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Teodora e i tre decani: il segreto celeste di Ravenna?
Il simbolo per eccellenza di Ravenna, che fu per tre volte capitale, è senz’altro l’Adorazione dei Magi, che compare in città almeno quattro volte: a Sant’Apollinare Nuovo la più celebre; a San Vitale sul sarcofago di Isacio (620-637 d. C.) e tra le vesti dell’imperatrice Teodora, nel mosaico a lei dedicato; a San Giovanni Battista su una capsella (reliquiario di marmo) dedicata ai Santi Quirico e Giulitta, della prima metà del V secolo (oggi è esposta al Museo Arcivescovile).
L’importanza di queste raffigurazioni per la cittadina ravennate è indubbia, ma non è fin in fondo chiaro perché essa fu scelta. Genericamente la si attribuisce alle simpatie monofisite dell’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, sulla cui tunica i tre sacerdoti iranici compaiono e all’offerta dei “doni imperiali” compiuta all’indomani dell’elevazione di Ravenna a capitale dell’Impero Bizantino in occidente.
Inoltre non è facile stabilire quale delle immagini conservatesi possa essere eventualmente l’originale a cui le altre, sicuramente, si ispirano, essendo tutte precisamente modellate su uno stesso canone già ben consolidato.
Il mistero insomma rimane.
Forse una soluzione esiste, ma richiede di inoltrarsi in ambiti delicati e non sempre apprezzati dalla storiografia ufficiale. La vera natura dei Magi è il fulcro dal quale procedere. La tradizione è nota, i suoi risvolti e le sue inesattezze meno, a partire dalla “stella” che i tre avrebbero seguito. Essa infatti non compare nei testi più antichi che raccontano dei sapienti venuti da oriente a venerare il Bambinello. Il primo fra essi, il Vangelo di Marco, mette in bocca ad uno dei magi l’aver avvistato un certo “aester” in oriente in seguito al quale sarebbero partiti alla volta di Gerusalemme.
Gli apocrifi Protovangelo di Giacomo e il Vangelo Pseudo Matteo che da esso deriva, attribuiscono più precisamente alla venuta dei Magi il loro aver “consultato le stelle”. Sarà Origene, più tardi a consolidare definitivamente la tradizione della stella identificandola con una cometa.
Sembra che l’origine di questi Magi fosse iranica e che fossero esperti astrologi, ma notizie sulla loro reale esistenza non ce ne sono. Per uno di loro, Gaspare, è stata proposta, non senza qualche difficoltà, l’identificazione con il re indo-partico Gondophares il cui regno fiorì fra il 20 e il 46 d. C.
Nella tradizione copta etiope invece si ricorda Baldassarre, il re magio dalla pelle scura, identificandolo con l’imperatore Bazén, venerato come un santo presso il monastero di Debre Damo ad Axum.
Non c’è alcuna certezza neppure sul numero dei magi che visitarono il bambinello. Nei testi più antichi non vengono enumerati. La tradizione orientale indicava 12 magi, numero di natura astronomica e astrologica. Soltanto con quelli più tardi, la Caverna dei Tesori e la Storia della Vergine Maria, la loro quantità viene fissata a tre:
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Baldassarre “Dio protegge la verità” portatore dell’incenso, abissino o di Nippur, 4°v
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Gaspare “ispettore del tesoro”, portatore della mirra, persiano o di Meroa, 1°v
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Melchiorre, “re della luce”, portatore dell’oro, ebraico o di Pa??, 7°v
E ancora, i tre adoratori sbalzati su una placca argentea del VIII sec. a. C. rinvenuta in Luristan, sacerdoti in adorazione del dio zoroastriano Zervan (Zurvan), il Tempo, sono stati riconosciuti come il possibile originale su cui furono modellati i Magi evangelici. Già Erodoto, del resto, riportava come il titolo di “magoi” fosse riservato proprio ai sacerdoti di Zarathustra.
Non possono certo sfuggire i continui riferimenti al cielo e alle simbologie zodiacali che emergono dal groviglio di tradizioni e leggende fiorite da sempre sulle figure di questi Re Magi. Che la chiave del mistero fosse nella stella, o meglio nelle stelle, forse l’aveva capito già Keplero, che nel XVII secolo aveva individuato un particolare fenomeno avvenuto nel 7 a. C. in grado di spiegare la cometa dei vangeli.
In quell’anno si era verificata una rara, se non rarissima, tripla congiunzione planetaria: ben tre pianeti, Marte, Giove e Saturno, si erano trovati ad una distanza angolare nel cielo così ridotta (meno di 5° di arco) da diventare indistinguibili e sembrare, insieme, un’unica, luminosissima stella nel cielo, formata da due pianeti quasi sovrapposti e uno nelle vicinanze, per tre volte nello stesso anno. I tre momenti furono il 29 maggio, il 01 ottobre e il 05 dicembre. Tutti e tre si svolsero in corrispondenza della costellazione zodiacale dei Pesci, al limite con quella dell’Ariete, quindi approssimativamente a oriente, proprio da dove si dice provenissero i Magi.
Le rappresentazioni, assai diffuse, del “Viaggio dei Magi” o della “Adorazione dei Magi” con due dei Magi affiancati o addirittura sovrapposti ed uno leggermente più discosto, potrebbero essere proprio una codifica di tali fenomeni astronomici e astrologici. Ne sono ottimi esempi quelli conservati nella Chiesa di San Biagio a S. Vito dei Normanni, la chiesa rupestre di Santa Cecilia a Monopoli o il bassorilievo del Sarcofago Albani, proveniente dalla Catacomba di S. Sebastiano a Roma, in cui uno dei Magi “osserva” gli altri due che sono in identica posizione.
Questa rara congiunzione, inoltre, era accaduta proprio in concomitanza con l’inizio di una nuova epoca precessionale, quella dei Pesci. Ma, questione ancor più sensazionale, i tre pianeti congiunti erano anche i reggitori e sovrani, i “decani” appunto, delle tre suddivisioni dell’epoca precessionale che si era appena conclusa, quella dell’Ariete.
Così Marte, Giove e Saturno - che erano appunto i tre “re” - nel momento più propizio, provenendo da direzioni diverse si erano “incontrati” proprio sopra Betlemme. La storia astronomica e astrologica corrisponde dunque magnificamente con quella tradizionale, svelando quella che potrebbe essere la vera natura dei Magi, personificazioni dei “decani” planetari.
Seguendo questi indizi astronomici a Ravenna, ci si imbatte in alcune coincidenze interessanti. La sua prima grande chiesa, San Martino in Ciel d’Oro (poi chiamata Sant’Apollinare Nuovo), fu fondata nel 505 sotto Teodorico, che aveva conquistato la città, già capitale del regno degli Eruli, facendone il centro dell’impero Ostrogoto. Non dovrebbe sorprendere che proprio nell’anno in cui fu gettata la prima pietra dell’edificio e precisamente il 23 luglio, si verificò una congiunzione tra Marte e Saturno (in Leone a 11°52 e 11°45 rispettivamente): non è infatti un mistero che nelle sette cristiane di matrice monofisita, come quella ariana, cui l’Imperatore apparteneva, i Magi rivestissero un ruolo molto importante.
Ma quando Giustiniano la riconquista e ne fa la città principale dell’Impero Bizantino in Occidente nel 539, i Magi ne diventano il vero e proprio simbolo, visibile quanto nascosto. La riaffermazione della religione cristiana a Ravenna passa per la costruzione della maestosa chiesa di San Vitale, i cui lavori iniziano tra il 526 e il 530 d. C. Il 9 febbraio del 527 si verifica di nuovo una congiunzione legata ai Magi, quella fra Marte e Giove (in Aquario, a 12°44 e 12°37 rispettivamente).
Mentre fervono i lavori, poi, si da inizio anche all’edificazione di Sant’Apollinare in Classe, la cui prima pietra viene posata fra il 532 e il 536 d. C. circa e di nuovo, proprio in questo periodo si verifica una congiunzione tra due dei tre pianeti “esterni” del Sistema Solare, Giove e Saturno, il 9 maggio del 531 d. C. (in Gemelli, a 21°46 e 21°00 rispettivamente).
Di fronte a coincidenze così particolari, non è difficile ipotizzare che i tre edifici siano stati progettati per essere ciascuno la rappresentazione di uno dei re Magi:
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San Martino in Ciel d’Oro (S. Apollinare nuovo): Saturno (con Marte), Baldassarre, 1° decano
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San Vitale, Marte (con Giove), Gaspare, 3° decano
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Sant’Apollinare in Classe, Giove (con Saturno), Melchiorre, 2° decano
La soluzione finale dell’enigma si trova a San Vitale, presso l’altare maggiore dell’edificio. In alto sulla destra uno statuario Giustiniano occhieggia impassibile verso l’abside. Di fronte, in un mosaico quasi speculare, compare invece Teodora, con le sue ancelle. Sulla sua veste si intravvedono tra le pieghe i tre Re, ritratti con il peso spostato in avanti mentre offrono i loro doni.
Se si osserva bene, si può notare che anche Teodora mima con le braccia la medesima postura porgendo la “cesta” identica a quella dei magi che porta tra le mani.
I tre sapienti, dunque, stanno tra le pieghe della veste dell’imperatrice così come, più in grande, si nascondono, visibilissimi eppure evanescenti “tra le pieghe” di Ravenna. Nonostante l’imperatrice sia indicata con il suo nome scritto in lettere scure, essa si presenta quindi anche come la personificazione della città. Ma le figure mistiche dei tre Magi, sottendono un significato che va ben oltre: Ravenna/Teodora racchiude i magi nella sua veste, come se ne fosse l’unione e si manifesta quindi come la nuova Stella destinata ad accendersi sul mondo. Ravenna bizantina “viene da oriente”, rispetto all’Italia, come i Magi rispetto a Betlemme.
Annuncia un nuovo “avvento”: ciò che, nelle intenzioni, doveva nascere era un nuovo Impero Romano, di matrice bizantina, il cui inizio corrisponde alla riconquista nel 533 di Ravenna, che diventa sede di governo in Italia.
Rimarrà un sogno. La guerra di Giustiniano contro i Goti durerà fino al 553, ma appena dopo l’Imperatore dovrà fronteggiare i Longobardi. La morte sopraggiunta nel 565 gli impedirà definitivamente di realizzare il sogno di un Impero Romano Universale.
Dell’aspirazione di Giustiniano di essere capo anche spirituale di questo Nuovo Impero, riunendo in sé entrambi i poteri, fu certamente “ambasciatrice” Teodora, le cui mire si spingevano ben oltre. Aveva “sposato” le idee monofisite mentre si trovava ad Alessandria, ben prima di conoscere Giustiniano e covava il desiderio di una restaurazione cristiana nel segno di tale dottrina. Arrivò perfino a ordire una congiura nel 537 per deporre il papa Silverio e far eleggere al suo posto il suo protetto Vigilio, diventato come lei monofisita. Il nuovo papa però si sarebbe presto rivelato un traditore e avrebbe innescato la lunga disputa detta Dei Tre Capitoli. L’imperatrice non portò a termine il suo disegno. Morì di malattia nel 548.
Di tutta la vicenda rimane, silenziosa testimone la Ravenna bizantina con i suoi tre luoghi mistici. Tra le mura di uno di essi si nasconde ben in vista l’ultimo indizio. Se si guarda per benino fra i piedi dei maestosi Magi di Sant’Apollinare Nuovo dai berretti rubicondi, si noterà – più di uno se ne è accorto – che spuntano alcune piantine in fiore. Sono due piante di Stramonio (Stramonium Datura), una di Giusquiamo nero (Hyoscyamus Niger, meglio conosciuto nell’antichità come Apollinarix) e una di Ladano (Ledum Palustre, Rosmarino selvatico). Sono tutte erbe psicoattive, inebrianti, capaci di provocare visioni. Figurano tra gli ingredienti fondamentali delle “pozioni” che si bevevano durante le celebrazioni dei Misteri eleusini, orfici, bacchici, dionisiaci, ma anche del leggendario “unguento delle streghe”. E sono tradizionalmente legate, rispettivamente, proprio a Saturno, Giove e Marte.
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BIBLIOGRAFIA
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Nostra Signora Delle Vite
Notre Dame De Vie a Mougins, tra le alture alle spalle di Cannes, è uno di quei casi per cui non c'é traccia certa di quali e quanti prodigi del répit si siano verificati. Eppure, la dedicazione del santuario è una conseguenza nota di quel particolare rito che qui si svolgeva. Si sa infatti con precisione che, in precedenza, la cappella nota dal 1514 come “Santa Maria” aveva il nome di “Notre Dame de Ville Vielle” (Nostra Signora del vecchio paese) e che esso fu poi modificato in seguito ai fatti prodigiosi della “doppia morte”.
La “moderna” dedicazione “Notre Dame de Vie” (Nostra Signora di Vita), del resto, ben si addice al luogo e al suo ente: “protegge” e custodisce la vita, al punto da salvaguardarla, nei casi estremi del “rito della piuma”, perfino dalla morte. Nella lingua francese, però, “de vie” ha doppia traduzione: “della vita” oppure “delle vite”. È un'ambiguità che non può passare inosservata. Si potrebbe giustificare con l'idea che il “ritorno in vita effimero” dei bambini nati-morti fosse una sorta di “seconda vita”, anche se solo per il tempo di un singolo respiro. Ma la particolare condizione di questi infanti era quella del “nato (già) morto”, morto prima di nascere e quindi “mai nato”, per cui il répit era, di fatto, l'unica occasione di vita. Il termine che designa il “prodigio”, inoltre, è letteralmente traducibile come “sospensione”, con evidente riferimento non alla condizione stessa bensì alla morte. La “doppia morte” (non si parla mai di “doppia nascita”!) era dunque intesa come un temporaneo differimento, una “tregua”, un arresto dello stato di decesso insomma, che veniva poi “ripreso” definitivamente. Per identici motivi il riferimento a molteplici vite non può essere ricondotto neppure a vite diverse intese come quella “terrena” ed effimera provocata dal répit e quella successiva “nello spirito” guadagnata con il conseguente Battesimo.
In considerazione delle origini chiaramente “pagane” e pre-cristiane di questa forma rituale, invece, l'ambigua intitolazione potrebbe essere un rimando ad una concezione ciclica dell'esistenza: “le vite” sarebbero così quella mai iniziata, quelle eventualmente precedenti e quelle future che attendono il bambino. In tal senso, il répit in quanto sospensione, potrebbe non indicare la “soluzione” ma il “problema”. L'arresto sarebbe insomma l'evento che impedisce all'essenza spirituale (“anima”) del bambino di fluire da una vita all'altra. La pratica della doppia morte permetterebbe dunque di risolvere l'infausto ostacolo alla rinascita in una vita futura.
Notre Dame De Vie è certamente un luogo per natura coerente con tale visione, come confermano i ritrovamenti di cippi, lastre tombali gallo-romane e di elementi di reimpiego di un luogo /forse un tempio) precedente, usati per costruire la primitiva cappella (corsi inferiori delle porzioni di muro ritrovate e del campanile) sul colle e sotto la chiesa stessa, a testimonianza della sua lunghissima tradizione spirituale legata alla morte e alla rinascita.
La prima menzione del nuovo nome “popolare” del santuario risale a un documento del 17 Agosto 1656 in cui viene per altro messo in relazione proprio con la pratica dell' “ondoìement”.
Non è noto quanti “infanti” siano stati presentati” al santuario, né quanti di essi abbiano mostrato segni di vita e quindi beneficiato del répit. I lavori di ampliamento della cappella iniziati nel 1655 e che si concludono nello stesso anno e che trasformano la cappella in vera e propria chiesa con un ampio protiro frontale, suggeriscono però un rinnovato interesse per il colle.
Il 05 Maggio del 1669, con l'aggiunta della navata minore settentrionale e del nuovo altare maggiore, monsignor Louis De Bernage si reca nuovamente in visita e annota negli atti alcuni dettagli importanti e che testimoniano la frequentazione assidua del luogo: “...nous sommes acheminés à l'église de Nostre Dame de Ville Vielle vulgairement appellée Nostre Dame de Vie... prés la porte de l'église il y a un couvert, et prés de couvert des tombes où l'on enterre les enfants sans bapteme” (siamo stati condotti alla chiesa di i Nostra Signora dell'Abitato Vecchio, popolarmente detta Nostra Signora delle Vite... vicino alla porta della chiesa c'é una struttura coperta, e accanto alla struttura coperta le tombe dove vengono sepolti i bambini [morti] senza battesimo).
La cappella è dunque diventata “chiesa” e dispone al suo esterno addirittura di una sorta di cimitero per i bambini nati-morti (quelli che non mostravano segni di vita dopo essere stati portati davanti alla Vergine), evidentemente simile a quello di un altro celebre santuario in piena attività all'epoca, quello di Notre Dame de Beauvoir a Moustiers-Sainte-Marie, a un centinaio di chilometri di distanza. La collocazione del cimitero è nota e conosciuta ancora oggi, poiché le sue dimensioni continuarono a crescere fino alla proibizione del rito.
È interessante la menzione, da parte del vescovo di una qualche struttura coperta, diversa dal portico frontale, di cui non specifica l'utilizzo, ma che asserisce si trovasse presso le “tombe degli infanti”. Non è più esistente né si conoscono altre testimonianze, ma la sua collocazione fa pensare che si trattasse di una “recevresse” come quella di Avioth, in Belgio, presso cui venivano, appunto, accolti i cadaveri dei bambini nati-morti in attesa del répit.
Qualcuno asserisce che si trovasse presso la porta di ingresso sulla facciata della chiesa, ma una seconda porta esisteva lungo la parete nord. Le due porte sono già menzionate da monsignor Sdcipion De Villeneuve negli Atti di Visita del 15 Maggio 1634. Pertanto è possibile che la copertura in questione fosse una tettoia bassa all'esterno dell'abside o di fianco ad essa, in modo che gli infanti potessero essere deposti per la preghiera il più vicino possibile alla Vergine, rimanendo tuttavia fuori dalla chiesa.
Non va infatti dimenticato che, dagli albori del Cristianesimo e fino a non molto tempo fa, solo i battezzati erano generalmente ammessi all'interno delle chiese. Questo è uno dei motivi per cui i battisteri erano per lo più edifici separati oppure il fonte battesimale veniva posto di fianco all'ingresso.
Nel caso del répit, tale regola veniva puntualmente aggirata. Tant'è che spesso, negli atti con cui le curie giungevano a vietare la pratica, minacciando addirittura la scomunica, si specificava che era proibito non solo svolgere il rito ma anche di portare i bambini nati morti presso e dentro i santuari dove si credeva che il répit potesse avvenire.
Il 1669 è anche l'anno in cui viene “rivelato” il nome della preziosa reliquia custodita, almeno dal 1688 quando viene per la prima volta menzionata, a Nostra Signora delle Vite. Sono alcuni membri della comunità a fornire l'occasione, quando organizzano la prima “processione” della reliquia dal santuario alla parrocchiale del villaggio, che si trova sul colle accanto.
Così, Nostra Signora di Mougins torna al suo ruolo arcaico di “cappella pellegrina”, alla quale si recavano da secoli in solenne processione penitenziale i Penitenti Bianchi e i Confratelli di San Michele di Grasse, nell'occasione di pestilenze (come nel 1629) e di altri gravi pericoli per la città, circostanza più volte immortalata negli ex-voto. In occasione della traslazione temporanea della reliquia, dunque, ne viene svelata l'identità. Le sante ossa apparterrebbero a una certa “Innocenza”. Si ritiene che possa essere la martire sedicenne riminese uccisa nel 380 d.C. da Diocleziano di passaggio in quella città. Ma è quantomeno curioso che un nome così facilmente riconducibile all'innocenza perduta dei bambini nati-morti, che il répit prometteva di restituire loro, compaia proprio nel momento in cui la frequentazione del santuario, con la speranza di tale grazia, è all'apice.
Di chi possano essere in tal caso i frammenti ossei ancora oggi visibili nel reliquiario è un mistero. Potrebbero forse appartenere al primo nato-morto tornato in vita attraverso il répit a Mougins? Del resto l'unica altra reliquia che il santuario custodisce (dal 1788) è un frammento del braccio di Sant'Onorato di Lérins (Nostra Signora delle Vite era un possedimento della potente abbazia...), i cui resti, traslati a Ganagobie, erano diventati la personificazione del répit con il nome di San Trapasso. Perfino tra i dedicatari degli altari interni del santuario, insieme a Sant'Anna (madre della Vergine), Maria Maddalena e San Giuseppe (aggiunto tardivamente) compare Saint Claude, noto per essere uno dei più venerati intercessori del répit!
Saint Claude e Saint Louis (anch'egli intercessore per la “doppia morte”) sono addirittura ritratti mentre reggono la corona sul capo della Vergine nell'ancora dell'altare maggiore. L'ancona risale al 1669 ed è minuziosamente descritta negli atti di visita vescovili di quell'anno.
E come se non bastasse, è eloquente anche la data scelta per la ricorrenza di Notre Dame De Vie. Come si legge nel Calendrier Historique des Fétes de la Sainte Vierge, redatto dall'abate Orsini, il 27 Gennaio è “celle de Notre-Dame-de-la-Vie à Venasque en Provence qui a soyent rendu la vie aux enfants morts avant le bapteme, afin qu'ils reçussent le sacrement” (quello di Notre-Dame-de-la-Vie a Venasque in Provenza che ha sovente restituito la vita agli infanti morti senza battesimo, affinché questi ricevessero il sacramento). Il 27 Gennaio è il giorno precedente quello dedicato a San Tommaso d'Aquino, che fu forse il primo santo intercessore noto proprio del répit.
Il 1674 segna la separazione definitiva fra rettori della parrocchia di Mougins e quelli del santuario, che si insediano nell'eremo appena costruito sul lato settentrionale della chiesa. La copertura, il cimitero dei bambini e l'altare esterno esistono ancora e sono molto frequentati. Negli anni successivi, infatti, la fiorente casistica di bambini nati-morti tornati brevemente alla vita, attira su Mougins l'attenzione ecclesiastica e le conseguenti reprimende. Nel 1678 il nuovo vescovo di Grasse Louis-Aube de Roquemartine, infatti, fa recapitare l'ordine di distruggere “l'altare fuori dalla cappella”. L'ingiunzione, che non fornisce ulteriori dettagli, conferma però che “qualcosa” si svolgesse all'esterno del santuario, specificando che esisteva addirittura un altare. Forse serviva per le celebrazioni cui accorreva troppa gente per la capacità dell'edificio. Non si può però escludere che, invece, l'altare si trovasse sotto la struttura menzionata dal precedente vescovo, allo scopo di “esporre” i fanciulli in attesa del répit.
Quasi certamente l'ordine viene ignorato e trasgredito. Il rettore, fratello Jacques, eremita del santuario e un certo Estève Martin, carpentiere, di origini genovesi nel 1709 vengono sepolti all'interno della chiesa. Lo stesso onore verrà concesso a partire dal 1714 infatti a tre bambini dell'età di 7, 8, e 3 anni, tutti rampolli della famiglia Flour, una delle più in vista del paese e tra i “benefattori” del santuario”.
Negli stessi anni, intanto, prodigi del répit cominciano a verificarsi in altri santuari e chiese dell'oriente provenzale: presso le reliquie di Santa Roselina a Les Arcs, ai piedi della statua di Notre-Dame-de-la-Roquette (detta anche Notre-Dame-du-Spasme o Notre-Dame-des-Œufs) a Le Muy alla Chapelle Notre-Dame-des-Anges di Lurs. Un caso si verifica perfino all'interno della chiesa parrocchiale di Tourettes Sur Loup, appena fuori Grasse, di cui esiste testimonianza scritta: “Gasparde Agarde, femme de Germain s'etant accouché d'un enfant mort, et l'ayant recommandé au glorieux st Fauste, et porté dans l'éeglise et mis devant la ste relique, il a donné beaucoup de signes de vie, ce qu'ayant veu moy mesme, l'ay baptisé en présence du sir Giraud, mon curé, de Lucresse de Grimaldy, dame du Caire et de la sage femme. Signé Decormi, vicaire” (Gasparde Agarde, moglie di Germaine ha fatto venire alla luce un bambino morto e l'ha affidato al glorioso Saint Fauste, e portato nella chiesa e deposto davanti alla santa reliquia, ha mostrato molti segni di vita, tali che, dopo averli visti io medesimo, l'ho battezzato in presenza di Sir Giraud, il mio curato, di Lucrezia di Grimaldy signora di Caire e della levatrice. Firmato Decormi, vicario).
Una nuova ingiunzione, tremenda e definitiva viene inclusa negli Atti di Visita del 1730 (manoscritto G57, Archivio Dipartimentale delle Alpi Marittime) dal nuovo vescovo Charles Léonce D'Anthelmy che immediatamente recipisce il divieto promulgato l'anno precedente dalla Santa Sede. Ironia della sorte, il prelato ha per cognome un altro noto intercessore del répit, Sant'Antelmo.
Le sue dure parole sortiscono l'effetto desiderato e il santuario comincia il suo inesorabile declino: “Sur l'avis qui nous a été donné qu'on portait de differents endroits du diocèse et d'ailleurs les corps des enfants morts qui n'avaient pas reçu le baptéme dans la chapelle Notre Dame dans la confiance qui pourraient recouvrer la vie et recevoir, à l'occasion del quelque signe équivoque qu'ils donnèraient, le sacrement de bapteme, nous déclarons qu'encore que l'on ne piosse pas avoir trop de confiance en la puissante intercession de la Sainte Vierge auprès de Dieu nous ne saurions autorizer un tel usage qui nous parait plutot un abus que le fruit d'un culte religieux et réglé envers la Mère de Dieu. Nous défendons en conséquence au prétre qui dessert cette chapelle et de célébrer en présence la sainte Messe ordonnant que la masure qui est hors du portique ou halle et où les enfants morts sans bapteme étaient mis ici devant sera abattue et rasée, permettant néanmoins aux marguilliers de ladite chapelle d'assigner une place gors d'i celle pour y mettre les corps des enfants morts sans bapteme qui sera fermée à clef et la clef gradée par le pretre de la chapelle auquel nous défendons expressément de l'ouvrir pour y mettre corps de petit enfant étranger sans étre assuré par un billet du curé du lieu du nom du père ou de la mère à qui l'enfant appartient, dont il tiendra lui-meme mémoire et nous en donnera avis pour prévenir toute sort d'abus et pourvoir aux inconvénients” (Su segnalazione che ci è stata data secondo la quale vengono qui portati da diversi luoghi della diocesi e da altri i corpi dei bambini morti che non hanno ricevuto battesimo nella cappella di Notre Dame nella convinzione che possano recuperare la vita e ricevere, all'occasione del manifestarsi di qualche segno equivoco, il sacramento del battesimo, noi dichiariamo che non abbiamo troppa fiducia in tale potente intercessione della Vergine Maria presso Dio, né possiamo autorizzare una tale pratica che ci sembra un abuso più che il frutto il frutto di un culto religioso e regolato alla Madre di Dio. Diffidiamo di conseguenza il prete che serve la cappella e di celebrare al presente la Santa Messa, ordinando che la mensa che si trova fuori dal portico coperto e presso la quale i bambini morti senza battesimo vengono deposti, sia abbattuta e spianata, né permettiamo ai consiglieri di detta cappella di affittare il posto fuori da essa per mettere i corpi dei bambini morti senza battesimo, che sarà chiuso a chiave e la chiave custodita dal sacerdote della cappella, al quale noi vietiamo espressamente di aprirla per mettere il corpo di bambino estraneo senza essere assicurato con una nota del parroco del luogo del nome del padre o della madre a cui il bambino appartiene, di cui egli stesso terrà documentazione e ci darà comunicazione per evitare qualsiasi tipo di abuso e prevenire inconvenienti).
Tra il 1761 e il 1764 anche l'usanza dei pellegrinaggi a Nostra Signora delle Vite, si conclude e il santuario declina. Ma il répit, probabilmente, viene ancora praticato. Un solo ex-voto presente fra le sue mura e che risale forse al XVII secolo, è stato riconosciuto chiaramente come ringraziamento per un répit avvenuto. Ritrae una madre e un figlio in fasce, uno accanto all'altra, che sporgono dalle lenzuola in un grande letto. Il padre in atteggiamento di preghiera è ai piedi. Su tutto domina la Vergine.
Ma ci sono almeno altri due quadretti che mostrano elementi inequivocabilmente riconducibili alla “doppia morte”. In uno, racchiuso da una cornice tonda, ci sono una madre e una bambino in fasce in primo piano vicino a una culla, un angelo con qualcosa che parrebbe una piuma alle loro spalle e in alto, nel terzo e più profondo piano compositivo, la Vergine.
L'altro, in certo modo inquietante, mostra invece un bambino in fasce deposto in una culla avvolta dalle fiamme. Non è difficile riconoscere nelle lingue di fuoco quelle dell'inferno, quindi della condanna al limbo (che anche Dante aveva collocato negli inferi), evidentemente scongiurata.
I due ex-voto sono chiaramente “tardi” e il secondo riporta una data precisa, il 1852 che mostra come, più di un secolo dopo l'interdizione del rito, il répit ancora si svolgesse a Notre Dame De Vie, probabilmente in clandestinità.
La riscoperta del santuario avvenne soltanto negli anni '30, quando la famiglia Guinness (i celebri produttori irlandesi di birra), proprietaria dei terreni circostanti il complesso (tra cui anche l'area dove si trovava il cimitero e il giardino dietro l'abside), decise di rendere nuovamente fruibile la collina. In seguito al decesso della moglie di Benjamin Seymour Guinness nel 1931 e alla volontà di tumularla in una nuova tomba costruita accanto al santuario, i corpicini dei nati morti furono tutti esumati e raccolti nell'ossario interrato sul lato nord. Su di esso fu posta una lastra che recita: “ici reposent des petits innocents morts dés leur naissance”, letteralmente “qui riposano i piccoli innocenti morti nella loro nascita”.
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BIBLIOGRAFIA
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Gélis , Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006
Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
La voce della terra (parte 3)
... segue dalla seconda parte...
Fino alla metà del 1300 San Gaudenzio in Baceno non era che un semplice oratorio correttamente rivolto ad Est, su un promontorio roccioso all'incrocio tra la Valle Antigorio e il vallone del Devero.
Nel corso degli anni, con il crescere del numero dei battezzati nella zona e nel paese, i suoi spazi erano diventati insufficienti e a poco era servito edificare un ingresso coperto (l'attuale Cappella del Rosario opera del chierico Signebaldo de Baceno figlio di Giacomo). Nel 1486, si era perciò deciso di cambiarne l'orientamento in senso nord-sud per aggiungervi un nuovo e ampio corpo a tre navate, nell'occasione del matrimonio di Bernardino de Baceno, valvassore imperiale di Antigorio e Formazza, con la nobildonna Ludovica, figlia di Antonio Trivulzio, rappresentante del duca di Milano in Ossola.
Terminati i lavori nel 1524, era stato assegnato alla bottega del noto pittore novarese Tommaso Cagnola, il compito di affrescarne gli interni. Grazie alla sua opera era così comparsa negli intradossi degli archi laterali del presbiterio un'intera teoria di 16 sibille goticheggianti, divise in due gruppi, cui si aggiungevano i profeti biblici all'interno dell'arco centrale.
Una ventina di anni dopo, mentre Antonio Zaretti de Bugnate proseguiva l'opera del Cagnola, le navate laterali erano state parzialmente smantellate e ricostruite di maggior ampiezza con l'inserimento di due doppie file di archi per sostenere il peso. Questa volta il compito di decorare le nuove navate era stato assegnato all'ossolano Giacomo de Cardone, impegnato a dipingere anche gli interni della chiesa dei SS Pietro e Paolo di Crevoladossola, dove Fermo Stella da Caravaggio, di cui forse era allievo, aveva appena dipinto 8 sibille di gusto vagamente fiammingo all'interno dell'arco di accesso al presbiterio.
In tal modo era nata a Baceno una nuova teoria di 12 sibille negli intradossi del secondo, terzo e quarto arco laterale della navata occidentale, che andavano ad aggiungersi alle altre 16 già esistenti. Per quantità corrispondevano all'elenco canonico proposto da Filippo Barbieri (anche i vaticini riportati nella fasce di tutte le sibille in San Gaudenzio provengono dal Discordantiae). A ben guardare, però, la successione non è quella offerta dall'inquisitore domenicano.
Non è certo che l'autore della nuova dozzina di pizie sia De Cardone ma, in questa apparente accettabilità di elementi dietro cui si nasconde un codice iconografico indecifrabile, sembra di ravvisare la volontà di una mente libera, tipicamente cinquecentesca, la cui ricerca interiore di conoscenza è divergente rispetto alla spiritualità imposta, proprio come quella del pittore di Montecrestese. Il ciclo che realizzò di sua mano nella sua dimora rappresenterebbe in modo allegorico proprio la sua inclinazione verso una gnosi di tipo alchemico e non a caso, fu poi coinvolto in un processo per eresia di cui fu unico imputato - poi scagionato - nel 1561 per presunta adesione al luteranesimo.
Neppure l'altra serie più antica sembra seguire un ordine conosciuto, anzi, compare perfino una sibilla “Asia”. Parrebbe che il Cagnola, o chi gli ha commissionato il lavoro, abbia voluto suddividere le sibille in due gruppi, orientali e occidentali, secondo il carattere di ciascuna, come fossero la rappresentazione delle due parti, dei due emisferi e delle due “epoche” del “nuovo” mondo trascendente di cui la chiesa antigoriana si apprestava a diventare testimone e baluardo.
Leggendo da occidente a oriente, in direzione del “nuovo”, del sole che nasce, cui corrispondeva l'asse dell'oratorio antico (dall'ingresso verso l'altare), gli affreschi sulle pareti di fondo della parrocchiale di Baceno, infatti, non si può non intuire un filo conduttore preciso e voluto, un “cammino” che, prendendo le mosse dalla spiritualità arcaica, quella della Madre fonte di ogni sostentamento e beneficio che viene “messa a riposo” (cappella della Vergine del Rosario, con una Mater galattofora e una “Dormitio Virginis”), rigenera ogni cosa con il Peccato Originale e la sua redenzione (Crocefissione) e attraversando le ere, sotto lo sguardo vigile delle pizie, diventa la nuova chiesa (cappella di S.Pietro).
Non è una soluzione del tutto nuova. Già Michelangelo aveva disposto sibille e profeti insieme alle scene bibliche della creazione nella volta della Cappella Sistina. Contemporaneamente aveva realizzato un impianto simile Arnault de Moles nella cattedrale francese di Auch, nel Gers.
Grazie a questa scelta e all'inserimento di un riferimento esplicito alla chiesa “nuova”, l'ideologia controriformista trova piena espressione in una valle pregna di tradizioni ancestrali, al confine con le terre svizzere pullulanti di eretici e miscredenti.
“Motore” invisibile di tutto il cambiamento sono così le sibille nei due archi e i profeti, attraverso cui il cambiamento si compie. Per lo stesso scopo il successivo ampliamento, affinché ogni cosa tornasse al suo posto, avrebbe richiesto l'inserimento di altre 12 sibille disposte, come la nuova parrocchiale, da Nord verso Sud.
Le sequenze di sibille a Baceno sono infatti successioni ordinate di fasi cicliche attentamente polarizzate e diversamente attive, come il sole durante il suo percorso nel cielo, flussi filtranti e selettivi che vivificano il luogo. La loro presenza inoltre è sempre un richiamo all'autorità divina, quella classica alla quale si rivolgeva l'uomo nell'antichità, ricevendone responsi e soprattutto quella di Dio Padre che aveva preannunciato la venuta del Figlio anche attraverso le loro parole. Infine, appartenendo ogni sibilla a un contesto geografico più o meno preciso, radunarle a Baceno e a Crevoladossola inseriva simbolicamente i due luoghi fra le “terre benedette”, quelle in cui gli dei avevano fatto sentire la loro voce, quasi fossero anche le due località ossolane “sedi” di sibille.
In questa mappa simbolica in effetti c'é un particolare, una sorta di codice, un finto errore lasciato per trasmettere un messaggio. Sia la prima che la seconda sequenza sibillina ripetono una delle figure vaticinanti. Le due successioni sono quindi rispettivamente di 15 e 11 libisse. In quella più estesa ad essere citata due volte è l'Ellespontina, nell'altra la Cumana. Pur nella libertà di ordine con cui le sibille venivano rappresentate nel Medioevo e nel Rinascimento, c'é almeno un caso in cui le due pizie vengono rappresentate insieme. Compaiono affiancate in uno dei pennacchi di campata della chiesa conventuale di Santa Maria di Canepanova a Pavia (1500-1507). Curiosamente, l'architetto responsabile della costruzione dell'edificio era proprio lo stesso Giovanni Antonio Amedeo firmatario dei contratti tra le fabbriche ecclesiastiche milanesi e le cave di Ornavasso, Candoglia e Crevola. E ancora venivano dall'Ossola i mastri scultori rimasti per tre generazioni, tra il XV e il XVI secolo, sia a Milano che a Pavia, tutti con cognome “degli Arrigoni”, il cui capostipite era quell'Antonio da Domodossola che tanto aveva lavorato sia per i nobili di Baceno che per i Della Silva, guadagnandosi il nome di “Maestro di Crevola” con i suoi lavori proprio alla Parrocchiale di San Pietro e Paolo.
La dinastia di scultori e il grande architetto ducale furono senza dubbio tra gli artefici del diffondersi nelle valli ossolane degli influssi artistici rinascimentali lombardi. Ma la ripetizione delle due sibille, troppo evidente per essere una svista o uno sbaglio, è un modo antico e nuovo per sottolineare il maggior valore di un elemento sugli altri, attraverso l'iperbole. Quelle ripetute sono “due volte” sibille, appartengono a due – o anche a molti - livelli di significato diversi.
La duplice pizia della prima serie, l'Ellespontina o Elispontica, annuncia con il suo vaticinio mercuriale la futura nascita del Figlio di Dio. Voce delle voci, voce per eccellenza, è la voce stessa di tutte le sibille. Nelle iconografie classiche rinascimentali il fazzoletto le si incrocia proprio in corrispondenza della gola, come ad abbracciarla. A Baceno poco oltre l'arco in cui è dipinta, procedendo verso est c'é la cappella di San Pietro, la “nuova” Chiesa nata con la venuta del Cristo. Non è difficile quindi identificare la sibilla con la stessa parrocchiale, la chiesa-baluardo della cristianità tridentina.
In questo intrico di simbologie, però, non si esprime solo il ruolo che il clero controriformato ha assegnato a Baceno, ma anche il carattere profondo e antico del luogo, che trascende i loro scopi di potere.
Secondo la tradizione, infatti, la chiesa, già prima di diventare la sontuosa parrocchiale oggi visibile, nonostante la dedicazione al primo vescovo novarese, Gaudenzio, era conosciuta e visitata sopratutto per l'antica Vergine Lattante ivi affrescata. Comunemente si ritiene che si tratti delle Virgo Lactans di gusto gotico affrescata in un angolo dell'antico ingresso dell'oratorio, oggi Cappella del Rosario.
Ma tale cappella doveva presumibilmente già esistere prima del 1326, anno di costruzione del portico e del 1372, anno in cui l'atrio fu destinato a cappella del Rosario. Un documento datato 7 aprile 1326 che istituisce la Cappellania della Madonna mostra che, quando la chiesa primitiva era stata distrutta per erigerne una di più ampie dimensioni (non ancora quella a tre navate, cinquecentesca), doveva già esistere una “Cappella della Madonna” in altra posizione rispetto alla successiva del Rosario. Forse si trovava sul lato opposto. Ma non è escluso che potesse essere la stessa chiesa primitiva. San Gaudenzio nel 1039 viene infatti donata da Gualberto ai Canonici di Santa Maria di Novara.
A tale prodigiosa e antichissima immagine “mariana” si rivolgeva la gente della valli, che giungeva fino in paese per adorarla, chiedere conforto o aiuto e portare doni in ringraziamento. Quella madre dal viso misterioso era insomma il nume tutelare cui rivolgersi tanto per tutti i problemi individuali e sociali quotidiani. La facciata interna alla cappella dell'arco opposto alla Vergine è in tal senso un vero e proprio catalogo di richieste: mani, braccia, gambe, occhi e parti anatomiche in segno di grazia ricevuta per traumi, ma anche oggetti di uso quotidiano, strumenti, animali per il lavoro nei campi e per il sostentamento, bastoni e stampelle.
Tra gli altri oggetti affrescati, che forse all'inizio venivano portati e lasciati fisicamente ai piedi della Madonna Lattante, c'é poi una tipologia particolare di doni, che sembrano asciugamani o mantelle. Più precisamente sono sciarpe o ampi fazzoletti bianchi da indossare sulla testa e annodare al collo, proprio come quelli che velano le immagini delle profetesse e in particolare dell'Ellespontina.
Èevidente che laMater era riconosciuta come sibilla, depositaria della conoscenza, consigliera dell'uomo in tutti gli aspetti della sua vita, da quelli sociali e territoriali a quelli agricoli e dispensatrice di cure e benedizioni agli infermi.
Identico ruolo dovevano ricoprire le tanto temute donne di Baceno e Croveo, forse le ultime “sacerdotesse” di riti perduti, che furono riconosciute streghe e processate dagli inquisitori. Come si evince dagli interrogatori conoscevano l'utilizzo delle erbe medicinali, praticavano forme rituali arcaiche ed erano dotate di grandi capacità.
Soprattutto, grande era il potere delle loro parole, ne bastava una per maledire a vita e portare a morte certa. Unte con un olio portentoso e gridando, nel buio della notte le streghe raggiungevano il luogo del sabba per danzare orgiasticamente insieme al loro dio fino all'alba. Lo stesso appellativo “strega” deriverebbe appunto da “strix”, civetta, l'uccello sacro alla Dea (il suo nome scientifico non a caso è Athena Noctua), il simbolo di onniveggenza, saggezza e vita, con riferimento al suo elaborato richiamo notturno portatore di presagi.
Forse alla capacità di udire la voce sibillina e alla necessità di orecchie fini per riuscire a sentirne il canto si riferisce un particolare e antico glifo inserito nella base del campanile della parrocchiale di Crevoladossola, unico altro luogo della valle in cui sono effigiate sibille: un omino a braccia spalancate in un gesto di accoglienza, con enormi padiglioni auricolari ben aperti.
Non si può a questo proposito non ricordare la storia dell'Asino d'oro di Apuleio, in cui già compaiono alcuni elementi di quella che poi sarà l'identica e assai più tarda tradizione stregonica medievale. Protagonista è Lucio, giovane di Patrasso appassionato di magia che si reca in Tessaglia per affari. Qui in casa del ricco Milone, affascinato dai prodigi della moglie-maga del suo ospite, Pànfila, capace perfino di tramutarsi in uccello, cerca di imitarla, ma sbaglia unguento e si trasforma suo malgrado in un asino.
Come tutte le maghe, anche è una sacerdotessa di quella dea dai mille nomi e dalla voce terribile cui nella stessa opera Lucio scioglierà una accorata preghiera: “...la notte con le tue urla spaventose e col tuo triforme aspetto freni l'impeto degli spettri e sbarri le porte del mondo sotterraneo, errando qua e là per le selve, accogli propizia le varie cerimonie di culto... con qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualunque aspetto è lecito invocarti:concedimi il tuo aiuto
nell'ora delle estreme tribolazioni, rinsalda la mia afflitta fortuna, e dopo tante disgrazie che ho sofferto dammi pace e riposo”.
La sibilla e le sue sacerdotesse, come le streghe, avevano potere di vita e di morte. Secondo un altro latino, Lucano, che riporta l'episodio nei Pharsalia, Sesto, figlio di Pompeo, dopo lo scontro tra pompeiani e cesariani a Durazzo, fugge in Tessaglia e va a consultare la potente maga Erìttone La pizia si serve del cadavere di un soldato che, rianimato, profetizza la morte di Cesare, la sconfitta di Pompeo e la rovina di Roma.
Alla Dea celebrata da Apuleio e da Lucano si riferisce ancora più prepotentemente l'altra sibilla ripetuta di Baceno, quella Cumana, presente due volte nella seconda serie di sibille. È la Deìfobe virgiliana, figlia di Glauco (protettore di Cuma) e forse di Scilla, la profetessa del sole Apollo che aveva mostrato il futuro ad Enea. La donna col vaso che compare di fianco al mostro inabissatosi nel Canale di Sicilia su alcune monete corinzie, Leucotea-Pirene, potrebbe essere proprio lei, “leuco-tea”, letteralmente la Dea Bianca, la Mater Matuta dei latini, la Madre-delle-madri, l'antica.
Attributo classico della sibilla Cumana è la tazza d'oro, poi diventata mangiatoia e in qualche caso culla. Il suo vaticinio cristianizzato è quello della Morte e Resurrezione di Cristo, quale prefigurazione della fine del Mondo. Annuncia il cambiamento, la trasformazione, la stessa espressa dal “graal” della tazza con cui viene di solito raffigurata.
E' la dea bianca e nera, “la genitrice dell'universo, la sovrana di tutti gli elementi, l'origine prima dei secoli, la totalità dei poteri divini, la regina degli spiriti, la prima dei celesti; l'immagine unica di tutte le divinità maschili e femminili:sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi degli inferi. […] Perciò i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano madre degli dei, adorata in Pessinunte”.
Proprio una sibilla aveva fatto in modo, attraverso i Libri Sibillini, che nel 204 i Romani prelevassero la statua “aniconica” (una pietra) di Cibele nel suo sacrario a Pessinunte per portarla a Roma e collocarla nel nuovo tempio a lei dedicato sul colle Palatino. Nero era il simulacro della dea e “sibilla”, secondo una interpretazione basata su una riminiscenza illirica, significherebbe “vergine nera”. Proprio una Madonna Nera è quella del Santuario di Montevergine, nell'avellinese, sorto, pare, proprio su un antico tempio dedicato a Cibele.
Ma se ancora ci fossero dubbi sulle sembianze dell'unica sibilla platonica, di cui le altre non sono che specificazioni, è bene ricordare che almeno una volta essa le mostrò chiaramente. L'episodio è registrato già da Niceforo e prima ancora nella Storia di Tessaglia del greco Suida ed è stato poi ripreso nel Mirabilia (1140-43) e nel Graphia le prime ”guide turistiche” medievali di Roma.
Una colonna forata, forse a scopo astronomico, con l'epigrafe “A CUBICVLO AUGUSTORUM”, ancora esistente nell'attuale chiesa che vi sorse sopra, ricorda il luogo esatto.
Correva più o meno l'anno I a.C. L'imperatore Ottaviano Augusto, chiuso nella sua stanza nel palazzo sul Capitolio, stava consultando, come spesso faceva, la sibilla. I libri dei vaticini erano custoditi li accanto nel nuovo tempio dedicato a Giunone Moneta (ammonitrice), a quella dea detta anche Lucina, portatrice del latte, poiché da alcune gocce stillate dal su seno si sarebbe formata la Via Lattea. Chissà, forse ad Augusto venne un dubbio, forse gli passò per la mente che, in realtà le sibille non esistessero davvero.
D'improvviso, come se l'avesse chiamata, la sibilla rispose. Pare gli abbia detto: “Questa è l'ara del figlio di dio”, come a indicare che in quel luogo andava costruito un nuovo tempio.
Poi, gli occhi di Augusto, per un istante la videro.
Videro una donna, seduta.
In grembo, sulle ginocchia, teneva seduto un bambino.
Antoine Caron: Apparizione della sibilla ad Augusto
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Il gioiello segreto del Piaggio di Villadossola
Pochi sanno -quasi nessuno per la verità- che un piccolo gioiello, si nasconde nel bel mezzo di Villadossola, in bella vista dove tutti passano e pochi vedono. La storia sembra la solita: un “loco ameno” vicino a un fiume, un sasso o una sorgente; una prima cappella talmente antica che non ci si ricorda quando fu costruita; il suo ampliamento per farla diventare una chiesa più grande realizzato qualche secolo dopo. Infine, la costruzione iniziale convertita in cripta e sopra di essa l'edificazione di un'ulteriore chiesa, con tutte le successive modifiche del caso.
Ma non esistono due chiese, due moschee o due sinagoghe uguali. Ognuna ha una storia tutta sua che vale la pena raccontare. La storia dell'Assunta del Piaggio comincia così...
Esternamente solo le due doppie absidi coronate di archetti, sovrapposte e per metà sotto il livello stradale, attirano l'attenzione. Si scende nell'attuale cripta attraverso il passaggio recente ricavato sotto la sacrestia, un po' corridoio e un po' cantina. La cripta ha due absidi puntate ad Est. Una è più piccola, tozza e larga, l'altra è più stretta e pronunciata.
Entrambe dovevano essere dotate di altari importanti, come specificano gli Atti di Visita del 1596:”Est locus subterraneus sub parte ecclesia concameratus in quo sunt altaria duo parva nuda tollenda […] Essent demolienda dicta altaria aliqua cautione adhibita cum in eis essent aliquae reliquiae”.
In tutte e due si aprono due piccole finestrelle a feritoia che, probabilmente, puntano alle albe dei due solstizi. Così tutte le “posizioni” solari sono rappresentate. Entrambe le absidi si innestano su piccole navate ad esse in qualche modo proporzionate.
L'abside più antica, il primo luogo di culto, è la prima che si incontra. Toponomastica e geografia sembrano indicare che fosse una “capella ad Castrum”, luogo di culto di un castello o di una fortificazione lambita dal torrente Ovesca. “Se scavassimo qui intorno, troveremmo i resti delle mura del castrum e chissà cos'altro...”. La seconda abside e la seconda navata, aggiunte più tardi, sono più facilmente databili. Nonostante gli elementi aggiunti in epoche diverse, i costoloni romanici e la colonna centrale impostata quando fu eretta la chiesa superiore, certi piccoli dettagli e soprattutto la presenza all'esterno, proprio sulla specchiatura tra le due feritoie, di una croce rilevata in pietra che poggia su una V rovesciata, riportano all'epoca carolingia, tra il VIII e il IX secolo.
La cappella iniziale è dunque più antica, molto più antica e risale almeno al periodo in cui furono scritte le prime vite dei santi Giulio e Giuliano, secoli dopo la loro morte. Ai due fratelli si ascrive di solito la prima cristianizzazione del Novarese e dell'Ossola, ma alcune scoperte archeologiche e documentarie, non ultima la villa romana rinvenuta a Sizzano, cui nel V secolo era già annessa una piccola chiesa, sembrano piuttosto ascrivere la diffusione del cristianesimo all'iniziativa della nobiltà locale spinta da motivi non propriamente spirituali.
Non è escluso che a tale fenomeno possa ascriversi anche la chiesa primitiva del Piaggio. I saggi di scavo hanno infatti messo in evidenza che agli edifici primitivi era annesso un battistero, la cui posizione, attualmente corrisponderebbe a quella dello scalone di ingresso della chiesa “alta” e di cui in parte riprodurrebbe il perimetro. Tanto tempo fa, solo le chiese principali, quelle “pievane” disponevano di un battistero.
Esplorando e fotografando la cripta intanto, il “sapere cellulare” assimila e valuta, aggiungendo tessere al mosaico. Sarebbe troppo facile limitarsi alle variazioni indotte dalle acque sotterranee o al magnetismo terrestre. Ben più interessanti sono i cambiamenti indotti dalle forme, dai resti degli affreschi, dalla terra sottostante, nonostante l'aria “intorbidita” dal varco di accesso del corridoio.
In apparenza le due absidi sono “gemelle” ed entrambe interamente occupate da presenze maschili. In una campeggia il Pantocrator trecentesco nella mandorla mistica, nell'altra il Crocifisso, dello stesso periodo in corrispondenza della croce esterna e figure di vescovi guantati. Eppure le cellule non mentono. Il “catino” più antico, infatti, a dispetto del Cristo che lo domina, conserva intatta nella sua struttura formale la caratteristica nativa, di natura femminile, che gli appartiene. L'altro invece, sì, è un crogiolo di frequenze di tipo “maschile”.
Madre era la chiesa iniziale. Non fu mutata in una madre “più grande”, fu invece affiancata dal suo complementare, come se ci fosse stato un cambiamento di pensiero, come se si fosse deciso che il maschio dovesse prevalere sulla femmina. Ma l'uno non poteva fare a meno dell'altra, poiché l'uomo non è uomo senza la sua sposa e la donna altrettanto senza il suo sposo, perciò entrambi i caratteri furono lasciati. Con due absidi dunque fu rappresentato l'Universo intero.
Per fortuna e per sapienza, quando nel XI secolo, si procedette a costruire la nuova chiesa sopra quella esistente, non solo il santuario antico fu preservato mutandolo in cripta, ma il nuovo edificio fu altrettanto dotato di due absidi che riproponevano esattamente la stessa natura universale. I due antichi catini furono allora affrescati con il Crocifisso, i vescovi dai guanti candidi e il Pantocrator, di cui rimangono pochi resti. I nuovi invece furono abbelliti in accordo alle loro nature.
La Madre, dipinta – forse – dalla stessa mano che dipinse la Madonna di Re, sta distesa sulla faccia visibile dell'altare cubico, nell'abside che le compete. L'affresco sul fondo è nascosto da spessi strati di intonaco, ma c'é da scommettere che al centro ci fosse una Madonna. Ad essa si riferisce appunto il De Maurizi in una nota del 1929. Qualche traccia - scene “bucoliche” - è visibile dietro l'altare che regge la statua lignea ottocentesca dell'Assunta.
L'abside settentrionale superiore, in cui compaiono solo figure maschili, è di nuovo una scoperta. Le le cellule non mentono e dietro le emozioni subito riconoscono conoscenze perfette. Qui, il funzionamento di tutto ciò che esiste è visibile e rappresentato. Le tre figure trinitarie sono identiche, le somiglianze tra le coppie di “apostoli” non casuali. Perfino nelle coppe posate davanti alla trinità richiamano la verità energetica del cosmo. Il sinistro è decorato con linee serpentiformi verticali, il desto presenta solo linee orizzontali. Il mediano è un miscuglio degli altri due e insieme è qualcosa di molto diverso.
Le coppie sottostanti, così simili alle personificazioni trinitarie, sono ritratte in rapporti di amichevole scambio tra loro e adombrano il dipanarsi delle leggi universali che dalla trinità discendono.
Una diversa trinità, pare fosse stata dipinta inizialmente lì sotto: Cristo in croce, il Padre circondato dagli angeli alla sua destra, la Vergine alla sua sinistra. Il messaggio non è stato dunque mutato, solo ricomposto per adattarsi ai tempi nuovi.
Neppure la dedicazione è mutata. Già la chiesa primordiale era edificata “ad Saxum Sancte Marie”, contro quel sasso detto di Santa Maria, cui la cappella primitiva è ancora addossata da sempre, così che essi sono in perpetuo una cosa unica.
Grazie a Giulia Brizzi, Barbara Piana, Chiara Lagostina, Fabio Casalini, Alberto De Giuli e il parroco di Villadossola don Massimo Bottarel, senza i quali la visita non sarebbe stata possibile
BIBLIOGRAFIA
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Ex - Chiesa della Maddalena: un antico ospitale a Cannobio
A Cannobio, presso l'attuale piazza S. Ambrogio, sorgono ravvicinate due chiese. Quella settentrionale, intitolata allo stesso santo milanese, ha forma ottagonale con un corpo rettangolare allungato verso ovest. Quella meridionale, esacrata (sconsacrata) e dedicata a Santa Maria Maddalena, ha invece impianto a croce.
Sant'Ambrogio è probabilmente non solo la più antica delle due, ma dell'intero borgo. Durante i lavori di demolizione del coro che si trovava a levante, nel 1629, per allargare la piazza, emerse infatti la data del 925 impressa su una pietra estratta dal muro. L'edificio compare poi nel 1174 nella Carta Capitolare e negli Statuti Borghesi.
La Chiesa della Maddalena, invece, sembra esistere con certezza soltanto dal 1340 circa quale ospitale della comunità. La struttura doveva essere piccola e angusta, con il coro rivolto a est. Pare che, poco più a meridione scorresse un tempo il torrente Cannobino, poi deviato dall'innalzarsi del terreno o dall'abbassarsi progressivo del greto, sul percorso attuale. Il letto del torrente doveva trovarsi pressapoco dove oggi si snoda via Amore. Scavi (?) sotto la vigna antica dei Cappuccini, poco a sud della chiesa, rivelarono infatti la presenza di ciottoli e ghiaione.
Veduta di Cannobio da Viaggio pittorico ai tre Laghi Maggiore, di Lugano e Como, Milano, 1816-21,
disegnato da F. Lose e inciso da Carolina Lose (fonte: http://archiviodelverbanocusioossola.com)
Ciò contribuisce a chiarire la posizione strategica dell'ospitale che, probabilmente, si trovava nei pressi del guado sul Cannobino, lungo la strada principale. Qui, avrebbero dunque sostato i pellegrini e i viandanti in attesa di passare il torrente nei frequenti periodi di piena.
Nel 1488 la chiesetta-ospitale con le abitazioni attigue era gestita dai Minori Osservanti Francescani.
Poi, per volere di San Carlo Borromeo, nel 1575 l'ospitale viene spostato a Santa Giustina, un tempo degli Umiliati e la chiesa passa ai Cappuccini da poco insediatisi a Cannobio. Ingrandita e abbellita viene riconsacrata dallo stesso San Carlo nel 1582, come ricorda una lapide ancora esistente.
L'interesse dei Cappuccini per Cannobio e l'attenzione di San Carlo per l'Ordine dei Cappuccini furono probabilmente dovuti anche al vicario generale dell'epoca, Evangelista Ferritina da Cannobio (1511-1595), teologo e “uomo fornito di prudenza, di singolare erudizione e di una insigne probità d'animo”, che aveva partecipato attivamente al Concilio di Trento nel 1562. Provinciale di Milano, eletto e riconfermato più volte Definitore Generale (1541 al 1593) e procuratore dell’Ordine presso la Santa Sede (1558 e 1561), l'aveva governato per diversi anni (1564-1567). Di certo per il Borromeofra' Ferratina era un buon “alleato” e i Cappuccini erano una presenza più discreta, ma altrettanto sicura, di un tribunale inquisitorio, sul confine con i territori svizzeri, notoriamente infestati di “eretici”.
Nel 1627, giudicata non più confacente alle esigenze dei frati, “presso di essa” viene costruita una nuova chiesa, la struttura ancora oggi esistente, con il coro orientato a meridione. Non ci sono notizie che chiariscano se il nuovo edificio fu un ulteriore ampliamento di quello esistente, che ne sarebbe quindi diventato la parte corrispondente all'ingresso oppure il transetto, o se esso non fu tenuto in alcun conto.
Non è neppure possibile stabilire se l'insolita dedicazione della chiesa fosse a Santa Maria Maddalena fin dall'inizio o se l'intitolazione sia stata decisa dal Borromeo nel 1575.
A tal proposito, ben nota è la proverbiale attrazione del cardinale per le donne, che tuttavia disprezzava profondamente. La sua avversione raggiungeva l'apice nella feroce persecuzione alle streghe che, pur non coinvolgendo direttamente Cannobio, lo vide protagonista nella vicina Valle Mesolcina (Bellinzona), proprio lo stesso anno, il 1582, della riconsacrazione della chiesa della Maddalena.
Carlo Borromeo brucia i libri eretici trovati in Mesolcina
(chiesa di San Rocco, Soazza) fonte: http://www.ilmoesano.ch
La sua azione, svoltasi tra Roveredo e Mesocco, atta a “purgare la valle dalle streghe la quale era quasi tutta infestata di questa peste con perdizione di molte anime [...]”, lo portò a individuare 12 “eretici” di cui 11 donne, streghe, condannate poi ad essere arse vive legate a testa in giù sul palo del rogo.
Altre “anime” femminili, invece, come scrisse di proprio pugno nella lettera inviata al Cardinale Paleotti nel 1583, “...si sono ricevute misericordiosamente a penitenza colla abiurazione”. Queste donne “redente” si può ragionevolmente pensare che, nella mente del Cardinale fossero identificabili con la “donna redenta” per eccellenza dei Vangeli, Maria Maddalena appunto.
fonte:http://viaggiatoricheignorano.blogspot.it
Del resto, proprio in quegli anni il Borromeo aveva fondato a Milano il ricovero di S. Maria Maddalena, detto il Deposito, nella zona di Porta Orientale, proprio per le donne di malavita bisognose di redenzione.
Non bisogna poi dimenticare che Cannobio era, ancora nel Cinquecento, terra di confine. E precisamente il torrente Cannobino rappresentava una sorta di limite geografico del ducato milanese, territorio del Borromeo. La chiesa-ospitale si trovava dunque in posizione di “dogana” e il “Castissimo” forse si augurava che funzionasse come un luogo di “quarantena” per coloro – donne soprattutto – che, provenendo da nord, intendevano entrare nel “suo” territorio.
Se, dunque, la nuova dedicazione fu decisa dal Borromeo, l'intitolazione iniziale della chiesa potrebbe essere stata differente. A ciò potrebbe alludere il deteriorato affresco sulla facciata all'esterno della Chiesa della Maddalena, in cui un uomo prega al cospetto dell'immagine di una Madonna della Valle Cannobina, anziché invocando la Maddalena, rappresentata nell'affresco sovrastante, abbracciata in solitudine alla Croce.
Tuttavia, anche la dedicazione della chiesa di S. Ambrogio, a pochi metri, ad oggi intitolata al santo e alla Madonna delle Grazie, potrebbe essere stata consacrata in origine solo alla Vergine, cui più tardi fu aggiunto il santo milanese. Un'indizio in tal senso potrebbe essere rappresentato dall'esistenza, nell'edificio, di un antico affresco della Madonna detta “della Rosa”.
Esistevano dunque due chiese dedicate entrambe alla Vergine a pochi metri di distanza una dall'altra? O potrebbe essersi trattato di uno scambio o di uno spostamento di dedicazioni?
Intitolazioni identiche ripetute e attribuite a chiese adiacenti non sono del resto casi isolati. A Gozzano, la dedicazione primitiva della chiesa di San Lorenzo, primo luogo di sepoltura di S. Giuliano secondo la tradizione e prima parrocchia del paese, sembra essere stata a S. Maria, secondo le parole del Bascapé. Ma sulla sponda opposta del fiume a poche decine di metri di distanza, esiste anche una seconda chiesa con uguale intitolazione, Santa Maria del Boggio, struttura cinquecentesca che sarebbe stata innalzata su un edificio precedente, menzionato in carte del 1015 come Santa Maria de Bozio.
Chiesa di S. Lorenzo - Gozzano (NO)
Certo, nel caso di Cannobio le coincidenze non mancano. E forse possono offrire un'inattesa spiegazione alla doppia intitolazione. L'immagine più antica, sulla piazza Sant'Ambrogio, è quella della Madonna della Rosa e tale fiore è da sempre rappresentazione della coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo, simbolo insomma di rinascita, di elevazione spirituale. Non a caso il “rosario” cristiano si richiama ad esso nel nome. In verità quel fiore è la Vergine stessa, “rosa mystica” e “flos virginitas”, fiore di verginità, come viene definita nelle Lodi Lauretane e nei formulari del XII secolo da cui queste furono tratte.
Madonna delle Rose (Botticelli)
E se essa è il vaso e la rosa, colei che invece quel vaso lo porta e lo custodisce è da sempre Maria Maddalena. Come molteplice, poi, è la natura della rosa, fiore caro tanto alla streghe quanto alle fate, così duplice è la natura di chi “porta” ( o di chi "è porta" di) tale coppa: maschile (Giuseppe di Arimatea) e femminile (Maddalena).
Si potrebbe quasi dire che il Graal e il suo portatore siano stati, per caso o per volontà, “solidificati” nelle due chiese che si affacciano sulla piazza di Sant'Ambrogio a Cannobio...
Ringrazio per questa ricerca GIULIA AIROLDI, ispiratrice della ricerca e il cui contributo nel reperire le fonti storiche è stato fondamentale e FABIO CASALINI, la cui preziosa consulenza mi ha consentito di colmare le inevitabili lacune.
BIBLIOGRAFIA
Luigi Branca, Storia di Cannobio e dei Castelli di Cannero, 1893
Giovanni Francesco Del Sasso Carmine e Pietro Carmine, Informazione istorica del borgo di Cannobio delle famiglie di esso borgo, 1912
Teresio Valsesia, Cannobio e la Valle Cannobina, 1976
Fernando Vittorino Joannes, Vita e tempi di Carlo Borromeo, 1994
Pietro Sforza Pallavicino e Zaccaria, Istoria del Concilio di Trento, 1833
Fabio Casalini, Carlo Borromeo e le donne gettate nel fuoco a testa in giù!, viaggiatoricheignorano.blogspot.it, 2014
La madonna "sbagliata" di Luzzogno
Accoccolato nella stretta valle, verde di prati scoscesi e di boschi, che lo cinge come in un abbraccio, tra la tigre dormiente e la vigile serpe, sorge Luzzogno -Lux/Lucus-omnium o Lucus-Usium che dir si voglia- già sotto la Pieve di Omegna dal 1133 e indipendente dal 1455.
Alle spalle dell’abitato, sulla testa della tartaruga, poco oltre il rio portatore di vita che cinge le case sul lato sinistro, si erge bianco e rosso il piccolo, prezioso Santuario della Colletta con la sua prodigiosa Vergine.
Molte sono le stranezze di questo minuscolo centro e soprattutto del suo luogo più sacro.
Sulla roccia del santuario, pare che anticamente sorgesse già, come in molti altri luoghi, una cappelletta, poi trasformata nei secoli in oratorio, ma la sua origine è ignota. Di certo il ciclo di affreschi nei rispettivi quattro riquadri, ancora parzialmente visibile dopo i recenti restauri (1996) all’interno sulla parete destra e datato al XV secolo (scuola lombarda) costituisce un’indicazione valida della sua esistenza già dalla seconda metà del 1400: partendo dalla porta si scorgono ancora San Rocco e la Madonna con Gesù Bambino, San Bernardo (di Aosta), Gesù in croce con la Madonna e San Giovanni. Nel quarto e più grande infine, proprio come e dove ci si aspetta che debba essere, campeggia il Giudizio Universale, con tanto di demoni e anime torturate nel fuoco.
Del resto, è la stessa tradizione riportata dal parroco Don Togno al vescovo di Novara nel 1884: "L'erezione di questo Oratorio fu quasi contemporanea all'erezione della Parrocchia di Luzzogno, che seguì l'anno 1455 ; la onde in quell'epoca venne collocata detta statua in detto Oratorio, la quale statua, secondo una vecchia tradizione, già da tempo anteriore stava esposta alla pubblica venerazione in una cappelletta che venne poi convertita nell'attuale Oratorio, successivamente ampliato a spese di un ricco signore della nobil casa Gozzano, di Luzzogno per grazia ricevuta dalla B. V. Della Colletta".
E qui cominciano i misteri. La cappelletta votiva, poi diventata parte absidale dell’oratorio, doveva contenere una statua lignea di una “Vergine lattante”, munifica di prodigi, che fu poi collocata sul nuovo altare.
Eppure, nel 1597 il Bascapé in visita pastorale, constatando che ormai era una “scarsa imago linea super altare Beata Virginis Mariae, lactantis rudis et vetustate corrosa atque deformis”, un’immagine rozza, deformata e corrosa dal tempo, ne ordina la sostituzione.
Non si sa se ad essa subentrò una statua completamente nuova o se, come alcuni sostengono, fu sostituito il corpo della venerata immagine, mantenendone la testa, in effetti più antica del corpo. Fatto strano, la nuova Madonna della Colletta non somigliava più all’antica Vergine, anzi, non era più neppure “lattante”, bensì una più accettabile Madonna con Bambino.
Non pago del danno irreparabile arrecato al Santuario, cui la Madre continuò tuttavia a riservare la sua misericordia, il Bascapé è probabilmente anche l’autore dell’esecrazione, avvenuta appunto proprio nello stesso anno della sua visita, di un altro piccolo oratorio con annesso cimitero, detto “di fra’ Marco”, che era in verità dedicato alla Madonna nera (Madonna di Loreto). Si trovava al limitare del paese, proprio sotto la Colletta. Oggi presumibilmente sui suoi resti sorge una casa. Non lontano, alcuni ritrovamenti fanno supporre che vi potessere esistere, anticamente, un sepolcreto leponzio.
Visitando il santuario, ci si sofferma di solito sulla sfortunata storia di quel Gozzano, forse un signorotto locale, il quale, preso per un altro, fu incarcerato con l’accusa di furto e, a quanto pare, ritrovò la libertà grazie alla Madonna della Colletta. A costui si deve, l’ampliamento dell’oratorio in segno di ringraziamento… e un ulteriore oltraggio alla sacralità del luogo dopo il pasticcio combinato dal Bascapé.
Tolto il tetto a capriate di legno, esso fu sostituito con volte in muratura, che tagliarono i preziosi ed eloquenti affreschi, già per altro provati dal tempo, modificando arbitrariamente la cubatura dell’edificio e vanificando lo sforzo dei maestri locali che avevano progettato il primo oratorio.
L’episodio era ritratto nella lunetta della facciata e mostrava il Malcapitato nobiluomo e "l'immagine vecchia della Beata Vergine", la Virgo Lactans. Purtroppo, nel 1865, fu chiesto al pittore Mattazzi di Massiola di “ritoccare” l’affresco… e anche quell’unica immagine della Vergine Lattante finì per diventare una Madonna con Bambino, segnando irrimediabilmente il destino del luogo.
A completarne la decadenza, nel 1820 si provvide a cambiare ulteriormente la dedicazione del santuario, intitolandolo alla “Natività di Maria”.
Neppure le due incoronazioni successive (la prima nel 1885) della Vergine della Colletta avrebbero più potuto ripristinare la bellezza perduta di questo luogo sacro da sempre.
Ma di tutta questa storia, nulla è stato scritto, se non ciò che rimane nella memoria dei suoi muri. Eppure molto ne può raccontare il nostro sapere cellulare, se ne ascoltiamo gli echi con attenzione, mentre visitiamo il luogo. Inconsapevolmente siamo sempre risonanti con ciò che ci circonda, ma il raziocinio e le emozioni ci rendono sordi e ciechi alla bellezza.
Se invece, con pazienza e sforzo adeguato, ci sforziamo di insegnare nuovamente alla testa a comunicare con il corpo e viceversa, ci accorgeremo allora che non vi è più traccia di quell’acqua che, un tempo, doveva scorrere incrociandosi sotto l’altare, portando il luogo ad esprimersi al meglio. Se la sono portata via le gallerie della miniera ottocentesca di calcopirite che si apre pochi metri sotto alla chiesa. I più bravi potrebbero trovarne all’esterno, ma scoprirebbero presto che si tratta soltanto della tubazione recente (1942) che alimenta la fontana…
Soprattutto non si può fare a meno di sentire, con un pizzico di tristezza, che la Madre Terra non si riconosce più da molto nell’immagine dell’Incoronata che riluce sull’altare, anzi, si rivolta contro sé stessa, rifiutando di essere quell’immagine che le hanno posto in capo.
Per quanto strano possa sembrare, essa rivede il suo fedele sembiante solo nel coro di recente fattura che si apre a lato dell’altare: qui, in cima all’arco di ingresso, pudicamente nascosto, campeggia un bel quadretto della Madonna di Re, portentosa Vergine Lattante!
E così, dove la Terra in basso, si specchia nella sua immagine fedele in alto, la Madre si rasserena e può capitare che conceda ancora qualche carezza. Per quanto in rovina sia il luogo, infatti, la Madre che lo tiene sulle sue ginocchia, la “Beatae Maria Virginis cum filio in gremio” come si legge in un documento vescovile del 1629, vive e attende - pur in silenzio- che qualcuno la possa udire.
Grazie ai Viaggiatori Ignoranti, a Fabio Casalini (anche autore di alcune delle foto), Barbara Piana e a Severino Piana che mi hanno accompagnato alla scoperta di questo luogo ricco di fascino.
BIBLIOGRAFIA
Sac. C. De-Giuli, Santuario (della) Colletta di Luzzogno : memorie, Domodossola : tip. C. Antonioli, 1926
Francesco Teruggi, Il Graal e La Dea, Ladolfi Editore, 2012
MAGDALENA (parte II) - Le vicende dei Sette di Betania
Con questo post continuiamo a seguire le peripezie della compagnia giudaica dopo lo sbarco in Provenza.
Giunte al termine della loro esistenza, Maria Jacobè per prima, secondo la tradizione e Maria Salomè poco tempo dopo, vengono sepolte in una tomba appositamente preparata per loro nella piccola chiesa di Ratis. La fama delle loro gesta e dei miracoli che continuano a produrre anche dopo la morte cresce rapidamente. A loro si aggiunge presto Sara, sepolta "in odor di santità" accanto alle due Marie. Già nel IV secolo, il povero oratorio viene sostituito con una chiesa più grande e maestosa, dedicata alla Vergine, cui viene affiancato un monastero delle Religiose di Arles.
Cos'é veramente un luogo sacro? Come definirlo?
Cos'è veramente un luogo sacro? Come definirlo? Cosa rende "sacro" un luogo?. Di risposte più o meno vaghe, più o meno giuste, ne ho lette e ne vengono proposte molte.
Un buon punto di partenza è certamente chiarire il significato stesso della parola "sacro".
"Sacro" deriva dalla radice sanscrita sac/sak/sag con il significato di "attaccare", aderire", "avvincere", nel senso di unire/collegare. "Sacro" è dunque qualunque cosa che è "unito" direttamente e inscindibilmente a un "altro", che potremmo definire "il divino" o "Infinito", quella "realtà superiore" cui ogni religione e spiritualità si riferisce con nomi diversi.