si accorse che non era stato un atto violento, ma un gesto di pietà verso quegli infelici che, ancora, non erano bambini. Insieme a loro infatti furono ritrovate le ossa di ben 150 cani, psicopompi totemici, accompagnatori verso l'aldilà, portatori di una qualche preghiera per quegli sventurati.

Non può essere casuale. Peculiarità pressoché identiche si ripresentano distanti nello spazio e nel tempo. Soprattutto si ritrovano quei “confini”, feto di poche settimane, morto durante il parto e bambino di tre anni di età, all'interno dei quali si nasconde la realtà di un flusso biologico che chiamiamo “nascita” o, più correttamente “venire al mondo”, a questo mondo.

Già Plinio, Ippocrate e Aristotele si interrogavano sul momento esatto in cui l'anima si incarna nel feto dopo il concepimento. Quaranta giorni per i maschi e novanta per le femmine furono i due termini in qualche modo accettati. Se dunque la gestazione veniva interrotta prima di tale termine, l'anima continuava a vagare in attesa che un concepimento la facesse “ritornare”. Seppellirlo accuratamente era un modo per chiedere alla Madre delle Madri che quell'anima potesse presto essere accolta da un nuovo corpo.

Ma gli antichi sapevano che l'incarnazione non è un momento fermo nel tempo, una scansione definita. È un fluire delicato e paziente che deve essere rispettato, assecondato e protetto in ogni istante. Il parto era ed è considerato il limite oltre il quale l'anima del bimbo non può più “tornare indietro”. Se in quel momento il corpo “non funziona”, rimane “incastrata” tra i mondi, sospesa.

Il limite superiore “naturale” dell'intero processo di incarnazione poi, così sembra, è anch'esso da sempre conosciuto: 3 anni. Solo in quel momento l'anima, incarnata ha finalmente preso contatto con ogni parte del corpo, legandosi indissolubilmente ad esso, passa “per il fuoco del dio Baal” e comincia a manifestarsi come vita indipendente.

Perfino in ambito cristiano, quando si cominciò a discutere dell'età adatta per il battesimo, tale “confine” venne mantenuto. Se già Tertulliano si opponeva al battesimo degli infanti nel III sec. d.C., lo specifica poi più attentamente ad esempio Gregorio Nazianzieno, detto il teologo, (380 d.C.) nella sua orazione nr. 40, accampando la spiegazione che solo a partire dai tre anni di età il bambino può in qualche modo capire e rispondere alle parole del vescovo. Unica eccezione contemplata era per i bambini morenti al di sotto di tale limite (Iscrizione di Aproniano). Ciò si riferisce al fatto che il battesimo, all'epoca, era ancora una “facoltà” individuale. Non c'era in verità nessun obbligo al battesimo. Chi ne era “degno” doveva personalmente recarsi presso il luogo adatto e chiedere espressamente al vescovo di essere battezzato. Solo allora il vescovo si muoveva dalla cattedra e se lo riteneva poteva amministrarlo. Sarebbe rimasto così fino all'epoca carolingia e a Carlo Magno, che l'avrebbe poi trasformato in una pratica coercitiva e obbligatoria.

La memoria di questa “manifestazione al mondo” è ancora custodita in qualche modo da ciò che resta degli ancestrali “riti di passaggio”. Si usa indicarli come una “necessità”, atti e gesti senza i quali il “cambiamento di stato” non può avvenire. Sarebbe invece forse più rispettoso riconoscerli come mezzi per facilitarlo rimuovendo ogni ostacolo al suo compimento, come possibilità e aiuto durante il passaggio, che in sé è un fatto naturale e imprescindibile.

Il “passare per il fuoco” dei Fenici non era che questo, un aiuto alla trasformazione, non certo un rito cruento, un'offerta macabra e tremenda a un dio malvagio. Ciò che accade a quell'età sancisce la nostra appartenenza a questa esistenza. Possiamo “fare parte” di questo mondo solo se abbandoniamo completamente e per sempre l'altro, quello da cui veniamo. Così, solo se nulla ci trattiene, se ogni legame è reciso, possiamo immergerci completamente nella nostra esistenza al punto di non poter più tornare indietro.

L'originale greco usato anche per indicare i riti di “manifestazione al mondo” e da cui fu poi tratto il termine “battesimo”, non indicava necessariamente un'abluzione, un'immersione nell'acqua bensì, letteralmente, l'annegarsi volontariamente e da sé in qualcosa. E in che cos'altro se non in questo mondo e in questa realtà con tutta la vita che lo permea?

Alcuni studiosi ritengono che in tal senso, inizialmente, il “baptizein” greco si riferisse non tanto alla forma ritualizzata dal cristianesimo, né alle “abluzioni” propriamente dette, bensì a tutte quelle forme simili di “purificazione” nel senso di “distacco totale da qualcosa”, che coinvolgevano i misteri eleusini e bacchici, le tradizioni mitraiche, ebraiche, quelle egizie e molte altre.

Tali possibilità di “recidere meglio” i legami erano probabilmente estese non solo ai vivi ma anche ai morti e ai “fantasmi”. Allusioni si ritrovano nelle Lettere di Pietro: “Infatti, per questo scopo la buona notizia fu dichiarata anche ai morti” (1 Pietro 4: 6).

indicazioni più chiare si ritrovano poi nelle parole di San Paolo che si riferisce ad una strana pratica in uso fra i Corinzi: “Altrimenti che significherebbe la pratica di coloro che si fanno battezzare per i morti? Se i morti assolutamente non risorgono, perché si fanno battezzare per loro?” (Prima Lettera ai Corinzi).

È probabilmente la stessa forma rituale in atto anche presso i marcionisti, i montanisti e i seguaci di Cerinto, una sorta di “battesimo dei morti” con lo scopo di aiutare il distacco dell'anima dal corpo. Il riferimento paolino, senza dubbio preciso e non simbolico è più precisamente ad una precisa tipologia di morti, quelli per i quali non era possibile disporre del corpo. In questi casi è presumibile che qualcuno si presentasse per “fare le veci” del morto.

Con i grandi concili e in particolare quello di Cartagine (397 d.C.) che proibì definitivamente Battesimo ed Eucarestia ai morti (cfr. cap. 6 degli Atti del Concilio) il rito, cristianizzandosi, avrebbe preso una direzione diversa rivolgendosi ad un nuovo tipo di speranza, necessari alla teologia del peccato originale.

Secondo alcuni, ciò che prima aveva spezzato i legami che impedivano la naturalità della vita, finì per diventare la sua nemesi. Il ciclo naturale della vita, con le sue “sofferenze” e le sue “fatiche” era diventato improvvisamente la causa dell'esistenza del peccato originale. L'unica salvezza era dunque spezzare i legami con il ciclo naturale e diventare cristiani...

Invero, nel “battesimo dei morti” e “dai morti” si nascondeva l'ultima e perduta occasione di mantenere intatto quel gesto di misericordia. Cosa accade infatti se, entrando in questo mondo, qualcosa nel processo si interrompe? E cosa accade se qualcosa non si “spezza” mentre da questo mondo ce ne andiamo? Si rimane legati, sospesi, interrotti, fluttuanti tra due stati ma senza la possibilità di sceglierne uno.

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Così, non rimane che cercare di attirare l'attenzione... come faceva il ka del defunto nell'Egitto faraonico se veniva “disturbato”, i Lari e i Penati nell'antica Roma o gli “antenati” presso le popolazioni tribali di mezzo mondo, se non vengono “soddisfatti”. Occorreva dunque rimettere le cose a posto, come pare avesse fatto lo stesso Gesù: “In questo [stato] andò anche a predicare agli spiriti in prigione, che una volta erano stati disubbidienti” (1 Pietro 3: 19,20).

A maggior ragione ciò era assolutamente importante per i fanciulli mai nati o “sospesi” prima dei tre anni che, non avendo neppur sperimentato la vita, non potevano morire. La loro triste condizione, se non vi si poneva rimedio, non era il famigerato limbus puerorum dietro il quale l'infamia sarebbe stata nascosta. Come le tradizioni ben ricordano, avrebbero continuato a vagare senza sosta, quelle povere anime, tra i boschi e accanto alle rocce come ben ricordano le leggende di folletti, nani, twergi e creature dispettose, sperando che, prima o poi, qualcuno si accorgesse di loro e li liberasse finalmente dalla loro condizione.

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Era necessario “rimettere al loro posto” ciò che non si era comportato secondo natura. Ma neppure questo corrispondeva alla nuova teologia che altrettanto degli “esorcismi” e dei demoni avrebbe fatto cosa ben diversa.

Quanto ai fanciulli infelici, bisognerebbe ricordarsi che il Gesù delle scritture accordò il ritorno alla vita forse solo a bambini. Lazzaro infatti secondo una teoria potrebbe essere niente più che l'errata trascrizione di Eleazar, nome attribuito alla figlia di Giairo, protagonista del più interessante dei due casi di ritorno alla vita di giovani di cui i Vangeli conservano memoria.

In questa narrazione piena di sorprese, quando Gesù entra nella casa dove la fanciulla viene data per morta, la sua esternazione, con evidente riferimento ad uno stato di “sospensione” simile al répit è “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Dopodiché le ingiunge: “Talithà cum”, letteralmente: “[tu che sei] giovane, alzati”. Non è sfuggito ai commentatori un particolare molto strano in tutta la vicenda. Mentre Gesù si reca nella casa della fanciulla, viene interrotto dal gesto di una donna che soffre di “flussi di sangue” e che guarisce toccandolo. Non può essere un caso che una donna, forse una madre, soffrisse di quel male, come ben tre dei quattro Vangeli puntualizzano, da 12 anni e che 12 anni sia esattamente l'età della figlia di Giairo. Non solo: la bambina è malata ma viva, quando Gesù viene chiamato; tuttavia, non appena l'emorroissa guarisce, la fanciulla viene dichiarata morta. L'emorroissa e la bambina potrebbero dunque essere madre e figlia?

Nella parte finale del racconto c'é ancora un ultimo dettaglio: “Allora […] prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina”. Millenni dopo, nei silenziosi santuari del répit, madri e padri, allo stesso modo, si sarebbero ritrovati, in attesa del sospirato prodigio...

 

 

 


 

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Martedì, 23 Giugno 2015 11:06

Audesia e lo stregone

Nella penombra degli archi e delle volte intonacati ma cadenti, quando la prima lama di luce s'infila nel vano appena schiuso del portoncino d'ingresso, vescovi e madonne sgranano gli antichi occhi affrescati. Finalmente un raggio di sole buca la polverina sottile sospesa nell'aria, finalmente qualcuno si è ricordato di loro.

L'ultima frequentazione è di non più di due decenni fa. Poi di nuovo l'oblio. Si decise di scavare nel pavimento di San Lorenzo e quel che ne venne fuori... Ci si affrettò a sostenere e celebrare la fondatezza della leggenda, quella del diacono cristianizzatore che, insieme al fratello, poi approdato all'Isola di Orta, aveva rovesciato le are degli Agoni, sostituendole con gli altari del dio cattolico.

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Ma su come davvero la Religione si fosse diffusa tra i pagani ai piedi dei laghi alto-piemontesi, mancavano -e in parte mancano- studi efficaci. Quanto agli scavi autunnali del lontano 1996, sono stati dati alle stampe soltanto resoconti tecnici. Una ricerca che, finalmente, ritessendo coraggiosamente i fili della storia, accordi le informazioni, le storie e le leggende, ancora tarda a nascere.

Di certo c'é che, tra il settembre e il dicembre di quell'anno, molte sorprese vennero fuori dal pavimento della malconcia chiesa dedicata al martire Lorenzo. Si sapeva, così narrano le cronache, che l'aveva fondata un missionario giunto da Egina nel V sec. circa. Giuliano, poi, si era costruito al suo interno -o lì accanto- una tomba per sé.

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Le reliquie vi rimasero per alcuni secoli finché, in data ignota, furono tolte da quel sepolcro -si presume per proteggerle dagli invasori longobardi- e nascoste nella nuova Basilica del paese.

Di recente resti del castrum antico, di vetusti selciati e di vecchie cripte colme di ossa sono comparsi inavvertitamente nel corso di lavori di manutenzione sul colle che domina il paese. Avrebbero potuto “colmare molti vuoti” se non fossero stati frettolosamente ricoperti e riconsegnati all'oblio e al silenzio per colpa del solito, immancabile disinteresse e fastidio per le nostre origini, mascherato da “mancanza di fondi”.

Della presunta “traslazione” conosciamo solo il giorno, 24 Ottobre, come racconta il Diploma del 919 di Berengario I, che concede di organizzare in tale giornata una fiera annuale in onore del “santo” a Gozzano. All'epoca, come testimonia lo stesso documento, i resti del missionario si trovavano già da qualche parte nella chiesa pievana del paese.

Ma sarebbero venute alla luce quasi miracolosamente, poiché il punto esatto in cui furono inizialmente sepolte non è tutt'oggi noto, molto più tardi, poco prima della costruzione della cripta in cui sono ancora esposte.

Di chi sono davvero quelle ossa? Gli scavi a San Lorenzo avrebbero dovuto rispondere affermativamente a quella semplice domanda. Invece, hanno sollevato, insieme alle lapidi e a tre diversi pavimenti, una gran quantità di domande.

 

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Sulla tomba primitiva di Giuliano sorsero almeno quattro edifici. La pavimentazione di quella attuale copre un intero cimitero che la occupa tutta. Voci non confermate, relative a saggi effettuati all'esterno, insinuano che l'area sepolcrale si estendesse ben oltre la prima chiesa, che vi fu poi costruita al di sopra.

Molte delle fosse, si è infatti scoperto, furono ricavate riutilizzando materiali provenienti da sepolture precedenti... precedenti al Cristianesimo. La lapide utilizzata come copertura di una di queste, la cui dedica si riferisce a una dea pagana, è ancora prudentemente conservata in qualche buio magazzino torinese.

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Autesai.kar/nitus.Petua [...]” recita il fregio, che sovrasta una ruota a quattro raggi e un simbolo composto da due semicerchi vicendevolmente tangenti, molto simili a certe figurazioni rupestri.

ad Autesa eressero Petua [...]”: è la dedica di una donna, Petua -forse insieme ad altre- a una dea, come anche i simboli suggerirebbero, il cui nome è Autesa, non di certo un nome di luogo, anche se richiama da vicino denominazioni come Autessiodurum o Auxerre.

L'unico altro indizio appartiene a millenni più tardi e precisamente al 1612. È una notizia da fonte non confermata, riportata dal Bascapé nella sua “ Novaria seu de ecclesia Novariensi”, secondo cui quella chiesa era inizialmente dedicata non a San Lorenzo e neppure a San Giuliano, bensì a Maria.

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Curiosamente, in effetti, il primo dedicatario noto, Lorenzo, viene festeggiato il 10 agosto, pochissimi giorni prima della festa dell'Assunta, della Vergine. Che questo fosse all'inizio un “luogo della terra”, successivamente romanizzato (come lasciano supporre diversi reperti ritrovati nelle tombe) ed infine cristianizzato?

Sotto al cenotafio che la tradizione racconta essere il sepolcro del “diacono”, è stata trovata una fossa voltata ben costruita. Altre due la fiancheggiano disponendosi come raggi intorno al perimetro esterno di una struttura semicircolare che non racchiude un altare.

 L'identificazione dell'insieme come un “synthronon” bizantino (i primi esempi sono quelli della post-teodoriana nord di Aquileia e della pre-eufrasiana sud di Parenzo), una sorta di gradinata semicircolare di pietra su cui sedevano i prelati, è un tentativo che lascia aperti numerosi dubbi. Il “synthronon” era concepito per privilegio e auto-celebrazione dei vivi, la strana struttura sotto San Lorenzo pare invece una conseguenza delle sepolture sulla parte convessa.

 

ParosSyntronon

 

Le tre tombe, pressoché coeve -del resto sono le più antiche- esistevano già prima della primitiva chiesa e i suoi occupanti erano semplici riutilizzatori delle fosse già presenti, come testimoniano le cassettine ritrovate in almeno due delle tre. I resti nelle cassette dovevano essere così importanti, che non erano stati tolti dalle fosse e sepolti altrove per far posto ai nuovi corpi, ma erano stati radunati e lasciati al loro posto.

Quando poi la prima chiesa fu costruita al di sopra di questo insieme, l'abside fu impostata in modo da inglobare le tombe, ma erano già così antiche che, non essendone visibili le parti terminali, l'emiciclo finì sovrapposto ai piedi degli occupanti di quelle laterali.

Il particolare “emiciclo”, inoltre, diversamente da un syntronon è chiuso sul fronte da un muro, in cui però si aprono ben due probabili ingressi, come lascia supporre la traccia di pavimentazione. Esternamente, in linea con il muro di chiusura, sono ancora visibili sui due lati le basi di due colonne o pilastri o forse basamenti, che sembrano una sorta di “guardiani” dell'insieme.

C'é poi una certa somiglianza tra questa struttura e il “sacellum” romano, oppure con i monumenti sardi detti “Tombe di giganti”. Ufficialmente vengono ritenuti tombe collettive. Ma la quantità di corpi ritrovati, per quanto abbondante, non suffraga appieno l'ipotesi che si trattasse di sepolcreti comunitari. Piuttosto, erano categorie specifiche di persone a essere seppellite, a più riprese, al loro interno.

 TGSanCosimo

 

Nella loro struttura simbolica, che sarà poi ripresa anche dal Cristianesimo, il grande emiciclo frontale delle “tombe” è la volta celeste, mentre i “sacerdoti” venivano tumulati nel lungo tunnel retrostante, “oltre il cielo”. Forse è lo stesso tunnel in cui dicono di trovarsi coloro che sperimentano gli stati di “pre-morte”. I “sepolti” erano così un medium, un tramite continuo tra il mondi dei vivi e quello dei morti.

A San Lorenzo le tre tombe si trovano altrettanto “oltre il cielo”. I corpi inoltre avevano la testa appoggiata su un “cuscino” ricavato da una pietra e orientato a est. Si ritiene che questo fosse un “privilegio” sacerdotale, ecclesiastico. Anche oggi, la cassa con il morto, in chiesa, viene per lo più posizionata con i piedi verso l'altare, che di solito si trova ad est. Il cielo, con il trapasso, diventa infatti la “nuova terra” su cui il defunto poserà i piedi.

 SchemaSyntrononSLorenzoWeb

 

Il “gigante” in senso spirituale, nelle “tombe” sarde e in San Lorenzo, fu invece posto con il capo e con il cuore nell'alto dei cieli, ma con i piedi ancora saldi su questa terra, cosicché potesse continuare a “benedire” i “fedeli” raccolti nell'emiciclo, esercitando le proprie “virtù” anche dopo la morte.

Le “legendae” in effetti, magnificano le capacità taumaturgiche del diacono gozzanese e del “fratello”, che vengono definiti “grandi medici”. Ma, curiosamente, il biografo non spende parole sui prodigi operati. Certo, sarebbe stato difficile attribuire a un solo individuo le guarigioni operate dalla terra stessa attraverso un “collegio” di sacerdoti pagani morti, gli stregoni della dea Audesia...

Ma potrei anche sbagliarmi.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, Parrocchia di Gozzano, 1982

Aa. Vv., VI centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, Parrocchia di Gozzano, 1961

L. Pejrani Baricco, Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento, in cantino Wataghin et al., 1999

L. Pejrani Baricco, Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania, in Brogiolo 2003

M. Perotti, La “legenda” dei santi Giulio e Giuliano e gli inizi del Cristianesimo nel territorio novarese, in Novarien 19, 1989

 


 

Mercoledì, 10 Giugno 2015 15:13

Io sono la genitrice dell'universo

Nelle leggende del Graal, tra le sue mille forme e apparenze, compare sempre quella del vaso, del contenitore, che raccoglie un qualche “cibo” o “nettare” divino. A chiunque potrebbe palesarsi, ma solo pochi si rendono conto, in ritardo, come Perceval, di cosa sia.

Nonostante il successivo affacciarsi, nelle storie dei trovatori, della figura di Giuseppe d'Arimatea e di un altro calice, quello che avrebbe accolto il sangue del Cristo morente, esisteva da sempre un “vaso” di cui forse il Graal era davvero rappresentazione. Ma chi mai avrebbe potuto accettarlo? Come poteva il ventre di una donna e ciò che contiene essere la più ambita delle reliquie?

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Nel 1994, nel dipartimento francese dell'Ardèche, esplorazioni speleologiche hanno inaspettatamente riportato alla luce i più antichi dipinti in grotta dell'intero pianeta. Nei meandri della grotta Chauvet, uomini impavidi e ingegnosi, 32000 anni fa, dipinsero un intero mondo di visioni. Ne è rimasto stregato il celebre regista, produttore e attore Herzog che, nel 2010, ha ultimato un commovente documentario dell'intero sito, intitolato “La grotta dei sogni dimenticati”.

I suoi 500 metri e più di estensione ospitano varie centinaia di pittogrammi. Ma è giù, nel profondo della terra, nella “camera” più lontana dall'ingresso, che giace su uno sperone roccioso il più antico di tutti. E' una “venere”, una dea madre, di cui sono ben intuibili le gambe e soprattutto l'attributo vulvare, la “porta” del suo grembo, di cui l'intera Chauvet è una grandiosa rappresentazione.

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Quella madre fu dipinta anche nelle alpi, nell'Ossola remota dei “Leponzi”, nella parete scoscesa di una balma naturale affacciata sulla valle. Anche qui, come a Chauvet, ancora esiste. Come nell'Ardèche, dove fu trasformata nei suoi animali totemici (uno “stregone” o una divinità con le corna e la testa e un felino aggiunti successivamente, circa 26-27000 anni fa) anche in valle Antigorio è stata rappresentata attraverso il suo equivalente animale, il cervo, dal cui naso la vita viene soffiata in questo mondo.

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In entrambi i luoghi le “preghiere sognanti” raccontano la stessa storia, fatta di ritmi, di ascese e discese, di nascita e di morte, di trasformazione, delle forze universali che si avvicendano nella magnifica danza della Creazione. Qui la vita raggiungeva il mondo dalle profondità siderali del cosmo, diventando materia, come suggeriscono le dee madri partorienti rinvenute a La Madeleine, ad Angles Sur l'Anglin e a Tursac accanto a entità animalesche cornute. Forse qui venivano portate le donne affinché il parto si svolgesse nel migliore dei modi. Quale luogo è più adatto alla nascita, infatti, del ventre profondo di Madre Terra, genitrice dell'Universo intero?

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Alla grande madre di ogni cosa si sono rivolti i culti di ogni epoca. Con mille nomi l'hanno chiamata, a volte dimenticandola, a volte ricordandosi nuovamente di lei, come la dea stessa racconta nelle Metamorfosi di Apuleio: “Nel mondo io sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi”. È la Cibele dei Frigi, la Minerva degli Attici, la Venere cipriota, la Diana cretese, Ecate, Rammusia, Giunone, Proserpina.

Il suo nome più antico, però, è forse Isthar o Iside, quella di cui, nel tempio egizio di Sais era inciso sull'altare: “Io, Iside, sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà... Il frutto a cui ho dato nascita è il sole”. Il trono è il suo emblema, il trono è il “sostegno” della vita.

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Viene ricordata e venerata dalla notte dei tempi e fino a tutta l'antichità. Poi, improvvisamente, qualcuno la solleva dal trono e spodestandola, la getta nell'oblio. All'incirca è un giorno di gennaio tra il 35 e il 39 d.C. Il cilicio Saulo, allievo del celebre filosofo gerosolimitano Gamaliele e feroce persecutore dei rivoltosi “cristiani”, cade e rimane parzialmente cieco mentre si reca a Damasco per proseguire la sua opera inquisitoria.

Ecco. Il feroce oppositore originario di Tarso, nato all'ombra di Iside, assalito dalle visioni insieme ad Anania come i sacerdoti della dea nel tempio di Philae, ben presto si rivolta contro i suoi stessi dei, dalle fattezze di animali: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Lettera ai Romani1).

Proclama invece il messaggio cristico come unica religione, inventando di fatto il Cristianesimo moderno. Ma non può sfuggire alle sue origini e non soddisfatto della guerra che sta portando alle “forze” e agli “enti” di cui è “figlio”, si dichiara unico depositario della sapienza divina: “ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Lettera ai Filippesi). L'onnipotenza di cui presto si fregia è senza dubbio quella che sta usurpando alla dea, alla Grande Regina Iside, chiamata appunto “Myrionima” proprio nella sua terra, la Cilicia in cui sorge Tarso.

Sfortunatamente per lui, continua ad ogni peregrinazione a dover fronteggiare la dea cosmocrate gnostica e i suoi sacerdoti, che addirittura gli si mostrerà come Artemide in Tessalonica. La dea, dunque, va definitivamente scalzata dal suo scranno. E ciò si compirà con la lettera ai Colossesi in cui, definitivamente, il Salvatore cristiano ne prende il posto: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ci aveva già provato tanto tempo prima il sovrano egizio Akhenaton, che aveva cercato di spazzare via tutti gli dei in favore di Aton, l'unico: “Tu hai l'eternità nelle membra, e tutte le creature vivono in te. [...] Tu li fai crescere per tuo figlio, colui che uscì dal tuo corpo...”. Ma solo il suo “pronipote” cilicio riuscì dove lui aveva fallito.

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Sconfessata e privata della devozione, la dea, giace a lungo quale semplice figurazione della Sapienza divina solo per aver dato il natale a Gesù. Della vera teotokos rimane solo qualche riflesso nell'iconografia bizantina della Vergine. La Sapienza viene fatta sedere “sopra” il grembo della Madre, tolta a forza dal suo interno.

Mille anni la dea avrebbe atteso. Ci voleva una mente eccelsa ed illustre, quanto grettamente umana, perché di lei i popoli tornassero a parlare. Quando quel giorno del XII secolo alcune gocce del latte di sapienza stillarono dal suo seno direttamente nella bocca del monaco Bernardo, il tempo finalmente giunse. Egli ne divenne il nuovo alfiere. Come si era fregiato dei suoi attributi chi l'aveva sepolta, così avrebbe fatto il prodigioso teologo grazie al quale sarebbe tornata al suo posto negli altari. Bernardo era l'unico che si era abbeverato direttamente alla sedes sapientiae e nessun altro, nessun Abelardo di questo mondo gli avrebbe potuto passare innanzi.

 

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I nascenti Templari sarebbero serviti allo scopo e il presule lo dichiara apertamente nella sua più discussa opera, la Lode alla nuova milizia: “Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione”. Lo scopo per cui l'ordine era stato fondato si sarebbe perso presto, fino a scomparire con il 1315 e la loro soppressione, ma altri ne avrebbero ampliato e proseguito l'opera.

Mentre i Cavalieri si diffondevano in tutto il vecchio mondo, i trovatori provenzali cominciarono a intessere le lodi alla Dea nella forma dell'amor cortese e nelle leggende del Graal. Certi re presero a farsi chiamare “trovatori della regina celestiale”, come i sovrani dell'antica Babilonia. Quel che non ci si ricordava veniva ripreso dai testi patristici del 6°-7° secolo (Liturgie basiliane, Gioie di Maria, Omelie della Vergine Maria di Germano di Costantinopoli, Lignum Crucis). Culti rinnovati si rivolsero alle oscure madri nere celate nelle cripte delle chiese. Riti perduti tenuti nascosti riemersero trasformati in usanze cristiane e alla paura del destino infausto che attendeva i bambini mort-né (morti-nati), i “mai nati”, si sostituì una nuova speranza nella madre dea, che concedeva loro una breve apparizione in questa vita affinché i loro corpicini potessero riposare in pace in terra consacrata.

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La dea era tornata. Solo una cosa ancora mancava, una nuova effige della dea che riparasse al millenario affronto che le era stato inflitto dall'uomo. Sarebbe nata a metà del XIII secolo, dapprima in Portogallo e Spagna per poi diffondersi fino in Polonia e nelle terre germaniche. L'avrebbero sostituita alle altre al sommo degli altari. E i fedeli, avvicinandosi a questa nuova Madre assisa, come un grande trono su cui è seduto il “frutto del suo seno”, l'avrebbero vista aprirsi, spalancarsi come le porte della Gerusalemme celeste, per mostrare chiaramente la Sapienza di cui era il contenitore, il vaso.

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Sarebbe durata poco. Già il Concilio di Trento ne avrebbe decretato la quasi totale scomparsa, condannandone la maggior parte delle figurazioni. A quelle che rimanevano avrebbe pensato Benedetto XIV nel 1745. Diversi erano i temi rappresentati dentro a queste “vierges ouvrantes”, vergini aprenti. Erano di legno, più raramente di avorio come il trono di Salomone ed erano costruite come scrigni,scatole, vasi, il cui coperchio si spalancava: alcune riproducevano scende tratte dalle Gioie della Madonna, altre episodi della Passione. Le più controverse e le ultime a resistere contenevano... la Trinità, la stessa vergata nelle absidi e nelle volte delle chiese. Nel ventre scuro (chiuso) di queste madonne pesantemente vestite, albergavano i tre princìpi, i costituenti dell'Universo, la Vera Sapienza che nella Grande Dea Terra trova realizzazione! E non dovrebbe sorprendere che molte di loro fossero esteriormente Madonne Lattanti.

Se ne conoscono oggi una settantina, ma ad eccezione di una manciata che si sono salvate dall'oblio del tempo, le altre sono soltanto riproduzioni tarde. La più antica è quella di Boubon. Due di quelle autentiche si trovano in Italia. Una, risalente al XV secolo, è ancora esposta nel museo del Castello di Pozzolo-Formigaro (VC), l'altra è stata pochi anni fa riconosciuta nella Parrocchiale di Ayas ed è proprio quella presso la quale si svolgeva il controverso rito della piuma o répit.

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Nell'intenzione di chi la dipinse, forse, anche la Madonna di Re (VB), se fosse stata una statua, sarebbe stata una “Vierge ouvrante”. Il cartiglio ai suoi piedi, riprendendo le parole dei Padri della Chiesa, dice chiaramente “I gremio matris sedes sapientia patris”... la sede della Sapienza del Padre è nel grembo della madre, proprio dentro... non sulle sue ginocchia...

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Una manciata di chilometri più a sud ovest, in Valle Strona, a Luzzogno, nel 1547, qualche anno dopo il miracolo presso l'affresco di Re, il vescovo Bascapé, in visita, ordina che l'antica madonna lattante sull'altare del piccolo santuario, venga privata del corpo “deteriorato e malconcio”. Perché la testa fu mantenuta mentre il corpo fu sostituito? Era forse il corpo eretico di una madre gnostica? Era forse un “vaso” che poteva aprirsi e mostrare verità scomode, inconfessabili, eretiche, pericolose?

 

Ormai era tardi. Quando l'Illuminismo arrivò la Dea si era di nuovo ritirata nel profondo delle cripte.

Il mondo non era ancora pronto, non meritava il suo ritorno.

E non lo è ancora.

 

 

 


NOTE

 1La questione è stata ampiamente dibattuta ed è ragionevolmente provata, nonostante la controversia sulla effettiva paternità di San Paolo per molte delle “lettere” e dei testi che sono attribuite.

 


BIBLIOGRAFIA

Clottes, Jean, Chauvet Cave (ca. 30,000 B.C.), in Timeline of Art History, 2002

Le Guillou, Yves, Le Pont-d’Arc Venus – La vénus du Pont-d’Arc, 2001

Gimbutas, Marija, Il linguaggio della Dea, 1999

Graves, Robert, La Dea Bianca, 1959
Delporte, Henri, The shelter at Tursac Factor: study, 1968

Witt, Reginald Eldred, Isis in the ancient world, John Hopkins University Press, 1971

Mattioli-Carcano, Fiorella, Santuari a Répit, 2009

Chabanol, Renée, Les Vierges ouvrantes où à volets, ou statues triptyques, in Revue de la Société d’Histoire et d’archéologie de la Plaine de l’Ain (SHAPA), 2001

Clément, J.,Vierges ouvrantes , in La représentation de la Madonna à travers les âges, Paris, 1909

 

 


 

 

Giovedì, 28 Maggio 2015 09:23

Il fiato del piccolo re

Chi è il re dei draghi, l'origine di tutti i serpenti? Qual'é il “principio” che li rende ciò che sono? Non è forse il fuoco che cova nel loro ventre ed erompe come fiato ardente dalle loro bocche? Non è forse la fiamma che arde nelle loro pupille e si sprigiona come saetta dai loro occhi?

Il fuoco, che distrugge e distruggendo purifica, nasce dalle profondità della terra per salire come fiamma fino al cielo. Era il fuoco puro che, se non controllato, strisciava fra le messi nei periodi di canicola, provocandone una crescita troppo veloce e il formarsi della “ruggine del grano” che guastava i raccolti.

Già i Romani e altri popoli prima di loro per scongiurarne la devastazione, usavano praticare i riti detti “ambarvalia” (“andare in giro per i campi”), il più importante dei quali era recarsi in processione al sorgere della “stella del cane” (25 aprile) chiedendo (“rogando”) al dio Robigus di “ammansire la bestia”. Da tale usanza detta “robigalia”, sarebbero derivate le “rogazioni” cristiane durante le quali veniva portato per i campi il fantoccio di un “drago”.

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Non si faccia confusione però. Il “drago” era certo l'immagine di tutti i malanni, di tutti i pericoli che si nascondono nelle profondità della terra. Eppure non era ancora, nell'antichità, la bestia demoniaca in cui l'avrebbero trasformato nel medioevo, anzi, come ogni cosa nel creato, era parte dell'esistenza. Tant'è che non lo si uccideva ma si provvedeva per lo più ad ammansirlo, convincendolo a “spostarsi”, ad occupare un luogo a lui più consono e non dannoso.

CalendApril1024

 

Di santi “sauroctoni”, domatori di draghi e di serpenti d'ogni foggia e dimensione, acquatici e terricoli, è pieno il martirologio romano, dall'Arcangelo con la spada al suo emulo San Giorgio, a San Silvestro, San Teodoro, San Rufilo, San Mercuriale, Santa Margherita di Antiochia, San Bernardo di Mentone, San Marone, San Pellegrino, Santa Marta, a San Demetrio a San Giulio d'Orta e molti altri.

Come il drago era la sintesi di tutti i pericoli causati da una qualunque forma di “squilibrio” della terra, la tradizione sfornò nei secoli molteplici altre forme per esprimere ogni singola “minaccia”. Di tutti uno era il re. Era il fuoco stesso, nato da un uovo sferico partorito da un “gallo”, dal sole stesso. Veniva dalle profondità della terra, dal pozzo in cui lo trovò il santo vescovo Siro a Genova. Proprio dove la narrazione di Jacopo da Varagine colloca l'episodio, ancora oggi (tra le attuali via Fossatello e via S. Siro) c'é ancora una lapide a ricordare dove si trovava il pozzo.

Tale fuoco era nocivo alla terra indifesa e la irretiva con i suoi occhi di fuoco e così infatti apparve all'imperatore la cui figlia ne era ottenebrata, dopo che il santo martire frigio Trifone, ancora giovane, l'aveva fatto fuggire.

 basilisco1

 

È dunque il fuoco che brucia silenziosamente nelle profondità della terra, il magma che erompe dai vulcani, lo stesso fuoco di cui è fatto il sole. È la fiamma che purifica e monda, l'ardore nel petto del cavaliere d'amore cortese, la brace che arde nell'intelletto dei sapienti. Ma è anche il distruttore che può prendere il sopravvento e incenerire ogni speranza, ogni slancio amoroso, ogni desiderio di conoscenza.

Tanto nelle processioni rogatorie, quanto nei racconti popolari, sopravvive così mirabilmente, in termini simbolici, il principio sapienziale del “troppo calore” che distrugge e che è tale, con modi propri, per il cosmo, per la terra e per l'uomo.

 

basilisco3

 

Non si tratta di una sapienza solo “filosofica” o mistica ma anche di conoscenze pratiche che, in questo modo si sono efficacemente tramandate. Nelle tradizioni alpine il “piccolo re” o “re di biss”, re dei serpenti, meglio noto come “basilisco” è una delle creature fantastiche e pericolose nelle quali ci si può imbattere, se si è incauti, andando per pascoli, prati e alpeggi. Nelle sue fattezze si nasconde non una mera fiabetta per bambini, ma un piccolo gioiello di sapienza contadina che è potuta giungere fino a noi, mantenendo intatto il suo insegnamento, proprio grazie a questa sua forma.

 canicola2

 

Il basilisco è, in verità, il “gran nemico”, il principale avversario di ogni alpigiano. In una parola è il “colpo di calore”, frequente soprattutto per chi lavora all'aperto. Nell'ambiente che si racconta il rettile prediliga, si riconosce chiaramente un'indicazione delle condizioni in cui l'insolazione può verificarsi più facilmente: il basilisco si incontra nell'erba alta, secca e ingiallita, tipica delle situazioni di siccità e di eccessivo caldo.

L'aria calda e irrespirabile che si alza dal terreno in quelle condizioni viene efficacemente resa con il “fiato” infernale della bestia. È quella stessa aria calda e satura, se si manifesta prima del mese di maggio, provocherà una crescita eccessiva delle messi, compromettendo i raccolti. Ed è anche quello stesso afrore che minaccia di morte i minatori e chi si avventura nelle grotte, annidandosi nei pozzi come nell'antica Genova del vescovo Siro e nel buio più profondo.

Il colpo di calore, allora, ormai inevitabile, viene strisciando, in silenzio e colpisce all'improvviso. A quel punto si crolla a terra febbricitanti a faccia in su, cercando di respirare. Il disco solare con i suoi raggi, visto attraverso le palpebre arrossate, non può che somigliare agli occhi di brace del rettile.

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Presto cominciano i vaneggiamenti e le allucinazioni unite al tremore spasmodico del corpo, che non riesce più a espellere il calore in eccesso. Infine, mentre si sbatte e si vaneggia a tal guisa da sembrare indemoniati (come la figlia dell'imperatore frigio!), giunge inesorabile, nella solitudine delle valli e dei prati, la morte.

In questa mirabile descrizione delle cause e dei sintomi, pii uomini del passato non hanno però mai dimenticato di elencare anche i rimedi, avvertendo, prima di tutto, che il basilisco non va “ucciso”. Pezze imbevute di acqua poste sulla pelle soffocano il basilisco e uccidono chi si è preso un colpo di sole, altrettanto il ghiaccio che può provocare uno shock termico.

Il rettile invece, va “ammansito”, va invitato ad andarsene in modo fermo, ma con dolcezza. Siro, l'aveva convinto a entrare nel secchio calato nel pozzo e il basilisco, quando ne era stato tirato fuori, era fuggito gettandosi in mare. Altrettanto, bere per favorire la sudorazione e immergere il corpo in acqua fresca (non gelida!) sono e sono sempre stati i piccoli rimedi per combattere l'insolazione.

 canicola

 

Se scorressimo con attenzione i vecchi racconti di chi scampò al basilisco, poi, troveremmo sicuramente, nascosti nelle fortunose e inverosimili soluzioni escogitate dai superstiti, mille altri rimedi, ricordi di una sana conoscenza della natura che da tempo abbiamo tradito.

La natura continua a gridare, inascoltata, che nella malattia c'é già anche la cura. È così infatti che il rettile, per principio omeopatico, diventò medicina di sé stesso, trasformato nel Santo Basilisco dei cristiani, provvidenzialmente martirizzato e sepolto a Comana sotto Diocleziano.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

Jean Paul Clébert, Animali fantastici, Milano, Armenia, 1990

Jorge Luis Borges e Margherita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Milano, Einaudi, 1957

Marie-Madeleine Davy, Il simbolismo medievale, Paris, Flammarion, 1977

Jean Chevalier e Alain Geerbrant, Dizionario dei Simboli, 1969

Jacques Bonvin, Dictionnaire énergétique et simbolique de l'art romain, Paris, Mosaique, 1996

Huang Ti, Nei ching Su Wen, V sec. a.C., pubbl. 1770

Teresio Valsesia, Val Grande ultimo paradiso, 1985

Aa. Vv., La montagna dei twergi, Gruppo Alpini Ornavasso, 1989

Enrico Rizzi, I Walser, Anzola d'Ossola, Fondazione arch. Enrico Monti, 2003

 


 

 

Cosa pensate mai, levando lo sguardo verso l'alto della volta ombrosa dalla quale penzolo?

Sapete forse come ci son finita?

Mo' ve lo racconto...

Tutto iniziò con un certo missionario che veniva da oriente in compagnia di alcuni suoi discepoli.

Passò da Roma per meditare sulla tomba di San Paolo. Poi fu chiamato verso settentrione dalla curia milanese. A Novaria c'era già un tale Gaudenzio, che imperversava nelle campagne, al soldo del signor vescovo, cercando di accomodare la fede silvestre, contadina con la nuova Religione di Costantino.

Convincendo i pagani a chiedere il battesimo, facendoli insomma Cristiani, questo indigeno saziava il suo afflato mistico e rendeva insieme un gran servigio al suo padrone che, proprio per questo, riceveva dall'imperatore copiosi benefici fiscali.

Al senatore-vescovo Audenzio, invece, Ambrogio ed Eusebio avevano caldeggiato un certo Iulius di origini greche, che, appunto, giunse presto da Milano all'Isola in mezzo al lago.

Non mi credete? Aspettate, ve lo spiego meglio.

  SG SLorenzoGozz

 

Tra la reggenza di Costantino e quella di Teodosio, il Cristianesimo, che era stato duramente combattuto, da setta diventa religione e i benefici riconosciuti a coloro che si dedicano a tempo pieno alla celebrazione dei nuovi culti, ne favorisce la diffusione. Sono i “possessores”, i possidenti terrieri, i primi ad approfittarne, erigendo cappelle accanto alle loro abitazioni e affidando la cura delle anime a “preposti” appositamente scelti.

Comincia così la cristianizzazione delle campagne e della valli, anche quelle del Verbano, del Cusio, dell'Ossola e del Novarese. Dove si formavano comunità più vaste, nuovi vescovi venivano eletti e si aggiungevano a quelli già esistenti. Oltre a Novara erano sedi vescovili, in quei secoli lontani, almeno Domodossola (o forse l'antica Vergonte), Orta e Gozzano.

La predicazione era affidata a “missionari”, arruolati anche da terre lontane che, di villaggio in villaggio, edificavano chiese, portavano la nuova Religione agli abitanti e soprattutto li legavano al vescovo attraverso il battesimo. Cureggio, Agrate, Quarona, Montorfano, San Remigio, Pieve Vergonte sono solo alcuni dei luoghi in cui subito sorsero battisteri per adempiere all'indispensabile rito.

Fautore della conversione dei “Leponti” e degli “Agoni” al cristianesimo, si racconta sia stato uno di questi, originario di Egina, placida isola ellenica del golfo ateniese. Difficile che questo Giulio, da solo, possa aver oltrepassato tutti i passi alpini e costruito tutte le chiese che la tradizione gli attribuisce, ma alcune, molto antiche per fondazione, trovandosi proprio sul percorso che si racconta abbia fatto, potrebbero davvero essere opera sua o di suoi simili. È il caso di Brebbia (V sec.), presso cui il missionario, se davvero veniva da Milano, avrebbe riattaccato il pollice a un falegname che se l'era tranciato di netto. Potrebbe pure essere il caso di Sant'Agata a Novaglio, del XI-XII secolo, ma forse costruita su un'oratorio risalente al V secolo.

 SG Brebbia

 

Il predicatore, dopo essere passato da Roma per pregare sulla tomba di San Paolo, giunge dunque alle terre novaresi, passando forse per la capitale del Ducato. Le leggende raccontano che il suo percorso aveva l'inverosimile forma di una croce. Si ferma poco prima del Lago di Orta, extra-moenia (fuori dalle mura di) Gaudiani (Gozzano), e qui comincia, con tutto il fervore che ha in corpo, a convertire i popolani al Cristianesimo. Se non aveva viaggiato da solo, chi lo accompagnava era per lui come un fratello. È a costui o forse al più preparato del gruppo di cristiani che aveva convertito nel Gozzanese, che il missionario affida il proseguimento dei lavori presso la piccola chiesa che ha cominciato a costruire. Nasce così la leggenda del fratello di Giulio, Giuliano, colui che poi vi sarà sepolto.

Potrebbe infatti essere stato un nome proprio, “Iulianus ”, ma anche un epiteto per indicare gli “eredi” o i membri della cerchia cristiana di Giulio da Egina. Del resto, nelle prime “Vitae Sancti Iulii” non compare mai un suo fratello, né il nome Giuliano. Paolo Diacono, addirittura, secoli dopo, citando la presenza di un duca longobardo presso l'Isola di Orta (VI sec.), Minulfo, la chiama “Isola di San Giuliano”.

Giulio invece prosegue per il lago. L'eresia ariana sta dilagando e l'Isola è stata fortificata. Chiunque la abiti, che siano uomini o “serpi”, ha gettato le peggiori paure sui barcaioli che, alla richiesta del predicatore di traghettarlo, si rifiutano. Così, scrive l'autore della “Vita”, il futuro santo stende sulle acque il mantello e raggiunge, usandolo come una zattera, lo scoglio in mezzo al lago, per “liberarlo” dalle malvagie presenze.

SG Squirico

Non si fa fatica – l'han già detto in molti – a riconoscere nei serpenti e nei draghi le fattezze del credo pagano, così come, nel mantello steso, l'abbraccio della Religione che tutti accoglieva benevola.

Eppure, ad abitare l'isola è proprio quel “cattolicissimo” senatore Audenzio che aveva richiesto al vescovo milanese la presenza di Giulio sulle sponde del lago. È forse lui il rettile da ammansire? Con quale mano, vien da chiedersi, costui regge i suoi possedimenti, se tutti lo temono al punto di non volersi avvicinare allo scoglio presso cui dimora?

Il missionario, dice la leggenda, riesce nel suo intento e costruisce proprio sull'isola la centesima chiesa, dove si fa seppellire insieme ad Audenzio. Ad occuparsene, prendendone poi il posto come capo della comunità, ci pensa l'ex vescovo di Sion, Elia, giunto tempo prima a rifugiarsi presso il predicatore di Egina, per sfuggire alle persecuzioni ariane.

Nel secolo successivo, il nuovo vescovo Filacrio riedifica la chiesa primitiva, erigendo al suo posto un nuovo edificio a croce greca, in cui farsi tumulare a sua volta insieme agli illustri predecessori (553 d.C.).

Vent'anni dopo, l'arrivo dei Longobardi guidati da Alboino riporta le serpi e soprattutto i draghi, tanto cari ai conquistatori germanici, devoti al Santo Michele, sull'isola, dove rimarranno fino a Carlo Magno. Poi, la destituzione dei nobili discendenti dei Winnili, dopo il 774, stimola una nuova opera di cristianizzazione operata dai vescovi locali, per compiacere l'imperatore e mantenere il proprio status.

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Il vescovo vittorioso che ha piegato il “drago” alla sua autorità e l'antico ed eroico missionario, così, convergono creando, la figura del santo evangelizzatore, codificata nella “Vita Sancti Iulii”. A un “San Giulio” da quel momento viene attribuita gran parte delle opere di predicazione e di edificazione di chiese della zona.

Quasi novecento anni dopo, i resti di Giulio da Egina vengono ritrovati sotto l'altare della Basilica dell'Isola di Orta. Il loculo è chiuso da una lapide che ne porta il nome, fugando qualsiasi dubbio iniziale.

Sfortunatamente, oggi sappiamo che, invece, la tomba ospitava le ossa di Filacrio, confuse con quelle del predicatore di Egina, poiché i resti della sua sepoltura erano stati fatti riutilizzare dallo stesso vescovo per la propria nel VI secolo.

Altre ossa erano poi vengono rinvenute alla rinfusa. Si pensa subito che siano di Audenzio e di Elia, così, si decide di metterle tutte insieme, senza neppure distinguere uno dall'altro... Successivamente ricomposte come un unico corpo da esporre alla venerazione dei fedeli, sono quelle che ancora oggi occhieggiano nello scurolo sotto la Basilica.

E tra di loro, forse, non ci sono neppure quelle del “giuliano”, Giulio di Egina, che fu fatto santo.

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Ecco, questa è tutta la storia. Non è certo quella di cui si favoleggia, lo so bene. Ma, del resto, cosa posso saperne io? Sono quelle stesse ossa, quei teschi dalle orbite vuote e quelle mandibole slogate e senza denti ad avermela raccontata, da buoni testimoni, in questi lunghi secoli.

Come son finita qui, poi, è presto detto. Tutta colpa di quel chierico furbacchione che, per far soldi sulla faccenda di quel Giulio, non trovò di meglio che barattarmi da un mercante per una falsa indulgenza.

Così, il truffaldino portava i pellegrini presso le povere spoglie del missionario e poi, per meglio invogliarli a sganciar denari, li trascinava qui a rimirarmi. L'ingordo, allora, si faceva scuro in volto, sgranava gli occhi e con fare da teatrante si prodigava a narrare, con dovizia di particolari, che io son tutto ciò che resta del mostro dell'isola, scacciato insieme alle serpi dal buon missionario di Egina... menando per drago un pezzo d'osso di balena!

 

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Battista Beccaria, Le Culture Preromane e Romane del Territorio Novarese, in Novarien 22, 1992

Giambattista Beccaria, Sulle origini cristiane novaresi. In margine a quattro conferenze del gruppo di studio sulle culture preromane, romane e barbariche del Novarese, Novarien 25, 1995

Giambattista Beccaria, Sulle Origini cristiane novaresi. Nuove acquisizioni. In margine alle conferenze del Gruppo di studio sulle Culture preromane, romane e barbariche del Novarese negli anni 1996 e 1997, in Novarien 27, 1997

Giambattista Beccaria, Note in margine al convegno e agli atti su Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini, Novarien 28, 1998

Aa. Vv., VI Centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, tip. S. Mora, 1961

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, tip. Testori e C., 1982

Aa. Vv., Una luce che non tramonta sulla rocca di San Giuliano, Parrocchia di Gozzano, 1987

Sabato, 25 Aprile 2015 11:22

Il Cielo in un catino

Sacro è ogni luogo in cui cielo e terra si incontrano. Così, il tetto era il cielo e il pavimento la terra, la cupola era la volta siderale, sotto cui stava il suolo. Ma ciò è vero anche quando si considera il luogo “in pianta”.

Se la terra infatti è quadrata (con i suoi punti cardinali), il cielo è circolare. La loro sovrapposizione incompleta, il loro sfiorarsi come in un'eclisse parziale, è appunto la forma impressa al perimetro delle chiese e di molti luoghi sacri.

La visione del cielo è il premio per i meritevoli, per gli arditi che hanno compiuto il cammino. È proprio là, sopra e intorno all'altare. Nelle chiese romaniche, l'intera porzione absidale era una raffigurazione della volta stellata nelle sue parti. La fascia più bassa, quella mediana e il “catino” altro non erano che “sfere celesti”, livelli e strati dell'empireo.

Non vi si raffigurava un'immagine del cielo. Si rappresentava, nella più semplice forma possibile, il modo in cui lo regolano le leggi universali, le stesse che ritmano ogni cosa esistente. Di tali “regole perfette” sono immagini i Serafini di Isaia, tanto cari ai bizantini: «Vidi il Signore seduto su di un trono, ed il suo seguito riempiva l'Hekhal. Sotto di lui stavano i serafini, ognuno con sei ali, e due di queste ricoprivano il loro viso e due i loro piedi, mentre con le ultime due volavano». Li si vede ancora, non a caso nelle volte, tanto nel ravennate che nell'odierna Istanbul, a reggere la costruzione immane di Santa Sophia o quella più esile e leggera di San Salvatore in Chora.

 

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Tali sono gli enti che esistono prima di ogni cosa, come racconta il Vangelo di Giuda: “[…] là esiste un Regno grande e illimitato, la cui estensione nessuna generazione di angeli ha visto, nel quale c’è un grande spirito invisibile, che nessun occhio di angelo ha mai visto, nessun pensiero del cuore ha mai compreso, e non è mai stato chiamato con alcun nome. [...] E là apparve una nube luminosa. Un grande angelo, Il divino illuminato Auto-Generato emerse dalla nube. A causa sua, altri quattro angeli si manifestarono da un’altra nube, e diventarono i compagni per l’angelico Auto-Generato”.

Ecco dunque che, emanato dalle potenze angeliche, il tetramorfo ebraico del Vecchio Testamento, prende la forma del Pantocratore nella mandorla, con gli animali mitici simboleggianti gli evangelisti ad affiancarlo.

Come disse l'Imperatore Giallo: “il moto del sole illumina il cielo”. Gesù benedicente è quel sole, il “Sole di Giustizia”. Lo avvolge la “mandorla” o “vesica piscis”, che compare per la prima volta intorno al 422-432 d.C (pannello ligneo del portone di Santa Sabina) ed è come uno squarcio che si apre fra le nubi per illuminare il creato.

 

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I quattro “animali totemici” sono allegorie delle quattro costellazioni che dominano il cielo nei momenti di massimo, di minimo e di transizione -solstizi ed equinozi- dell'astro solare, i quattro punti all'interno dei quali il sole fa il suo percorso annuale nel cielo.

La costellazione del Toro (Luca) fa da sfondo all'Equinozio di primavera, quella del Leone (Marco) al Solstizio Estivo, Aquila/Scorpione all'Equinozio autunnale (Giovanni), Acquario/Piscis Austrinum (Matteo) al Solstizio invernale.

Così disposte esse definiscono quattro spazi intorno al Cristo che corrispondono alle stagioni. E poiché le chiese venivano generalmente orientate con l'abside ad est, la suddivisione ideale del Tetramorfo è tale per cui lo spicchio corrispondente alla primavera, la ri-nascita della natura è presso il capo del Cristo, mentre l'autunno è ai suoi piedi.

In casi rari e particolari, come a San Leonardo di Borgomanero (NO), è raffigurato il disco solare in due punti ben precisi, che indicano e delimitano il momento di massima importanza per il luogo, tra “Giuda” e “Leonardo”, fine di ottobre e primi giorni di novembre, la festività celtica di Samhain.

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Accanto alla tradizione delle costellazioni, alcune culture tramandano quella delle quattro stelle fisse. Ne parla il Bundahish, il racconto della creazione mazdeista, secondo il quale ai quattro punti del moto solare corrisponderebbero le “stelle fisse” o “stelle regali” Aldebaran, Regulo, Antares e Fomalhaut.

Il ciclo inferiore è una emanazione di quello superiore. I quattro cardini celesti diventano dodici specificazioni raggruppate per tre. Come ogni stagione è formata da tre mesi, così era per le tribù di Israele, unite a gruppi di tre sotto uno stesso simbolo.

La corrispondenza tra il cielo, i mesi e le mansioni fu all'origine di un filone letterario specifico già in epoca romana, inaugurato dai Fasti di Ovidio e dalle Georgiche di Virgilio. Ma l'idea appartiene anche alla genesi biblica (1, 14-15): “Poi DIO disse: Vi siano dei luminari nel firmamento dei cieli per separare il giorno dalla notte; e siano per segni e per stagioni e per giorni e per anni”.

È passata intatta alle culture successive. Ancora nel Medioevo le figurazioni associate a ciascun mese erano per lo più le antiche immagini latine, con aggiustamenti e modifiche dovute soprattutto a peculiarità locali. Un animale autoctono poteva essere utilizzato invece di un altro, una mansione sostituire quella tipica, la semina, in Francia, veniva abitualmente sostituita dalla conduzione degli animali alle stalle e così via.

 

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Nella sua semplicità, tali immagini absidali esprimevano, in tutta la sua potenza, una sola, grande verità: dal modo in cui agiscono le forze che governano il cielo, di cui il sole è principe, dipende anche ogni cosa sulla terra. Tutto è emanazione dello stesso uno.

Ne fecero sicuramente tesoro pure i Templari all'epoca delle crociate. Innumerevoli sono gli indizi della loro conoscenza dei cicli cosmici e dell'importanza che attribuivano al loro utilizzo: Montsaunés in Francia e Staffarda in Italia sono solo due tra i tanti esempi di magioni dei “Pauperes Commilitones” le cui chiese erano affrescate con motivi chiaramente riconducibili all'astronomia e all'astrologia. “12 templari custodiscono il Graal”, avrebbe molto più tardi sostenuto il misterioso Fulcanelli.

 

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Un terzo livello, intermedio, si impose nei secoli, quello dei 12 apostoli, secondo i loro dies natalis, il loro giorno di nascita, a volte noto (La Depositio Martyrum riporta quella di Pietro e Paolo) e altre volte stabilito simbolicamente, cui si fecero corrispondere i mesi: Pietro con gennaio, Paolo con febbraio, Mattia (sostituto di Giuda) con marzo, Filippo con aprile, Giacomo Minore con maggio, Giovanni con giugno, Giacomo Maggiore con luglio, Bartolomeo con agosto, Matteo con settembre, Simone e Giuda Taddeo con ottobre, Andrea con novembre e Tommaso con dicembre. In verità le prime associazioni tra apostoli e mesi risalgono al III secolo. In tal modo gli apostoli vennero progressivamente inseriti nella “cosmogonia” cristiana quali intermediari diretti tra il cielo e la terra e resi enti necessari all'ordine del mondo.

 

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Nel XVII secolo ci fu un tentativo di sostituirli definitivamente ai mesi e alle costellazioni, con la pubblicazione di alcuni lavori da parte degli eruditi del tempo (Coelum Stellatum Christianum del gesuita Julius Schiller, Epitome Cosmografica di Vincenzo Maria Coronelli, Planispherium Stellatum di Bartsch e Harmonia Macrocosmica di Andreas Cellarius).

I dodici vennero accoppiati non solo con lo zodiaco ma anche con i simboli planetari e questi con i corrispondenti segni cristiani della chiave, della croce di S. Andrea, del calice, dell'asta, del bastone, della croce, del coltello, dell'ascia bipenne, della sega, della mazza e della scure.

Così, ad esempio, nelle figurazioni di S. Bartolomeo, la pelle scorticata che porta al braccio e il pugnale, oltre ad essere interpretabili in chiave guerresca come “vender cara la pelle”, contengono anche il riferimento alla costellazione dello Scorpione e al mese di Novembre, periodo in cui bisogna purificarsi, “cambiare pelle” levando di dosso quella vecchia, in preparazione al mese di Dicembre e al solstizio invernale, la definitiva “morte” ad ogni cosa, preludio della futura rinascita.

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Fu anche proposto un corrispondente “evangelico”, un personaggio del Nuovo o Antico Testamento, per ognuna delle costellazioni astronomiche rimanenti. Ma l'idea non ebbe grande seguito e rimase piuttosto un dotto esperimento letterario.

L'abside era -e rimase a lungo- una complessa e perfetta figurazione delle sfere celesti, dei loro rapporti e del loro movimento. L'uomo si trova nel primo terzo inferiore dell'abside, gli apostoli quali portatori della “ragione” in quello intermedio, gli esseri divini nel terzo superiore. Il Pantocrator, manifestandosi attraverso uno “squarcio nel cielo” appartiene ad un ulteriore livello invisibile, al di sopra di esso. Ognuno dei tre terzi visibili è poi a sua volta simbolicamente composto di almeno due parti, di tanto in tanto contrassegnate da elementi specifici. I quattro simboli astro-evangelici del tetramorfo, ad esempio, in certe circostanze sono dipinti con una linea di separazione in due gruppi.

 

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Infine, le finestrelle (due, tre, quattro) ricavate nell'abside uniscono tutta la cosmogonia al luogo stesso. Sono ricavate in corrispondenza del punto in cui il sole sorge all'alba di certi precisi giorni: solstizi ed equinozi così come sono visibili dal luogo, oppure l'equinozio e la data di fondazione della chiesa. Sono la chiara indicazione di come e quando le forze del cielo e della terra agiscono armonicamente in quel particolare punto della terra che, rispondendo a tali potenze, è veramente sacro.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA:

Matilde Battistini, Simboli e Allegorie, Milano, Electa, 2002

Adrian Snodgrass, Architettura, Tempo, Eternità, Milano 2008

Massimo Citro, Gli Dei e i giorni – Viaggio attraverso i simboli del tempo, Ecig, 2003

Adriano Gaspani, Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine, Priuli & Verruca, 2000

Huang Ti, Nei Ching Su Wen, 2697 a.C.

Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto - Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi 1983


Il futuro di ogni territorio è fatto di idee, discussioni e progetti. InnovaTorre vuole favorire il loro sviluppo in ogni ambito, economico, culturale, sociale, ecc., per promuovere e incentivare passo dopo passo un interessante avvenire per l’Ossola e in generale tutto il VCO.

Per questo abbiamo pensato agli #OpenTables, tavoli di discussione tematici periodici a cui chiunque può partecipare e dire la propria! Le discussioni dei vari gruppi di lavoro porteranno all’elaborazione di linee guida e soluzioni innovative per lo sviluppo delle materie trattate e, perché no, ad azioni concrete a livello locale…

Il primo incontro, alla Torre di Battiggio (Vanzone con San Carlo), prevede 3 #OpenTables:

tavolo 1 – STORIA E ARTE DEL TERRITORIO COME BASE PER L’INNOVAZIONE CULTURALE

Individuare approcci moderni all’unicità delle risorse storico-artistiche locali, per catalizzare nuovi processi di sensibilizzazione e valorizzazione, anche in ambito turistico
- Coordinatore: Francesco Teruggi, Associazione Culturale TriaSunt


tavolo 2 – CONOSCENZE E SAPERI IMMATERIALI COME VALORE AGGIUNTO DELL’ECONOMIA RURALE

Come tramandare o rinnovare la tradizione? Approfondire i legami tra ciò che chiamiamo tradizione e il plus economico sulla vendita di oggetti o esperienze tradizionali
- Coordinatore: Samuel Piana, Landexplorer


tavolo 3 – ORO E MINIERE COME RISORSE TURISTICHE

Individuare azioni e orientamenti nuovi per far ri-emergere il grande patrimonio minerario domestico, possibile traino per un turismo sostenibile e per fresche opportunità lavorative
- Coordinatore: Walter Bettoni, Associazione Figli della Miniera


PROGRAMMA

Ore 14.30 - Registrazione partecipanti

Ore 15.00 - Apertura workshop a cura di Damiano Oberoffer, Team InnovaTorre

Ore 15.15 - Avvio tavoli tematici nei vari piani della torre

Ore 17.00 - Coffee break

Ore 17.15 - Conclusioni a cura di Roberto Rolando, Team InnovaTorre



PARTECIPA ANCHE TU A UN TAVOLO! E’ GRATIS!
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La registrazione è obbligatoria. Ricordati di stampare il biglietto e di portarlo il giorno del workshop, oppure tienilo nel tuo smartphone!

N.B. Ogni partecipante può discutere a un solo tavolo di lavoro.

Mai terzo comandamento fu preso alla lettera come nella bassa borgomanerese. Sorgeva qui nella piana dell'Agogna, nel XII il burgus di San Leonardo, sorto in epoche più antiche sull'opera civile di un accampamento romano. Perché si chiamasse così non si sa. Il nome compare all'improvviso. E dura poco. Già nel 1231 l'insediamento diventa Commune Buegimaneri.

L'epiteto antico rimane appiccicato soltanto alla piccola e buia chiesa romanica. Il santo in questione è un franco del VI secolo, seguace e prosecutore dell'opera del battezzatore San Remigio di Reims. Provvidenzialmente le date esatte della sua vita e della sua morte non sono note e le sue prime biografie furono vergate soltanto quattro secoli più tardi.

La sua fama poi si accrebbe grazie a Boemondo I di Antiochia a ai suoi scritti durante la prigionia, facendolo diventare immediatamente uno dei patroni della via Francigena. Ma questo non chiarisce perché l'antica Borgomanero ne portava il nome, né perché la lui era intitolata la chiesa omonima.

L'edificio, così semplice e scarno, racchiude più di un mistero.

 

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Il più evidente è in mezzo al ciclo di affreschi della passione, sul lato meridionale. Una delle scene, inizialmente presa per un episodio della vita si San Leonardo, messa lì a sproposito, raffigura invece un Giuda Iscariota dinnanzi al quale sta inginocchiato niente meno che Gesù!

Non è certo una raffigurazione canonica e neppure proviene da apocrifi. È invece tratta pari pari da un libello del X secolo intitolato “Toledōt Yeshū”. Il testo, di chiara matrice satirica e poco o per nulla cattolica, è molto noto negli ambienti ebraici. Pur essendo medievale, riprende numerosi elementi narrativi già presenti nella polemica antigiudaica dei tempi di Tetulliano e Origene e altri riscontrabili in testi rabbinici. Rabano Mauro è il primo a citarlo in ambito cristiano, nell' 847.

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Vi si racconta grottescamente di come una “parrucchiera” di nome Myriam viene sedotta da un certo Joseph Pandera e rimane incinta. Abbandonata cresce da sola il pargolo Gesù, che diventato adulto, viene cacciato dalla sinagoga in quanto generato da un adulterio. Fuggito a Gerusalemme, costui riesce a scoprire i misteri dell'ineffabile nome di dio “YHWH” e li scrive in una pergamena miracolosa che poi nasconde.

Allora lo scaltro Giuda decide di fingersi suo discepolo e riesce a prendere con l'inganno, dalle sue mani, il rotolo prodigioso. Quando Gesù, accortosi del tranello, torna a Gerusalemme, viene imprigionato e ucciso.

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Le scene in San Leonardo immortalano proprio il momento in cui Giuda, raffigurato proprio come gli altri apostoli nell'abside, convince Gesù e quello in cui il truffatore, con la pergamena fra le mani, ordina l'arresto del suo ormai ex-maestro. Osservando meglio, l'intero ciclo sembra centrato sulla figura dell'Iscariota piuttosto che sul Cristo.

Del santo cui la chiesa è dedicata, invece, non c'é quasi nulla se non, forse, la figura incerta alla base settentrionale dell'arco absidale. Il resto, solo le mura dell'edifico potrebbero raccontarlo.

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Qualcosa hanno da dire di certo. Intanto la chiesa non è equinoziale, cioè orientata ovest-est, ma solstiziale, con l'abside che punta a nord est, all'alba del solstizio estivo, un orientamento insolito. Ciò contrasta anche con la ricorrenza del santo, che è il 06 novembre.

Poi, non bisogna dimenticare che la chiesa sorge su un edificio precedente di età ignota e la dedicazione, per quanto ne sappiamo, si riferisce alla chiesa attuale e non necessariamente alla prima. Il borgo, che era tra i pochi “franchi” del novarese (insieme a Borgosesia, Ameno, Soriso, Oleggio e Romagnano), quindi con privilegi “fiscali”, fa subito venire in mente un centro agricolo e di allevamento nonché di scambi e di mercato, nonostante le cronache lo dipingano come un abitato di poco conto.

La dedica a san Leonardo, originario della regione francese di Limoges può così avere una spiegazione razionale. Il Limosino era in effetti celebre per l'allevamento dei buoi. Non a caso Leonardo è protettore proprio degli allevatori di questi animali. Ma c'é di più. La sua festa è il 06 novembre e il mese di novembre, negli antichi cicli dei mesi, soprattutto nelle varianti regionali francesi, è il mese in cui “si mettono i buoi nella stalla”.

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Si intravvede in questo la recondita volontà di assegnare il santo a quel mese come se tra i due ci fosse identità. La vicinanza è ancor maggiore considerando che il suo simbolo sono le catene (è patrono dei prigionieri).

I ceppi e le catene infatti sono inequivocabili rappresentazioni della terra unita al cielo, evento che le popolazioni antiche di matrice celtica, anche quelle che abitavano il borgomanerese, celebravano proprio nei primi giorni di novembre. Era la festa di Samhain, tre notti in cui la terra era così vicina al cielo che i morti tornavano a visitare i vivi.

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Un segnale in San Leonardo c'é... il serpente, la forza profonda della terra, scolpito sul pilastro nord dell'arco oltre l'ingresso mentre si arrampica strisciando verso il cielo.

Sembra un azzardo, ma la possibilità che la ricorrenza pagana, sia stata “fatta santa” trasformandola in un presunto monaco cristianizzatore del VI secolo, non pare così remota, per quanto le tracce di questa “trasmutazione” si siano persi nella notte dei tempi.

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Rimane la questione del “traditore”. Curiosamente lionard/Leonardo significa “forte come il leone” e il felino è il simbolo, l'animale totemico della tribù giudaica (di cui faceva parte l'Iscariota, di nome e di fatto). La traccia è debole, ma adombra una qualche “fratellanza” tra i due personaggi.

La lettura in chiave astronomica sembra poi risolvere il resto dell'enigma. Giuda, la cui nascita simbolica è fissata evidentemente nel mese di Marzo (come quella di Mattia che lo sostituì) fu spesso confuso, nel medioevo, con l'omonimo Taddeo, il cui die natalis è nel mese di Ottobre.

Guarda un po'... il mese prima di Leonardo!

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Ecco dunque che i due, da buoni “confratelli” potrebbero essere stati usati nella piccola chiesa romanica borgomanerese per indicare l'inizio e la fine della festa di Samhain. Il loro nomi celtici allora probabilmente sarebbero stati, più o meno, Cantlos e Samonios.

Si spiegherebbe allora anche la presenza di scene tratte da un libro anti-cristiano, che trasformano il “traditore” in un eroe, instillando il dubbio che, lì dentro, “le cose non stanno proprio come sembra”.

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C'é ancora un indizio. Il Pantocratore nell'abside è accompagnato da due soli. Uno sembra tramontare, l'altro pare al culmine. Sarà un caso che essi si trovano proprio in corrispondenza dello scorpione-aquila e dell'uomo alato, rispettivamente indicanti l'equinozio autunnale e il solstizio invernale?

E sarà suggestione pensare che il momento in cui una declina e l'altra sorge è proprio il trinoxtion Samoni sindiu, la festa delle tre notti di Samonios?

 

 

 


BIBLIOGRAFIA:

 

Aa. Vv., Un borgofranco novarese – atti del convegno 07 maggio 1994, Fondazione Achille Marazza, 1994

Aa. Vv., Borgomanero, vol. 23 di Percorsi. Storia e documenti artistici del novarese, Provincia di Novara, 2003

Laura Chironi e Alberto Temporelli, a cura di Giuliana Creola, Borgomanero Arte e storia, Kiwanis Club Borgomanero, 2014

Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Parigi, 1969

 


 

Lunedì, 30 Marzo 2015 17:22

La fabbrica dei santi immaginari

Anno 776. Un messaggero trafelato sfreccia lungo i ciottolati di Novaria fino alla sede vescovile. Smonta dal cavallo schiumante e corre, strabuzzando gli occhi per lo sforzo, su per le scale. Carica a testa bassa come un toro infuriato tutte le porte che gli ostacolano il cammino, finché raggiunge la stanza del vescovo. Stremato si getta ai suoi piedi, bacia l'anello con le labbra secche e ansimando gli consegna una pergamena che tiene con pugno incerto.

Sicardo veglia sulle anime di quelle terre da diversi anni. Ha faticato tanto per mantenere la sua posizione e il suo status, ha trattato con potenti e sovrani, ha accettato ogni sorta di compromessi. Ma questo no! Mentre legge i suoi occhi si fanno piccoli, le mani tremano. Chiude di scatto la pergamena e la getta di lato con tutta la violenza che ha in corpo. Il messaggero è ancora ai suoi piedi, attende.

Il re dei Franchi, quel Carlo di Aquisgrana, dopo che il fratello e co-reggente era morto, si era messo in testa di diventare imperatore di mezz'Europa. A quanto pare ci stava anche riuscendo. Da una manciata di mesi aveva sottomesso le terre dei Longobardi e si era nominato loro re. Poco male: nobili, possessores ed ecclesiastici erano stati lasciati al loro posto.

Ma l'anno precedente quell'infame traditore senza cervello di un Tassilone, dopo aver lasciato che il nuovo re spodestasse suo suocero Desiderio, aveva cercato di riprendersi il regno appoggiando Rotgaudo e gli altri duchi ribelli. E aveva scoperto troppo tardi di essersi sbagliato di grosso. Il “franco” era un osso duro.

La rivolta era stata definitivamente sedata, questo si sapeva. Ma l'infausta missiva che Sicardo aveva scagliato in un angolo conteneva la peggiore delle notizie. Il nuovo re stava sostituendo con vassalli propri, scelti nelle élites d'oltralpe, franche, bavare, alemanne, burgunde, tutti i precedenti dignitari longobardi rivoltosi. Adesso giungeva voce che aveva cominciato a rimuovere anche quelli delle terre adiacenti e c'era chi giurava che avrebbe proceduto così in tutto il regno longobardo.

Presto sarebbe toccato anche a Novara. Maledizione! Che Iddio lo perdoni per quell'imprecazione, ma non c'è tempo da perdere!

Solo chi aveva dimostrato fedeltà al nuovo re e dimostrato l'utilità strategica di essere lasciato al proprio posto, era stato risparmiato. Secondo l'informatore di Sicardo, gli ecclesiastici che avevano conservato il loro status erano quelli che avevano potuto contare sull'appartenenza ad una lunga tradizione facente capo ad un qualche antico “santo” portatore della Religione.

Ecco! Il vescovo fa chiamare con urgenza lo scrivano e finalmente congeda il povero messaggero.

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Dev'essere andata più o meno così, in quel periodo incerto per la conoscenza, durante il quale nacque ufficialmente il culto di molti “santi” cristianizzatori. I vescovi e i vassalli locali terrorizzati dall'ondata “riformatrice” di Carlo Magno che intendeva sostituirli con suoi fedeli rappresentanti, si salvarono ritrovando le origini quasi mitiche del loro potere, a suon di “vite” confezionate su misura e santificazioni forzate.

Com'era giunta infatti la Religione nelle valli più remote? Come si era diffusa fin nel Novarese, tra i laghi e in Ossola? Dopo la promulgazione dell'Editto di Milano del 313 il Cristianesimo era diventato religione “di stato”. Il processo per la verità richiese molto tempo, ma fu il santo imperatore “vescovo dei vescovi” a gettarne le basi.

Senza dubbio tra i motivi che avevano immediatamente destato l'interesse di nobili e potenti per la nuova Religione, c'erano le disposizioni che lo stesso Costantino aveva stabilito e in particolare quella per cui i chierici cattolici dovevano essere esonerati da tutti i munera civilia (oneri fiscali, tasse, servizio militare, obblighi statali, ecc...). La loro esistenza, infatti, doveva essere necessariamente dedicata a officiare il culto a Dio, affinché potesse procurare tutti i possibili benefici divini alle genti.

 

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Accattivarsi Costantino e accedere ai benefici fiscali connessi all'adesione al Cristianesimo, fu dunque una buona motivazione che subito avvicinò i possessores di tutto l'impero e soprattutto di quelle zone che non erano sotto il controllo diretto di uno dei pochi vescovi fino ad allora esistenti. I nobili possessori dei terreni non esitarono, per motivi “politici” a radunare intorno a sé le prime comunità di nuovi credenti, affidandole poi a predicatori appositamente reclutati.

I primi edifici di culto altro non furono che le cappelle fatte costruire dai “possessores” accanto delle loro abitazioni. Accade proprio così nel Novarese e in Ossola. A Sizzano (Sitianum o anche Siccianum, forse da Sitius, nome del probabile possessor del luogo) gli scavi archeologici hanno portato alla luce un'antica villa o domus romana del I secolo d.C. Annesso alla struttura principale è stato rinvenuto un oratorio di 12 metri per 12 metri, risalente proprio al IV secolo.

 

BattMontorf

 

Ma Costantino, non si era fermato al riconoscimento di certi benefici. Li aveva vincolati: solo i chierici che amministravano correttamente i riti e diffondevano i culti della nuova Religione potevano vederli riconosciuti. Per gli altri, per gli immeritevoli immeritevoli, aveva invece coniato uno specifico termine giuridico apposito:haereticus”, attraverso il quale riconoscerne la mancanza di virtù e addirittura spodestarli al bisogno come era accaduto per la faccenda dei “donatisti” irretiti dal vescovo di Numidia.

Perciò fu premura di ogni possessor assegnare la propria cappella nel pagus a un preposto, itinerante, con l'incarico non solo di celebrare e battezzare ma anche di recarsi nei villaggi a predicare e diffondere la “lieta novella”. Il legame tra ogni nuovo battezzato e il suo battezzatore fu, all'inizio, l'elemento su cui si strutturarono le chiese proto-pievane. Non contava dove si chiedeva il battesimo, ma a chi lo si chiedeva.

I primi predicatori venivano “assunti” da lontano, forse convincendoli ad abbandonare gruppi cristiani già precostituiti in cui al preposto già si affiancava una sorta di “collegio” simile a quelli sacerdotali romani. Il “possessor” di Novaria, fondata la cappella presso la sua grande casa l'aveva affidata a un certo Lorenzo. Ma affinché la Religione si diffondesse e i privilegi si consolidassero, serviva un predicatore vero. Così, consigliato forse dal vescovo di VercelliEusebio per tramite del milanese Ambrogio, aveva convinto a scendere nelle sue terre un celta di nome Gaudenzio, che si prodigava da tempo a far accettare il Vangelo ai popolani delle campagne di Eporedia.

SanGaude

 

Intanto, in quegli stessi tempi, tra il IV e il VI secolo, il senatore romano Audenzio, possessor delle terre intorno al Lago di Orta destinato alla santificazione, aveva assoldato, con identici fini, un predicatore errante fatto venire da oriente e precisamente da un isola del Golfo Sarnico, tra l'Attica e l'Argolide. Nato su un'isola, sarebbe stato sepolto, su un'altra, quella del lago, alimentando innumerevoli speculazioni su di sé e sui suoi seguaci.

 

scriptusGaudi

 

Due colpi secchi alla porta. Un grugnito di assenso. Lo scrivano entra in tutta fretta, gli occhi ben a terra e si prostra davanti al vescovo assorto nei suoi pensieri. Ha portato con sé un rotolo sgualcito, come Sicardo gli aveva chiesto di fare. Ad un cenno, con voce tremula, comincia a leggere.

 

... beati Gaudentii novariensis civitatis, quae gaudet eum plebs universa patronum. His gestis beati viri ut si indignis quibuscumque explicata sunt dictis, nunc tempore congruo terminus dare disponimus, ori manum imponimus, introrsus ad coscientiam redire festinamus.Et quidem indigni famuli dum imitari non possumus, patroum nobis fieri precibus postulemus, ut eius meritis adiuvemur...

 

Non basta. I pochi versi redatti tempo prima dal suo predecessore Leone sono quasi inutili. I ministri dell'imperatore non accetterebbero mai di mantenerlo vescovo solo per quelle poche parole. Ci vuole ben altro.

Lo scrivano attende a membra contratte, temendo l'ennesimo violento scatto d'ira del presbitero. La rabbia che cova dentro non si fa - come sempre - aspettare, concentrandosi tutta nel terribile pugno che Sicardo abbatte sul tavolo. Il colpo è talmente forte che la brocca colma d'acqua prende a tentennare pericolosamente, fino a rovesciarsi, spargendo ovunque il liquido che contiene.

E mentre le gocce stillano sui piedi del malcapitato scrivano, il vescovo ha un'improvvisa illuminazione.

La mancanza di notizie sul primo vescovo di Novaria può giocare a suo favore. Quel che manca verrà fabbricato! E poiché non è mai esistito prima, nessuno potrà mai dire che è falso. Ma, affinché sia più vero del vero, dovrà essere ispirato alle leggende di altri vescovi ben più illustri. Anzi, sarà vescovo pure Gaudenzio, il primo di tutti. Meglio ancora, sarà santo!

Al tramonto lo scrivano è di nuovo ai suoi piedi. Sul tavolo, ripulito dal piccolo disastro ha appena srotolato le pergamene che contengono le “legendae” di San Martino, Sant'Eusebio Sant'Ambrogio e Sant'Agabio, Gli acta di San Dionigi e il Passio di San Lorenzo, da cui trarre tutti i necessari spunti.

E mentre il sole si fa rosso come il sangue prodigioso dei santi, Sicardo comincia a dettare.

 

 

 

NOTA: Se si esclude un accenno al vescovo Leone, che ne retrodaterebbe la stesura (almeno in parte) al principio del VIII secolo, la vita di San Gaudenzio viene per lo più ascritta la periodo in cui era vescovo di Novara Sicardo. Nulla si sa di questo ecclesiastico. È invece certo che il suo successore Tito Levita abbia ordinato la trascrizione della raccolta di canoni conciliari della diocesi di Novara meglio nota con il titolo di Collectio Novariensis. A quell'epoca di riscoperta della storia di Novara risale l'invenzione dei santi novaresi che, più o meno, furono fabbricati così.

 PREDICATORE

 


BIBLIOGRAFIA

Battista Beccaria, Le Culture Preromane e Romane del Territorio Novarese, in Novarien 22, 1992

Giambattista Beccaria, Sulle origini cristiane novaresi. In margine a quattro conferenze del gruppo di studio sulle culture preromane, romane e barbariche del Novarese, Novarien 25, 1995

Giambattista Beccaria, Sulle Origini cristiane novaresi. Nuove acquisizioni. In margine alle conferenze del Gruppo di studio sulle Culture preromane, romane e barbariche del Novarese negli anni 1996 e 1997, in Novarien 27, 1997

Giambattista Beccaria, Note in margine al convegno e agli atti su Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini, Novarien 28, 1998

Gianni Colombo, San Gaudenzio - Edizione critica della “Vita Sancti Gaudentii”, Novara, 1983

 


 

Domenica, 22 Marzo 2015 15:37

La voce della terra (parte 3)

... segue dalla seconda parte...

Fino alla metà del 1300 San Gaudenzio in Baceno non era che un semplice oratorio correttamente rivolto ad Est, su un promontorio roccioso all'incrocio tra la Valle Antigorio e il vallone del Devero.

Nel corso degli anni, con il crescere del numero dei battezzati nella zona e nel paese, i suoi spazi erano diventati insufficienti e a poco era servito edificare un ingresso coperto (l'attuale Cappella del Rosario opera del chierico Signebaldo de Baceno figlio di Giacomo). Nel 1486, si era perciò deciso di cambiarne l'orientamento in senso nord-sud per aggiungervi un nuovo e ampio corpo a tre navate, nell'occasione del matrimonio di Bernardino de Baceno, valvassore imperiale di Antigorio e Formazza, con la nobildonna Ludovica, figlia di Antonio Trivulzio, rappresentante del duca di Milano in Ossola.

 

Sibille3 1

 

Terminati i lavori nel 1524, era stato assegnato alla bottega del noto pittore novarese Tommaso Cagnola, il compito di affrescarne gli interni. Grazie alla sua opera era così comparsa negli intradossi degli archi laterali del presbiterio un'intera teoria di 16 sibille goticheggianti, divise in due gruppi, cui si aggiungevano i profeti biblici all'interno dell'arco centrale.

Una ventina di anni dopo, mentre Antonio Zaretti de Bugnate proseguiva l'opera del Cagnola, le navate laterali erano state parzialmente smantellate e ricostruite di maggior ampiezza con l'inserimento di due doppie file di archi per sostenere il peso. Questa volta il compito di decorare le nuove navate era stato assegnato all'ossolano Giacomo de Cardone, impegnato a dipingere anche gli interni della chiesa dei SS Pietro e Paolo di Crevoladossola, dove Fermo Stella da Caravaggio, di cui forse era allievo, aveva appena dipinto 8 sibille di gusto vagamente fiammingo all'interno dell'arco di accesso al presbiterio.

 

Sibille3 2

 

In tal modo era nata a Baceno una nuova teoria di 12 sibille negli intradossi del secondo, terzo e quarto arco laterale della navata occidentale, che andavano ad aggiungersi alle altre 16 già esistenti. Per quantità corrispondevano all'elenco canonico proposto da Filippo Barbieri (anche i vaticini riportati nella fasce di tutte le sibille in San Gaudenzio provengono dal Discordantiae). A ben guardare, però, la successione non è quella offerta dall'inquisitore domenicano.

 Sibille3 3

 

Non è certo che l'autore della nuova dozzina di pizie sia De Cardone ma, in questa apparente accettabilità di elementi dietro cui si nasconde un codice iconografico indecifrabile, sembra di ravvisare la volontà di una mente libera, tipicamente cinquecentesca, la cui ricerca interiore di conoscenza è divergente rispetto alla spiritualità imposta, proprio come quella del pittore di Montecrestese. Il ciclo che realizzò di sua mano nella sua dimora rappresenterebbe in modo allegorico proprio la sua inclinazione verso una gnosi di tipo alchemico e non a caso, fu poi coinvolto in un processo per eresia di cui fu unico imputato - poi scagionato - nel 1561 per presunta adesione al luteranesimo.

Neppure l'altra serie più antica sembra seguire un ordine conosciuto, anzi, compare perfino una sibilla “Asia”. Parrebbe che il Cagnola, o chi gli ha commissionato il lavoro, abbia voluto suddividere le sibille in due gruppi, orientali e occidentali, secondo il carattere di ciascuna, come fossero la rappresentazione delle due parti, dei due emisferi e delle due “epoche” del “nuovo” mondo trascendente di cui la chiesa antigoriana si apprestava a diventare testimone e baluardo.

 

Sibille3 4

 

Leggendo da occidente a oriente, in direzione del “nuovo”, del sole che nasce, cui corrispondeva l'asse dell'oratorio antico (dall'ingresso verso l'altare), gli affreschi sulle pareti di fondo della parrocchiale di Baceno, infatti, non si può non intuire un filo conduttore preciso e voluto, un “cammino” che, prendendo le mosse dalla spiritualità arcaica, quella della Madre fonte di ogni sostentamento e beneficio che viene “messa a riposo” (cappella della Vergine del Rosario, con una Mater galattofora e una “Dormitio Virginis”), rigenera ogni cosa con il Peccato Originale e la sua redenzione (Crocefissione) e attraversando le ere, sotto lo sguardo vigile delle pizie, diventa la nuova chiesa (cappella di S.Pietro).

Non è una soluzione del tutto nuova. Già Michelangelo aveva disposto sibille e profeti insieme alle scene bibliche della creazione nella volta della Cappella Sistina. Contemporaneamente aveva realizzato un impianto simile Arnault de Moles nella cattedrale francese di Auch, nel Gers.

Auch

 

Grazie a questa scelta e all'inserimento di un riferimento esplicito alla chiesa “nuova”, l'ideologia controriformista trova piena espressione in una valle pregna di tradizioni ancestrali, al confine con le terre svizzere pullulanti di eretici e miscredenti.

“Motore” invisibile di tutto il cambiamento sono così le sibille nei due archi e i profeti, attraverso cui il cambiamento si compie. Per lo stesso scopo il successivo ampliamento, affinché ogni cosa tornasse al suo posto, avrebbe richiesto l'inserimento di altre 12 sibille disposte, come la nuova parrocchiale, da Nord verso Sud.

Le sequenze di sibille a Baceno sono infatti successioni ordinate di fasi cicliche attentamente polarizzate e diversamente attive, come il sole durante il suo percorso nel cielo, flussi filtranti e selettivi che vivificano il luogo. La loro presenza inoltre è sempre un richiamo all'autorità divina, quella classica alla quale si rivolgeva l'uomo nell'antichità, ricevendone responsi e soprattutto quella di Dio Padre che aveva preannunciato la venuta del Figlio anche attraverso le loro parole. Infine, appartenendo ogni sibilla a un contesto geografico più o meno preciso, radunarle a Baceno e a Crevoladossola inseriva simbolicamente i due luoghi fra le “terre benedette”, quelle in cui gli dei avevano fatto sentire la loro voce, quasi fossero anche le due località ossolane “sedi” di sibille.

SchemaSibilleBaceno

In questa mappa simbolica in effetti c'é un particolare, una sorta di codice, un finto errore lasciato per trasmettere un messaggio. Sia la prima che la seconda sequenza sibillina ripetono una delle figure vaticinanti. Le due successioni sono quindi rispettivamente di 15 e 11 libisse. In quella più estesa ad essere citata due volte è l'Ellespontina, nell'altra la Cumana. Pur nella libertà di ordine con cui le sibille venivano rappresentate nel Medioevo e nel Rinascimento, c'é almeno un caso in cui le due pizie vengono rappresentate insieme. Compaiono affiancate in uno dei pennacchi di campata della chiesa conventuale di Santa Maria di Canepanova a Pavia (1500-1507). Curiosamente, l'architetto responsabile della costruzione dell'edificio era proprio lo stesso Giovanni Antonio Amedeo firmatario dei contratti tra le fabbriche ecclesiastiche milanesi e le cave di Ornavasso, Candoglia e Crevola. E ancora venivano dall'Ossola i mastri scultori rimasti per tre generazioni, tra il XV e il XVI secolo, sia a Milano che a Pavia, tutti con cognome “degli Arrigoni”, il cui capostipite era quell'Antonio da Domodossola che tanto aveva lavorato sia per i nobili di Baceno che per i Della Silva, guadagnandosi il nome di “Maestro di Crevola” con i suoi lavori proprio alla Parrocchiale di San Pietro e Paolo.

 

Sibille3 6

 

La dinastia di scultori e il grande architetto ducale furono senza dubbio tra gli artefici del diffondersi nelle valli ossolane degli influssi artistici rinascimentali lombardi. Ma la ripetizione delle due sibille, troppo evidente per essere una svista o uno sbaglio, è un modo antico e nuovo per sottolineare il maggior valore di un elemento sugli altri, attraverso l'iperbole. Quelle ripetute sono “due volte” sibille, appartengono a due – o anche a molti - livelli di significato diversi.

 Elispontica

La duplice pizia della prima serie, l'Ellespontina o Elispontica, annuncia con il suo vaticinio mercuriale la futura nascita del Figlio di Dio. Voce delle voci, voce per eccellenza, è la voce stessa di tutte le sibille. Nelle iconografie classiche rinascimentali il fazzoletto le si incrocia proprio in corrispondenza della gola, come ad abbracciarla. A Baceno poco oltre l'arco in cui è dipinta, procedendo verso est c'é la cappella di San Pietro, la “nuova” Chiesa nata con la venuta del Cristo. Non è difficile quindi identificare la sibilla con la stessa parrocchiale, la chiesa-baluardo della cristianità tridentina.

In questo intrico di simbologie, però, non si esprime solo il ruolo che il clero controriformato ha assegnato a Baceno, ma anche il carattere profondo e antico del luogo, che trascende i loro scopi di potere.

 Sibille3 5

 

Secondo la tradizione, infatti, la chiesa, già prima di diventare la sontuosa parrocchiale oggi visibile, nonostante la dedicazione al primo vescovo novarese, Gaudenzio, era conosciuta e visitata sopratutto per l'antica Vergine Lattante ivi affrescata. Comunemente si ritiene che si tratti delle Virgo Lactans di gusto gotico affrescata in un angolo dell'antico ingresso dell'oratorio, oggi Cappella del Rosario.

Ma tale cappella doveva presumibilmente già esistere prima del 1326, anno di costruzione del portico e del 1372, anno in cui l'atrio fu destinato a cappella del Rosario. Un documento datato 7 aprile 1326 che istituisce la Cappellania della Madonna mostra che, quando la chiesa primitiva era stata distrutta per erigerne una di più ampie dimensioni (non ancora quella a tre navate, cinquecentesca), doveva già esistere una “Cappella della Madonna” in altra posizione rispetto alla successiva del Rosario. Forse si trovava sul lato opposto. Ma non è escluso che potesse essere la stessa chiesa primitiva. San Gaudenzio nel 1039 viene infatti donata da Gualberto ai Canonici di Santa Maria di Novara.

A tale prodigiosa e antichissima immagine “mariana” si rivolgeva la gente della valli, che giungeva fino in paese per adorarla, chiedere conforto o aiuto e portare doni in ringraziamento. Quella madre dal viso misterioso era insomma il nume tutelare cui rivolgersi tanto per tutti i problemi individuali e sociali quotidiani. La facciata interna alla cappella dell'arco opposto alla Vergine è in tal senso un vero e proprio catalogo di richieste: mani, braccia, gambe, occhi e parti anatomiche in segno di grazia ricevuta per traumi, ma anche oggetti di uso quotidiano, strumenti, animali per il lavoro nei campi e per il sostentamento, bastoni e stampelle.

 

Sibille3 7

 

Tra gli altri oggetti affrescati, che forse all'inizio venivano portati e lasciati fisicamente ai piedi della Madonna Lattante, c'é poi una tipologia particolare di doni, che sembrano asciugamani o mantelle. Più precisamente sono sciarpe o ampi fazzoletti bianchi da indossare sulla testa e annodare al collo, proprio come quelli che velano le immagini delle profetesse e in particolare dell'Ellespontina.

Èevidente che laMater era riconosciuta come sibilla, depositaria della conoscenza, consigliera dell'uomo in tutti gli aspetti della sua vita, da quelli sociali e territoriali a quelli agricoli e dispensatrice di cure e benedizioni agli infermi.

Identico ruolo dovevano ricoprire le tanto temute donne di Baceno e Croveo, forse le ultime “sacerdotesse” di riti perduti, che furono riconosciute streghe e processate dagli inquisitori. Come si evince dagli interrogatori conoscevano l'utilizzo delle erbe medicinali, praticavano forme rituali arcaiche ed erano dotate di grandi capacità.

Soprattutto, grande era il potere delle loro parole, ne bastava una per maledire a vita e portare a morte certa. Unte con un olio portentoso e gridando, nel buio della notte le streghe raggiungevano il luogo del sabba per danzare orgiasticamente insieme al loro dio fino all'alba. Lo stesso appellativo “strega” deriverebbe appunto da “strix”, civetta, l'uccello sacro alla Dea (il suo nome scientifico non a caso è Athena Noctua), il simbolo di onniveggenza, saggezza e vita, con riferimento al suo elaborato richiamo notturno portatore di presagi.

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Forse alla capacità di udire la voce sibillina e alla necessità di orecchie fini per riuscire a sentirne il canto si riferisce un particolare e antico glifo inserito nella base del campanile della parrocchiale di Crevoladossola, unico altro luogo della valle in cui sono effigiate sibille: un omino a braccia spalancate in un gesto di accoglienza, con enormi padiglioni auricolari ben aperti.

Non si può a questo proposito non ricordare la storia dell'Asino d'oro di Apuleio, in cui già compaiono alcuni elementi di quella che poi sarà l'identica e assai più tarda tradizione stregonica medievale. Protagonista è Lucio, giovane di Patrasso appassionato di magia che si reca in Tessaglia per affari. Qui in casa del ricco Milone, affascinato dai prodigi della moglie-maga del suo ospite, Pànfila, capace perfino di tramutarsi in uccello, cerca di imitarla, ma sbaglia unguento e si trasforma suo malgrado in un asino.

Come tutte le maghe, anche è una sacerdotessa di quella dea dai mille nomi e dalla voce terribile cui nella stessa opera Lucio scioglierà una accorata preghiera: “...la notte con le tue urla spaventose e col tuo triforme aspetto freni l'impeto degli spettri e sbarri le porte del mondo sotterraneo, errando qua e là per le selve, accogli propizia le varie cerimonie di culto... con qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualunque aspetto è lecito invocarti:concedimi il tuo aiuto
nell'ora delle estreme tribolazioni, rinsalda la mia afflitta fortuna, e dopo tante disgrazie che ho sofferto dammi pace e riposo
”.

 

asino02

 

La sibilla e le sue sacerdotesse, come le streghe, avevano potere di vita e di morte. Secondo un altro latino, Lucano, che riporta l'episodio nei Pharsalia, Sesto, figlio di Pompeo, dopo lo scontro tra pompeiani e cesariani a Durazzo, fugge in Tessaglia e va a consultare la potente maga Erìttone La pizia si serve del cadavere di un soldato che, rianimato, profetizza la morte di Cesare, la sconfitta di Pompeo e la rovina di Roma.

Alla Dea celebrata da Apuleio e da Lucano si riferisce ancora più prepotentemente l'altra sibilla ripetuta di Baceno, quella Cumana, presente due volte nella seconda serie di sibille. È la Deìfobe virgiliana, figlia di Glauco (protettore di Cuma) e forse di Scilla, la profetessa del sole Apollo che aveva mostrato il futuro ad Enea. La donna col vaso che compare di fianco al mostro inabissatosi nel Canale di Sicilia su alcune monete corinzie, Leucotea-Pirene, potrebbe essere proprio lei, “leuco-tea”, letteralmente la Dea Bianca, la Mater Matuta dei latini, la Madre-delle-madri, l'antica.

 SibillacumanaBac

 

Attributo classico della sibilla Cumana è la tazza d'oro, poi diventata mangiatoia e in qualche caso culla. Il suo vaticinio cristianizzato è quello della Morte e Resurrezione di Cristo, quale prefigurazione della fine del Mondo. Annuncia il cambiamento, la trasformazione, la stessa espressa dal “graal” della tazza con cui viene di solito raffigurata.

E' la dea bianca e nera, “la genitrice dell'universo, la sovrana di tutti gli elementi, l'origine prima dei secoli, la totalità dei poteri divini, la regina degli spiriti, la prima dei celesti; l'immagine unica di tutte le divinità maschili e femminili:sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi degli inferi. […] Perciò i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano madre degli dei, adorata in Pessinunte”.

Proprio una sibilla aveva fatto in modo, attraverso i Libri Sibillini, che nel 204 i Romani prelevassero la statua “aniconica” (una pietra) di Cibele nel suo sacrario a Pessinunte per portarla a Roma e collocarla nel nuovo tempio a lei dedicato sul colle Palatino. Nero era il simulacro della dea e “sibilla”, secondo una interpretazione basata su una riminiscenza illirica, significherebbe “vergine nera”. Proprio una Madonna Nera è quella del Santuario di Montevergine, nell'avellinese, sorto, pare, proprio su un antico tempio dedicato a Cibele.

 CibeleFrigia

Ma se ancora ci fossero dubbi sulle sembianze dell'unica sibilla platonica, di cui le altre non sono che specificazioni, è bene ricordare che almeno una volta essa le mostrò chiaramente. L'episodio è registrato già da Niceforo e prima ancora nella Storia di Tessaglia del greco Suida ed è stato poi ripreso nel Mirabilia (1140-43) e nel Graphia le prime ”guide turistiche” medievali di Roma.

Una colonna forata, forse a scopo astronomico, con l'epigrafe “A CUBICVLO AUGUSTORUM”, ancora esistente nell'attuale chiesa che vi sorse sopra, ricorda il luogo esatto.

Correva più o meno l'anno I a.C. L'imperatore Ottaviano Augusto, chiuso nella sua stanza nel palazzo sul Capitolio, stava consultando, come spesso faceva, la sibilla. I libri dei vaticini erano custoditi li accanto nel nuovo tempio dedicato a Giunone Moneta (ammonitrice), a quella dea detta anche Lucina, portatrice del latte, poiché da alcune gocce stillate dal su seno si sarebbe formata la Via Lattea. Chissà, forse ad Augusto venne un dubbio, forse gli passò per la mente che, in realtà le sibille non esistessero davvero.

D'improvviso, come se l'avesse chiamata, la sibilla rispose. Pare gli abbia detto: “Questa è l'ara del figlio di dio”, come a indicare che in quel luogo andava costruito un nuovo tempio.

Poi, gli occhi di Augusto, per un istante la videro.

Videro una donna, seduta.

In grembo, sulle ginocchia, teneva seduto un bambino.

 

 Antoine Caron

 Antoine Caron: Apparizione della sibilla ad Augusto

 

 


BIBLIOGRAFIA

Giuliana Poli, L'Antro della Sibilla e le sue sette sorelle, Edizioni Controcorrente, Napoli, 2008

R. Zanzarri (a cura di), Marsilio Ficino: Religione Cristiana, Città Nuova, 2005

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G. L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Einaudi, Torino, 1995

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Joyce Lussu, Il Libro delle Streghe, Transeuropa 1990 (ripubblicato con il titolo Il libro delle streghe. Dodici storie di donne straordinarie, maghe, streghe e sibille, a cura di Chiara Cretella, Gwynplaine, 2011).

Joyce Lussu, Il Libro Perogno. Su donne, streghe e sibille, Il Lavoro Editoriale, 1982

Mariangela Monaca (a cura di), Oracoli Sibillini, Città Nuova, 2008

Alonso de Villagas Selvago e Giulio Cesare Valentino, Nuovo leggendario della vita di Maria Vergine Immacolata madre di Dio, per Giovanni Antonio Remondini, 1732

Cesare Ripa, Iconologia del cavaliere Cesare Ripa perugino notabilmente accresciuta d'immagini, di annotazioni, e di fatti dall'abate Cesare Orlandi patrizio di Città della Pieve accademico augusto, Costantini, 1767

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