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I massi coppellati del ritorno alla vita
Le risposte, affermative o meno, a certe intuizioni, arrivano spesso inaspettate, proprio quando non le si cerca. Altre volte, invece, si manifestano perché ardentemente volute e cercate.
La commenda giovannita di L’Argentière-La-Bessée, nell’Alta Provenza francese, è un sito di notevole interesse storico e culturale, ma anche una vera “capsula del tempo” in cui sono rimaste cristallizzate usanze antiche, mirabilmente conservate insieme alle sovrapposizioni dei secoli successivi.
Esiste un progetto di recupero della piccola area, elaborato all’indomani delle campagne di scavo effettuate fra il 1996 e il 2005, ma la burocrazia, gli interessi e la scarsa attenzione, mascherati da croniche e provvidenziali “mancanze di fondi”, non ne hanno ancora - e chissà per quanto - consentita la realizzazione. Così le piccole grandi meraviglie di questo luogo misterioso languono, nell’attesa di tornare alla luce.
La visita degli interni della cappella-oratorio di Saint Jean è tutt’ora interdetta per motivi di sicurezza. Ma la curiosità e la perseveranza, unite ad un rocambolesco giro di telefonate, email e messaggi, ci ha infine schiuso quelle porte, rimaste a lungo chiuse.
L’oratorio in pietra dai riflessi dorati sorge su uno sperone roccioso che, secoli addietro, dominava la Durance, che vi scorreva sotto. Oggi l’alveo del fiume scorre molto più distante.
La commenda risale almeno al 1208 e la nuova chiesa fu costruita dove già sorgeva un qualche altro edificio, forse una piccola cappella, le cui prime tracce risalirebbero al X-XI secolo.
Sulla parte alta della roccia e sul versante verso il fiume, con evidenti risvolti simbolici che richiamano la sacralità della Durance e delle sue acque, furono ricavate diverse tombe rupestri, più volte riutilizzate in epoche diverse.
In prossimità di due di queste sono ancora visibili piccole coppelle, interpretate come “segnali” della presenza di una tomba senza, tuttavia, che si possa stabilire se le fosse siano state ricavate vicino alle coppelle oppure il contrario.
La presenza di sepolture di fanciulli, almeno 28, inseriti nelle fosse già esistenti o deposti nella nuda terra in prossimità del muro della cappella oppure ai piedi della roccia, inoltre, ha destato non poco stupore, facendo concludere che il luogo possa essere stato un santuario del “ritorno effimero alla vita” o répit.
La struttura più interessante è però la roccia stessa, in cui è stata intagliata, da tempo immemore, una scala che pare fermarsi in prossimità del muro esterno dell’abside. La gradinata è all’origine del curioso toponimo “Gradis Karuli” o “De Gradibus Karoli”, di ignota origine e che richiama non certo Carlo Magno, come si cerca di sostenere, quanto una divinità ancestrale locale, Carrus, personificazione della montagna e quindi della roccia stessa.
È stata interpretata dagli archeologi come un “percorso”, la rimanenza di una via pellegrina che, scavalcando lo sperone, si inoltrava poi nella cittadella fortificata. Anche il rinvenimento di una pavimentazione in ciottoli, che occupa quasi tutta l’area dell’edificio, sembra corroborare l’ipotesi e giustificare in tal modo la scelta del luogo per edificarvi la cappella.
Ma le risultanze degli scavi e la possibilità di vedere con i nostri occhi l’interno dell’edificio, hanno svelato molti altri dettagli, registrati e opportunamente non spiegati, che raccontano una storia ben diversa.
La “scala”, infatti, prosegue al di sotto dell’abside, fermandosi in corrispondenza del punto in cui fu innalzato l’altare. L’edificazione non mirò a distruggere la “scala”, bensì a inglobarne con molta attenzione la parte terminale. Si chiarisce così la necessità di far intervenire le “maestranze lombarde”, la fraternità italiana dei “costruttori di cattedrali”, i Comacini, che provvidero all’opera, altrimenti non particolarmente difficoltosa. Nessun altro, all’infuori di quegli abili architetti, scultori, scalpellini, carpentieri, muratori, sarebbe stato in grado di realizzare una tanto mirabile sovrapposizione.
Grazie al loro intervento e alla scelta di riempire lo spazio absidale fino al nuovo piano di calpestio con strati di materiali diversi appositamente collocati, tutto si è perfettamente conservato. La “scala” procede con andamento leggermente curvo ed è composta di undici gradini, più uno spazio sommitale, per un totale di 12 piani sovrapposti, quantità che ha un valore simbolico, astroenergetico e numerologico non trascurabile e certamente voluto.
Appoggiandosi parzialmente al piano sommitale, i costruttori realizzarono una piattaforma rettangolare rialzata, ottenuta giustapponendo frammenti di un elegante sarcofago di chiara origine gallo-romana, su cui elevare l’altare. Ciò testimonia una frequentazione molto antica del luogo e la sua evidente sacralità.
È però la parte dello spazio sommitale in cui culmina la “scala”, leggermente decentrata rispetto alla chiesa (al centro c’é infatti l’altare), a riservare la sorpresa più grande. Qui infatti è stata ricavata una coppella di discrete dimensioni e profondità, rimaneggiata successivamente fino ad assumere una forma grossolanamente e approssimativamente rettangolare. Essa è ben più antica e diversa da quella, recente e ben squadrata, rinvenuta all’esterno della chiesa e che fu utilizzata per innalzare una croce rituale in legno, a contrassegnare il cimitero.
I pochi studi e i quaderni di scavo si limitano, di nuovo, a registrarne la presenza evitando di indagarne lo scopo. C’é tuttavia un piccolo dettaglio che indica come proprio questo fosse il punto più importante e quello cui era rivolta ogni devozione.
In cima alla parte visibile della “scala”, sul muro esterno dell’abside, sono state infatti incise, chissà quanto tempo fa e da chissà quali mani, tre croci. Due sono più incerte e frettolose, ma la terza, quella più grande e più profonda, forse la più antica, è posizionata proprio nella direzione della coppella nascosta, anziché dell’altare, come ci si potrebbe aspettare.
Evidentemente qualcuno, dopo la costruzione dell’oratorio, ancora conosceva precisamente l’esistenza e la collocazione della coppella, che segna il punto più forte della roccia e ha voluto segnalarla, affinché non fosse dimenticata.
I “gradini di Karolus/Carrus” non erano quindi “una strada”, bensì un “percorso rituale”, verso la cima della roccia e l’intero sperone era un grande altare, una “pietra santa” - da cui il nome di uno dei due ospitali del luogo - presso cui celebrare l’ “eterno ritorno”, la buona morte, grazie alla quale essere proiettati in una nuova vita.
La rugiada e la pioggia che si raccoglievano nella coppella, diventando acqua lustrale, erano il mezzo consacrato grazie al quale essere “liberati” dalle catene del destino mortale, sia per gli adulti che, a maggior ragione, per i bambini mai-nati. L’uso dell’acqua quale mezzo per far emettere il “soffio” vitale a quegli sventurati fanciulli è ben documentato, ad esempio a Saint Martin de Belleville, in Savoia, dove venivano immersi in una vasca. La presenza delle tombe di tre infanti - le più antiche - proprio in fondo alla “scala”, conferma che il répit si svolgesse qui anziché all’interno della chiesa. Se la loro scarsa quantità è dovuta all’efficacia del culto, si spiegano anche le altre 25 sepolture, più recenti e molto più numerose in una collocazione diversa: il rito forse non funzionava più perché la coppella non era più accessibile. Perciò, come accadde in moltissimi altri santuari del “ritorno effimero alla vita” l’ultima speranza, seppellendoli “sotto gronda”, veniva riposta nell’acqua piovana che, sacralizzata dal contatto con il tetto del luogo sacro, avrebbe forse potuto, in qualche modo, salvarli.
Così, inaspettatamente, si è sollevato un velo disteso dalla storia e dagli uomini, svelando fugacemente uno degli scopi per cui su certi massi venivano incise coppelle.
BIBLIOGRAFIA
Emile Thevenot, Divinités et Sanctuaires de la Gaulle, Fayard, Paris, 1968
P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883
J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière, Paris, Picard, 1883
S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008
G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974
F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
Il mistero di Theopoli, la città perduta delle alpi provenzali
Sul versante alpino francese sud-occidentale, bagnato dalle placide acque della Durance, c’è ancora un enigma che resiste al tempo e agli uomini. In una stretta valle, una “pietra scritta” di epoca gallo-romana, incisa in un enorme masso che domina il corso tortuoso del torrente Riou, è l’unica testimonianza certa dell’esistenza di un “locus” leggendario chiamato Theopoli, scomparso dalla memoria e mai più ritrovato.
Il testo celebra l’impresa del prefetto gallo-romano Claudius Postumus Dardanus, che, fra il IV e il V sec., fece aprire, tagliandola nella viva roccia, la nuova e più agevole strada per raggiungere l’odierna piana di Saint Geniez, prima accessibile soltanto risalendo il difficile e assai più lungo percorso attraverso la valle di Vançon. Composta in parole semplici, l’iscrizione non ha ancora svelato tutti i suoi segreti, primo fra tutti l’assenza di riferimenti cronologici, inusuale soprattutto in epoca romana. Diciassette foglie di edera, pianta sacra a Dioniso come la vite, intervallano la scrittura e la valenza anche funeraria di questo rampicante potrebbe suggerire che sia stata incisa dopo la morte del potente condottiero, in suo onore e memoria.
Nascondono, come un codice, in bella vista un messaggio comprensibile solo ai meritevoli.
Dardanus è un personaggio storico conosciuto e misterioso insieme. Prefetto di tutte le Gallie, immenso territorio che comprendeva anche la Spagna e la Bretagna, era stato inviato in Provenza dall’Africa per contrastare la calata dei Vandali e poi dei Visigoti.
Di origini modeste - aveva cominciato la propria carriera come “advocatus” - portava il nome del mitico tiranno di Troia, figlio di Zeus e della regione di Dardania, raramente in uso e soltanto in Africa e in area ellenica. Nella “pietra scritta” viene poi celebrato come “vir inlustris” e la moglie Nevia Galla, nella stessa iscrizione, come “clarissima et inlustre”, titoli che indicano l’appartenenza di entrambi all’aristocrazia senatoriale più potente della loro epoca.
Forse tra le due campagne prefetturali di cui fu investito (401/404 d.C. o 406/407 d.C e 412/413 d.C.), Dardanus, nonostante avesse eletto Arles a capitale dei propri domini, decise di riparare con 40.000 soldati e legionari sul remoto pianoro sorvegliato dal picco di Dromon, cinquecento metri più in alto della valle della Durance e qui, dopo aver costruito strade e mura turrite, si sarebbe insediato.
A questo punto comincia il mistero di Theopoli.
Si pensa che il condottiero avesse scelto quel luogo, così appartato, strategico (qui si “riunivano” molte strade di valico delle Alpi e di discesa verso il mare) e facilmente difendibile, in seguito alla conversione al Cristianesimo, che ben conosceva poiché era grande amico di Sant’Agostino e interlocutore privilegiato di San Girolamo, con i quali avrebbe intrattenuto per tutta la vita fitte relazioni anche epistolari: soltanto due preziose lettere si sono conservate, quella del 417 scritta dal santo di Ippona e quella del 414 del santo di Stridone, entrambe a lui indirizzate.
La sua magione potrebbe essere sorta non a Chardavon, alle porte del plateau (dove si sarebbero insediati almeno dal XI sec. alcuni monaci agostiniani) ma presso l’attuale Saint Geniez, piccolo paese che conta soltanto 98 abitanti. Saint Genièz-Genesus, mediorientale come l’illustre prefetto delle Gallie, era infatti uno dei martiri più venerati della Gallia meridionale tra il IV e il V secolo. I suoi resti erano sepolti proprio ad Arles e si ritiene che il condottiero possa averne portata una parte fin sul plateau di Dromon, per custodirle nella cappella costruita presso la sua dimora.
Il luogo prescelto si chiamava “Theopoli”, nome riscontrato storicamente soltanto una volta, con la “s” finale e almeno un secolo più tardi, in relazione ad Antiochia di Siria. Distrutta da terremoti e invasioni, come racconta lo storico Malalas, la città era stata ricostruita nel 528 da Giustiniano I con il nuovo nome di “città degli dei” su consiglio di San Simeone Taumaturgo, ma l’aveva conservato per poco tempo. Con l’arrivo degli arabi sarebbe stata ribattezzata Antakiya.
“Theopoli”, invece, non avendo la “s” terminale non può essere un nome riconducibile alla lingua greca e quindi neppure agli scritti di Sant’Agostino. Anzi, il termine “locus” presente nella “pietra scritta” e la perifrasi “locus cui nomen theopoli est” indicano senza dubbio un luogo di culto (la Basilica di Betlemme con la Grotta della Natività ad esempio era detta “locus Betlehem”), la tomba di un santo martire o il centro religioso di un “pagus” (villaggio rurale). “Theopoli” era quindi, come sostenuto da molti studiosi tra cui A. Grenier e W. Seston, più verosimilmente un luogo sacro custodito in armi anziché un’installazione militare.
Ma è certo, così si desume facilmente dalla “pietra scritta”, che il luogo esistesse già prima dell’arrivo di Dardanus il quale, portandovi le reliquie del santo Genesus, l’aveva riconsacrato al dio cristiano e l’aveva trasformato in una vera e propria città turrita con mura e strade di collegamento.
È possibile che il nome originario fosse quello del picco più alto che domina il plateau a nord-est: Theous, toponimo ancora oggi esistente ma di ignota origine, forse celtica e che potrebbe appartenere a una qualche divinità o un nume tutelare. Il prefetto delle Gallie ne avrebbe fatto un neologismo, unendolo al termine greco “polis” per indicare, con un gioco di parole, in Theous-poli(s) la città presso Theous e non la “città degli dei”.
Ma di Theopoli oggi non c’è più traccia, soltanto leggende. Una racconta di un enorme tesoro nascosto tra le montagne intorno al pianoro. Il più grande studioso di questo enigmatico luogo, Roger Correard, sostiene che il tesoro fosse il bottino dei Visigoti trafugato durante il sacco di Roma e poi affidato dai barbari a Dardanus, con il quale intrattenevano buoni rapporti. Che il tesoro sia stato sepolto insieme ad Alarico nella tomba ricavata deviando un corso d’acqua vicino a Cosenza è infatti leggenda, così come è improbabile che possa aver raggiunto Rennes-le-Chateau dove lo cercavano i nazisti.
Fu proprio grazie al prefetto Dardanus che il re visigoto Atatulfo, appena succeduto al cognato Alarico, giunto con le sue truppe in Gallia accettò la sottomissione all’imperatore Onofrio, anziché all’usurpatore Giovino. Mentre la rivolta veniva sedata, i Visigoti furono arruolati per combattere i Vandali e gli Alani che stavano invadendo la Spagna e forse fu in quest’occasione che il tesoro venne affidato a Dardanus e nascosto a Theopoli. Ma Ataulfo morì in battaglia, i Visigoti non tornarono in Provenza e il tesoro non fu mai riscattato.
Intanto, alleati dell’imperatore fantoccio Giovino erano i Burgundi, tribù di origini visigote il cui re Gundicaro stabilì di accompagnare l’usurpatore fino alla Gallia del Sud (Provenza) dove si auto-nominò re delle Gallie. Avendo a loro volta accettato la sottomissione al legittimo reggente Onorio, avrebbero ricevuto, come terra in cui insediarsi, la Savoia.
Gundicaro, Gundikar fu il primo re burgundo a fregiarsi del titolo di Nibelungo. È infatti il Gunther della saga dei Nibelunghi, che risale proprio al IV-V secolo ma non sia sa dove ne come sia stata composta. Può essere il tesoro custodito da Dardanus quello favoloso di cui Gunther, nella saga era entrato in possesso dopo aver ucciso Sigfrido?
Certo è che Theopoli non era stata inizialmente scelta per custodire il tesoro, bensì per altri scopi misteriosi e ormai dimenticati. Se qualche traccia rimane forse può essere rinvenuta nel luogo sacro che ancora esiste ai margini del pianoro, proprio sotto il picco.
La cappella di Notre Dame du Dromon è un semplice oratorio seicentesco con grezzi muri di pietra e malta bruna. La struttura non colpisce l’occhio, ma da sempre il luogo è profondamente venerato, come testimoniano le numerose lastre graffite inserite nella muratura esterna, ex voto dei fedeli che furono benedetti dall’intercessione della Vergine.
I veri tesori sono all’interno. Nell’annesso settentrionale sono ancora visibili i resti di un pozzo cerimoniale lastricato, che richiama quello ben più famoso di Chartres. Si racconta che i lavori di sterro per ripristinarlo si siano interrotti dopo che la terra, in quel punto, presa a picconate, si era messa a tremare.
L’interno essenziale della chiesa, a navata unica con abside, mostra ancora le tracce di un’intonacatura artigianale. La cappella annessa sul lato meridionale è spoglia e l’altare ligneo è ormai in rovina, ma la roccia su cui è costruito il luogo affiora in più punti fino a un metro di altezza come se non ci fosse differenza fra la terra e l’edificio costruito dall’uomo. Alcune linee parallele graffite potrebbero essere atti di venerazione prodotti in epoche remote.
Presso l’abside maggiore, c’è l’immancabile sorvegliante, un viso di stucco quasi nascosto in un angolo che ha i lineamenti insoliti di una divinità con il berretto frigio, forse Mitra o Ganimede. Osserva l’altare, con la sua pietra consacrata, che non ha le consuete cinque croci (al centro e sui quattro angoli), bensì X inserite in cerchi e ruotate in modo da indicare i punti equinoziali e solstiziali, chiaro segno di un intento di natura astronomica e astrologica.
Ma la sorpresa più grande si trova in fondo alla scala intagliata nella roccia che scende sotto la pavimentazione. Qui, fuori asse rispetto alla cappella superiore, si apre infatti un’eccezionale cripta, nota già dal X secolo ma riempita di detriti e riscoperta soltanto nel XVII secolo, unica nel suo genere.
Non c’è un altare; al suo posto erompe invece una grande roccia sporgente, come un ventre gravido, quello della dea-terra, della Grande Madre.
La luce del sole entra ad illuminarla soltanto nei giorni del solstizio estivo, all’alba, attraverso la finestrella sul lato opposto, accuratamente orientata. Nello stesso istante l’altra finestra, laterale, inquadra perfettamente il “polo celeste”, l’Orsa Minore, con la Stella Polare.
Tre colonne romaniche reggono la volta stretta e due capitelli sono scolpiti con motivi enigmatici. Uno presenta sui quattro lati volute che si attorcigliano come fossero nodi, l’altro mostra genitali e teste di toro, spighe di grano e due pavoni.
È un luogo antico, da sempre frequentato con devozione, che è passato attraverso le dominazioni, le religioni, gli editti e le distruzioni, conservandosi miracolosamente intatto.
Quando si scende, ci si sente come spaesati, quasi che il tempo perda significato e ci si trovi in un “altrove” che non appartiene a questo mondo. La roccia attrae ogni attenzione, come una divinità assisa sul trono. La chiamano “Pietra della fertilità”, ma è un nome che non rende merito, onore e giustizia a ciò che dimora nel silenzio di quella cripta.
La presenza, nella cappella superiore, della testina identificata con Mitra o Ganimede, per quanto molto posteriore, sembra suggerire che l’ipogeo fosse un luogo di “incubazione”, pratica non soltanto greca, mediorientale e sarda ma anche celtica che, mediante il “sonno” accanto al simulacro della divinità ancestrale, permetteva di riceverne guarigione e messaggi. L’antica grotta potrebbe dunque essere un santuario druidico diventato poi un antro mitraico dove i numerosi legionari del contingente potevano praticare il loro culto.
La cripta di Dromon ha resistito ai millenni. Nonostante l’editto di Teodosio (380 d.C.) e i successivi decreti, che vietavano qualunque forma di culto e perfino l’accesso ai templi pagani, è rimasta gelosamente custodita dai picchi che sovrastano il plateau. Ha attratto fondazioni monastiche e una chiesa è stata eretta su di essa affinché il culto di questo luogo potesse continuare. Tra i suoi muri e ai piedi della roccia sacra ancora dorme il suo sonno il mistero di Dardanus e di Theopoli.
BIBLIOGRAFIA
Roger Correard, Théopolis. Gite Secret Du Lion, Arqa, 200
Aa. Vv., Bulletin de la Société d'études des Hautes-Alpes, Société d'études des Hautes-Alpes, Gap, 1943
Nostra Signora Delle Vite
Notre Dame De Vie a Mougins, tra le alture alle spalle di Cannes, è uno di quei casi per cui non c'é traccia certa di quali e quanti prodigi del répit si siano verificati. Eppure, la dedicazione del santuario è una conseguenza nota di quel particolare rito che qui si svolgeva. Si sa infatti con precisione che, in precedenza, la cappella nota dal 1514 come “Santa Maria” aveva il nome di “Notre Dame de Ville Vielle” (Nostra Signora del vecchio paese) e che esso fu poi modificato in seguito ai fatti prodigiosi della “doppia morte”.
La “moderna” dedicazione “Notre Dame de Vie” (Nostra Signora di Vita), del resto, ben si addice al luogo e al suo ente: “protegge” e custodisce la vita, al punto da salvaguardarla, nei casi estremi del “rito della piuma”, perfino dalla morte. Nella lingua francese, però, “de vie” ha doppia traduzione: “della vita” oppure “delle vite”. È un'ambiguità che non può passare inosservata. Si potrebbe giustificare con l'idea che il “ritorno in vita effimero” dei bambini nati-morti fosse una sorta di “seconda vita”, anche se solo per il tempo di un singolo respiro. Ma la particolare condizione di questi infanti era quella del “nato (già) morto”, morto prima di nascere e quindi “mai nato”, per cui il répit era, di fatto, l'unica occasione di vita. Il termine che designa il “prodigio”, inoltre, è letteralmente traducibile come “sospensione”, con evidente riferimento non alla condizione stessa bensì alla morte. La “doppia morte” (non si parla mai di “doppia nascita”!) era dunque intesa come un temporaneo differimento, una “tregua”, un arresto dello stato di decesso insomma, che veniva poi “ripreso” definitivamente. Per identici motivi il riferimento a molteplici vite non può essere ricondotto neppure a vite diverse intese come quella “terrena” ed effimera provocata dal répit e quella successiva “nello spirito” guadagnata con il conseguente Battesimo.
In considerazione delle origini chiaramente “pagane” e pre-cristiane di questa forma rituale, invece, l'ambigua intitolazione potrebbe essere un rimando ad una concezione ciclica dell'esistenza: “le vite” sarebbero così quella mai iniziata, quelle eventualmente precedenti e quelle future che attendono il bambino. In tal senso, il répit in quanto sospensione, potrebbe non indicare la “soluzione” ma il “problema”. L'arresto sarebbe insomma l'evento che impedisce all'essenza spirituale (“anima”) del bambino di fluire da una vita all'altra. La pratica della doppia morte permetterebbe dunque di risolvere l'infausto ostacolo alla rinascita in una vita futura.
Notre Dame De Vie è certamente un luogo per natura coerente con tale visione, come confermano i ritrovamenti di cippi, lastre tombali gallo-romane e di elementi di reimpiego di un luogo /forse un tempio) precedente, usati per costruire la primitiva cappella (corsi inferiori delle porzioni di muro ritrovate e del campanile) sul colle e sotto la chiesa stessa, a testimonianza della sua lunghissima tradizione spirituale legata alla morte e alla rinascita.
La prima menzione del nuovo nome “popolare” del santuario risale a un documento del 17 Agosto 1656 in cui viene per altro messo in relazione proprio con la pratica dell' “ondoìement”.
Non è noto quanti “infanti” siano stati presentati” al santuario, né quanti di essi abbiano mostrato segni di vita e quindi beneficiato del répit. I lavori di ampliamento della cappella iniziati nel 1655 e che si concludono nello stesso anno e che trasformano la cappella in vera e propria chiesa con un ampio protiro frontale, suggeriscono però un rinnovato interesse per il colle.
Il 05 Maggio del 1669, con l'aggiunta della navata minore settentrionale e del nuovo altare maggiore, monsignor Louis De Bernage si reca nuovamente in visita e annota negli atti alcuni dettagli importanti e che testimoniano la frequentazione assidua del luogo: “...nous sommes acheminés à l'église de Nostre Dame de Ville Vielle vulgairement appellée Nostre Dame de Vie... prés la porte de l'église il y a un couvert, et prés de couvert des tombes où l'on enterre les enfants sans bapteme” (siamo stati condotti alla chiesa di i Nostra Signora dell'Abitato Vecchio, popolarmente detta Nostra Signora delle Vite... vicino alla porta della chiesa c'é una struttura coperta, e accanto alla struttura coperta le tombe dove vengono sepolti i bambini [morti] senza battesimo).
La cappella è dunque diventata “chiesa” e dispone al suo esterno addirittura di una sorta di cimitero per i bambini nati-morti (quelli che non mostravano segni di vita dopo essere stati portati davanti alla Vergine), evidentemente simile a quello di un altro celebre santuario in piena attività all'epoca, quello di Notre Dame de Beauvoir a Moustiers-Sainte-Marie, a un centinaio di chilometri di distanza. La collocazione del cimitero è nota e conosciuta ancora oggi, poiché le sue dimensioni continuarono a crescere fino alla proibizione del rito.
È interessante la menzione, da parte del vescovo di una qualche struttura coperta, diversa dal portico frontale, di cui non specifica l'utilizzo, ma che asserisce si trovasse presso le “tombe degli infanti”. Non è più esistente né si conoscono altre testimonianze, ma la sua collocazione fa pensare che si trattasse di una “recevresse” come quella di Avioth, in Belgio, presso cui venivano, appunto, accolti i cadaveri dei bambini nati-morti in attesa del répit.
Qualcuno asserisce che si trovasse presso la porta di ingresso sulla facciata della chiesa, ma una seconda porta esisteva lungo la parete nord. Le due porte sono già menzionate da monsignor Sdcipion De Villeneuve negli Atti di Visita del 15 Maggio 1634. Pertanto è possibile che la copertura in questione fosse una tettoia bassa all'esterno dell'abside o di fianco ad essa, in modo che gli infanti potessero essere deposti per la preghiera il più vicino possibile alla Vergine, rimanendo tuttavia fuori dalla chiesa.
Non va infatti dimenticato che, dagli albori del Cristianesimo e fino a non molto tempo fa, solo i battezzati erano generalmente ammessi all'interno delle chiese. Questo è uno dei motivi per cui i battisteri erano per lo più edifici separati oppure il fonte battesimale veniva posto di fianco all'ingresso.
Nel caso del répit, tale regola veniva puntualmente aggirata. Tant'è che spesso, negli atti con cui le curie giungevano a vietare la pratica, minacciando addirittura la scomunica, si specificava che era proibito non solo svolgere il rito ma anche di portare i bambini nati morti presso e dentro i santuari dove si credeva che il répit potesse avvenire.
Il 1669 è anche l'anno in cui viene “rivelato” il nome della preziosa reliquia custodita, almeno dal 1688 quando viene per la prima volta menzionata, a Nostra Signora delle Vite. Sono alcuni membri della comunità a fornire l'occasione, quando organizzano la prima “processione” della reliquia dal santuario alla parrocchiale del villaggio, che si trova sul colle accanto.
Così, Nostra Signora di Mougins torna al suo ruolo arcaico di “cappella pellegrina”, alla quale si recavano da secoli in solenne processione penitenziale i Penitenti Bianchi e i Confratelli di San Michele di Grasse, nell'occasione di pestilenze (come nel 1629) e di altri gravi pericoli per la città, circostanza più volte immortalata negli ex-voto. In occasione della traslazione temporanea della reliquia, dunque, ne viene svelata l'identità. Le sante ossa apparterrebbero a una certa “Innocenza”. Si ritiene che possa essere la martire sedicenne riminese uccisa nel 380 d.C. da Diocleziano di passaggio in quella città. Ma è quantomeno curioso che un nome così facilmente riconducibile all'innocenza perduta dei bambini nati-morti, che il répit prometteva di restituire loro, compaia proprio nel momento in cui la frequentazione del santuario, con la speranza di tale grazia, è all'apice.
Di chi possano essere in tal caso i frammenti ossei ancora oggi visibili nel reliquiario è un mistero. Potrebbero forse appartenere al primo nato-morto tornato in vita attraverso il répit a Mougins? Del resto l'unica altra reliquia che il santuario custodisce (dal 1788) è un frammento del braccio di Sant'Onorato di Lérins (Nostra Signora delle Vite era un possedimento della potente abbazia...), i cui resti, traslati a Ganagobie, erano diventati la personificazione del répit con il nome di San Trapasso. Perfino tra i dedicatari degli altari interni del santuario, insieme a Sant'Anna (madre della Vergine), Maria Maddalena e San Giuseppe (aggiunto tardivamente) compare Saint Claude, noto per essere uno dei più venerati intercessori del répit!
Saint Claude e Saint Louis (anch'egli intercessore per la “doppia morte”) sono addirittura ritratti mentre reggono la corona sul capo della Vergine nell'ancora dell'altare maggiore. L'ancona risale al 1669 ed è minuziosamente descritta negli atti di visita vescovili di quell'anno.
E come se non bastasse, è eloquente anche la data scelta per la ricorrenza di Notre Dame De Vie. Come si legge nel Calendrier Historique des Fétes de la Sainte Vierge, redatto dall'abate Orsini, il 27 Gennaio è “celle de Notre-Dame-de-la-Vie à Venasque en Provence qui a soyent rendu la vie aux enfants morts avant le bapteme, afin qu'ils reçussent le sacrement” (quello di Notre-Dame-de-la-Vie a Venasque in Provenza che ha sovente restituito la vita agli infanti morti senza battesimo, affinché questi ricevessero il sacramento). Il 27 Gennaio è il giorno precedente quello dedicato a San Tommaso d'Aquino, che fu forse il primo santo intercessore noto proprio del répit.
Il 1674 segna la separazione definitiva fra rettori della parrocchia di Mougins e quelli del santuario, che si insediano nell'eremo appena costruito sul lato settentrionale della chiesa. La copertura, il cimitero dei bambini e l'altare esterno esistono ancora e sono molto frequentati. Negli anni successivi, infatti, la fiorente casistica di bambini nati-morti tornati brevemente alla vita, attira su Mougins l'attenzione ecclesiastica e le conseguenti reprimende. Nel 1678 il nuovo vescovo di Grasse Louis-Aube de Roquemartine, infatti, fa recapitare l'ordine di distruggere “l'altare fuori dalla cappella”. L'ingiunzione, che non fornisce ulteriori dettagli, conferma però che “qualcosa” si svolgesse all'esterno del santuario, specificando che esisteva addirittura un altare. Forse serviva per le celebrazioni cui accorreva troppa gente per la capacità dell'edificio. Non si può però escludere che, invece, l'altare si trovasse sotto la struttura menzionata dal precedente vescovo, allo scopo di “esporre” i fanciulli in attesa del répit.
Quasi certamente l'ordine viene ignorato e trasgredito. Il rettore, fratello Jacques, eremita del santuario e un certo Estève Martin, carpentiere, di origini genovesi nel 1709 vengono sepolti all'interno della chiesa. Lo stesso onore verrà concesso a partire dal 1714 infatti a tre bambini dell'età di 7, 8, e 3 anni, tutti rampolli della famiglia Flour, una delle più in vista del paese e tra i “benefattori” del santuario”.
Negli stessi anni, intanto, prodigi del répit cominciano a verificarsi in altri santuari e chiese dell'oriente provenzale: presso le reliquie di Santa Roselina a Les Arcs, ai piedi della statua di Notre-Dame-de-la-Roquette (detta anche Notre-Dame-du-Spasme o Notre-Dame-des-Œufs) a Le Muy alla Chapelle Notre-Dame-des-Anges di Lurs. Un caso si verifica perfino all'interno della chiesa parrocchiale di Tourettes Sur Loup, appena fuori Grasse, di cui esiste testimonianza scritta: “Gasparde Agarde, femme de Germain s'etant accouché d'un enfant mort, et l'ayant recommandé au glorieux st Fauste, et porté dans l'éeglise et mis devant la ste relique, il a donné beaucoup de signes de vie, ce qu'ayant veu moy mesme, l'ay baptisé en présence du sir Giraud, mon curé, de Lucresse de Grimaldy, dame du Caire et de la sage femme. Signé Decormi, vicaire” (Gasparde Agarde, moglie di Germaine ha fatto venire alla luce un bambino morto e l'ha affidato al glorioso Saint Fauste, e portato nella chiesa e deposto davanti alla santa reliquia, ha mostrato molti segni di vita, tali che, dopo averli visti io medesimo, l'ho battezzato in presenza di Sir Giraud, il mio curato, di Lucrezia di Grimaldy signora di Caire e della levatrice. Firmato Decormi, vicario).
Una nuova ingiunzione, tremenda e definitiva viene inclusa negli Atti di Visita del 1730 (manoscritto G57, Archivio Dipartimentale delle Alpi Marittime) dal nuovo vescovo Charles Léonce D'Anthelmy che immediatamente recipisce il divieto promulgato l'anno precedente dalla Santa Sede. Ironia della sorte, il prelato ha per cognome un altro noto intercessore del répit, Sant'Antelmo.
Le sue dure parole sortiscono l'effetto desiderato e il santuario comincia il suo inesorabile declino: “Sur l'avis qui nous a été donné qu'on portait de differents endroits du diocèse et d'ailleurs les corps des enfants morts qui n'avaient pas reçu le baptéme dans la chapelle Notre Dame dans la confiance qui pourraient recouvrer la vie et recevoir, à l'occasion del quelque signe équivoque qu'ils donnèraient, le sacrement de bapteme, nous déclarons qu'encore que l'on ne piosse pas avoir trop de confiance en la puissante intercession de la Sainte Vierge auprès de Dieu nous ne saurions autorizer un tel usage qui nous parait plutot un abus que le fruit d'un culte religieux et réglé envers la Mère de Dieu. Nous défendons en conséquence au prétre qui dessert cette chapelle et de célébrer en présence la sainte Messe ordonnant que la masure qui est hors du portique ou halle et où les enfants morts sans bapteme étaient mis ici devant sera abattue et rasée, permettant néanmoins aux marguilliers de ladite chapelle d'assigner une place gors d'i celle pour y mettre les corps des enfants morts sans bapteme qui sera fermée à clef et la clef gradée par le pretre de la chapelle auquel nous défendons expressément de l'ouvrir pour y mettre corps de petit enfant étranger sans étre assuré par un billet du curé du lieu du nom du père ou de la mère à qui l'enfant appartient, dont il tiendra lui-meme mémoire et nous en donnera avis pour prévenir toute sort d'abus et pourvoir aux inconvénients” (Su segnalazione che ci è stata data secondo la quale vengono qui portati da diversi luoghi della diocesi e da altri i corpi dei bambini morti che non hanno ricevuto battesimo nella cappella di Notre Dame nella convinzione che possano recuperare la vita e ricevere, all'occasione del manifestarsi di qualche segno equivoco, il sacramento del battesimo, noi dichiariamo che non abbiamo troppa fiducia in tale potente intercessione della Vergine Maria presso Dio, né possiamo autorizzare una tale pratica che ci sembra un abuso più che il frutto il frutto di un culto religioso e regolato alla Madre di Dio. Diffidiamo di conseguenza il prete che serve la cappella e di celebrare al presente la Santa Messa, ordinando che la mensa che si trova fuori dal portico coperto e presso la quale i bambini morti senza battesimo vengono deposti, sia abbattuta e spianata, né permettiamo ai consiglieri di detta cappella di affittare il posto fuori da essa per mettere i corpi dei bambini morti senza battesimo, che sarà chiuso a chiave e la chiave custodita dal sacerdote della cappella, al quale noi vietiamo espressamente di aprirla per mettere il corpo di bambino estraneo senza essere assicurato con una nota del parroco del luogo del nome del padre o della madre a cui il bambino appartiene, di cui egli stesso terrà documentazione e ci darà comunicazione per evitare qualsiasi tipo di abuso e prevenire inconvenienti).
Tra il 1761 e il 1764 anche l'usanza dei pellegrinaggi a Nostra Signora delle Vite, si conclude e il santuario declina. Ma il répit, probabilmente, viene ancora praticato. Un solo ex-voto presente fra le sue mura e che risale forse al XVII secolo, è stato riconosciuto chiaramente come ringraziamento per un répit avvenuto. Ritrae una madre e un figlio in fasce, uno accanto all'altra, che sporgono dalle lenzuola in un grande letto. Il padre in atteggiamento di preghiera è ai piedi. Su tutto domina la Vergine.
Ma ci sono almeno altri due quadretti che mostrano elementi inequivocabilmente riconducibili alla “doppia morte”. In uno, racchiuso da una cornice tonda, ci sono una madre e una bambino in fasce in primo piano vicino a una culla, un angelo con qualcosa che parrebbe una piuma alle loro spalle e in alto, nel terzo e più profondo piano compositivo, la Vergine.
L'altro, in certo modo inquietante, mostra invece un bambino in fasce deposto in una culla avvolta dalle fiamme. Non è difficile riconoscere nelle lingue di fuoco quelle dell'inferno, quindi della condanna al limbo (che anche Dante aveva collocato negli inferi), evidentemente scongiurata.
I due ex-voto sono chiaramente “tardi” e il secondo riporta una data precisa, il 1852 che mostra come, più di un secolo dopo l'interdizione del rito, il répit ancora si svolgesse a Notre Dame De Vie, probabilmente in clandestinità.
La riscoperta del santuario avvenne soltanto negli anni '30, quando la famiglia Guinness (i celebri produttori irlandesi di birra), proprietaria dei terreni circostanti il complesso (tra cui anche l'area dove si trovava il cimitero e il giardino dietro l'abside), decise di rendere nuovamente fruibile la collina. In seguito al decesso della moglie di Benjamin Seymour Guinness nel 1931 e alla volontà di tumularla in una nuova tomba costruita accanto al santuario, i corpicini dei nati morti furono tutti esumati e raccolti nell'ossario interrato sul lato nord. Su di esso fu posta una lastra che recita: “ici reposent des petits innocents morts dés leur naissance”, letteralmente “qui riposano i piccoli innocenti morti nella loro nascita”.
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BIBLIOGRAFIA
Aa. Vv., Autur de notre-Dame de Vie – Actes de la journée d'études du 26 novembre 2011, Société Scientifique et Littéraire de Cannes, Cannes, 2013
Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène, Tourrettes sur Loup au XVIII siécle. Héresie et scandale au village, Editions Serre, Nice, 2009
Gélis , Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006
Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
I segni del ritorno in vita “per il tempo di un respiro”
Gli archivi parrocchiali di Moustier-Sainte-Marie, dove si trova uno dei più prolifici “santuari a répit” conosciuti, custodiscono una documentazione preziosa, vasta e unica nel suo genere circa gli eventi prodigiosi accaduti tra il 1666 e il 1673.
In quegli anni furono attentamente censiti 336 casi di “ritorno effimero in vita” di infanti nati-morti, per intercessione di Notre Dame de Beauvoir. Portati cadaveri al luogo sacro, anche da molto lontano, a volte disseppelliti dopo essere già stati sepolti, mostravano inequivocabili segni e segnali della ritrovata vita “per il tempo di un solo respiro” e potevano perciò essere battezzati, sfuggendo così alla “sospensione” nel Limbo.
Nel periodo in cui i prodigi si verificarono, sotto la giuda del curato Felix ogni caso fu minuziosamente valutato di persona da medici, avvocati, notai e personalità di alto livello e credibilità e fu poi catalogato in ogni suo aspetto e manifestazione. Il risultato costituisce una testimonianza eccezionale di ciò che davvero accadde.
Ex-Voto per avvenuto répit, per azione di un angelo che regge la piuma, dietro intercessione della Vergine
Quelle che seguono sono le “manifestazioni di vitalità” che furono registrate nel 1669.
Per quanto possano sembrare a tratti curiose e pittoresche oppure macabre e fastidiose, queste descrizioni sono in verità espressioni di gioia, meraviglia e inquietudine profonda di fronte quel mistero inconcepibile che è la vita.
Cambiamenti di colore:
-Ha cambiato il colorito rossastro in uno bianco, vivace e naturale.
-Ha cambiato il colorito pallido tre o quattro volte in uno vivido e meraviglioso.
Sudorazioni:
-Ha essudato dal lato destro. [del corpo]
-Ha essudato davanti allo stomaco.
-Ha sudato goccia a goccia su tutto il viso.
-Ha sudato da tutta la testa, gocce che erano grandi come perle, che sono rotolate fino ai panni. [i tessuti su cui il corpicino era disteso]
-Osservando il braccio sinistro [si è vista] una goccia d'acqua grande quanto un pisello di Verdun.
Lacrimazioni:
-Ha prodotto una lacrima da ciascun occhio.
-Ha aperto l'occhio destro, ha lacrimato dal sinistro.
Salivazione:
-Ha emesso della saliva dalla bocca che era stata molto secca in precedenza.
-Ha aperto la bocca umettata di saliva che è colata sul mento.
-Ha emesso saliva da entrambi i lati della bocca.
Sangue:
-L'ombelico ha versato copiosamente sangue bello e altrettanto la narice sinistra che ha colato fin sullo stomaco.
-Ha emesso una lacrima di sangue dall'occhio destro.
-Ha emesso due o tre gocce di sangue bello e vermiglio dalla coscia destra, senza che ci fosse in precedenza alcuna ferita.
-Ha fatto una goccia di sangue grossa come un grano del Rosario dietro l'orecchio, senza che ci fosse in precedenza alcuna ferita.
Bocca:
-Ha chiuso la bocca che in precedenza era aperta.
-Ha disteso la lingua sulle labbra umide di saliva forte e fresca.
-Ha mosso visibilmente [contratto, rimescolato] quattro o cinque volte la lingua.
Movimenti:
-Ha scosso [ruotato] la testa da un lato all'altro visibilmente.
-Ha scosso visibilmente il braccio destro.
-Ha disteso un dito della mani destra che era contratto.
-Ha disteso il pollice e l'indice della mano destra.
-Ha piegato le dita del piede destro che erano distese.
-Ha separato i due talloni che erano attaccati.
Effusioni:
-Ha prodotto deiezioni in abbondanza.
-Ha Urinato e prodotto deiezioni.
Gonfiore:
-Ha gonfiato il piccolo ventre.
-Ha gonfiato il suo corpo e particolarmente l'ombelico che era secco e arido in precedenza.
-Ha riempito le guance che erano svuotate in precedenza... e ha gonfiato tutto il corpo.
-Ha gonfiato il suo viso che in precedenza era scarno.
Palpitazioni:
-Ha pulsato tre o quattro volte sensibilmente al cervello.
-Ha pulsato sensibilmente al cervello e al fianco destro.
Gli studiosi da sempre si sono confrontati sulla realtà o meno degli accadimenti descritti nei répit. Spesso le manifestazioni di vita sono state intese come mere “illusioni”, fenomeni di “isteria collettiva”, di “credulità popolare” o più semplicemente come conseguenze casuali della particolare atmosfera che si creava intorno ai bambini durante la pratica rituale.
Le accurate testimonianze di Moustier-Sainte-Marie lasciano invece trasparire una possibile verità ben diversa. Sorprendentemente, infatti, tutti i "segni" descritti (sudorazioni ed effusioni, gonfiori, sanguinamenti localizzati, lacrimazioni e ripresa di colore) sono riconducibili con caratteristica precisione, secondo i principi di medicina dell'antica Cina, all'attività, armonica o meno, di uno dei dodici “meridiani” principali lungo i quali il Qi (l'energia vitale) fluisce nel corpo umano.
I segni descritti sono facilmente riconducibili a indicatori “visibili” della ripresa di una qualche funzionalità, almeno provvisoria e momentanea, del meridiano “Triplice riscaldatore” (il fuoco che anima il corpo). Difficile che il flebile calore delle candele, l'alito dei presenti e il clima di raccoglimento possano aver scatenato il manifestarsi di tali “segnali” nella notevolissima quantità e varietà di casi venuti alla luce in Italia, Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, Belgio, Spagna.
Qualunque fosse la causa, ciò che accadeva era forse più “umano” e terreno di quanto si credesse, ma non era, probabilmente, frutto soltanto della “fantasia” dei presenti.
La roccia, i cavalieri, il répit
L'ARGENTIÈRE: UNA COMMENDA GIOVANNITA TRA I VALDESI E LA DOPPIA-MORTE
Alla confluenza delle valli della Durance, della Vallouise e del torrente Fornel, nell'alta Provenza alpina, esiste, almeno dall'anno mille, una ricca miniera di piombo argentifero (oggi dismessa).
Quando nel XII secolo era stata data in concessione al Delfinato, a protezione della stessa, che si apriva nelle pareti scoscese della gola del Fornel, era stato innalzato, all'imbocco della vallata, un poderoso castello, dal quale sorvegliare il “tesoro” della montagna e insieme presidiare il prezioso punto strategico sulla diramazione della via Francigena detta Via Alta. La strada, dalla Pianura Padana, attraverso il Monginevro raggiungeva Aix e Marsiglia, sul tracciato dell'antica via romana Domizia, chiamata Cottia per Alpem in questo tratto. Da qui era passato anche Annibale.
Ma L'Argentière nascondeva di certo anche altri motivi di interesse, meno noti. Tant'è che, fin dal 1183, avevano trovato rifugio, nel villaggio e nei dintorni, i valdesi, dopo la scomunica pronunciata nei loro confronti durante il Concilio di Verona (1184). Inoltre, ai piedi della fortificazione, vicino al punto in cui il tumultuoso Fornel si gettava nella Durance, c'era un luogo sacro molto antico che ancora resisteva, con le sue tradizioni, alla Sacra Religione. Non era che una grande pietra di origine glaciale, con la sommità piuttosto piatta, presso la quale, presumibilmente si celebravano quei culti di vita e di vitalità che oggi riduciamo offensivamente all'idea dei “massi della fertilità”.
In epoca imprecisata, sulla roccia era stato eretto un edificio cristiano, forse una semplice cappella votiva o un piccolo oratorio. Sei gradini intagliati nella pietra viva, consentivano da tempo immemore di salire fino alla sommità dello sperone, sul lato orientale. Si ritiene che questa curiosa caratteristica sia all'origine del nome dato al luogo, “Gradis Caroli”, “i gradini di Carlo”, forse un riferimento simbolico al “primo imperatore” Carlo Magno e allo scranno della sua incoronazione in San Pietro, oppure (più difficilmente) a Carlo I conte di Fiandra, noto per la sua premura e generosità nei confronti dei bisognosi. Più probabilmente, però, “Carolo” potrebbe essere la corruzione latino-cristiana del nome dell'antico nume tutelare locale “Carrus”, la divinizzazione della “montagna”, che i Romani riconducevano a uno dei numerosi aspetti del dio Marte. Più precisamente, Carrus era il fuoco marziale” del sole, il fuoco della creazione stessa, “coagulato” nella roccia delle montagne.
Intorno al 1208 i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni al comando di Guillaume de Faudon, insediati proprio presso quella roccia, fecero innalzare sul luogo da mastri costruttori italiani (Magistri Comacines) un nuovo edificio sacro (16,40 m di lunghezza per 7,70 di larghezza), in un austero stile romanico e un ospitale. La piccola commenda, fuori dalle mura fortificate e di difficile difesa, prese il nome di “preceptoria Saneti Johannis de Gradibus Caroli”.
La chiesa, in pietra brunita, si eleva dalla viva roccia, sul bordo orientale. È orientata verso il sorgere visibile del sole equinoziale a Est ed è dotata di un piccolo campanile a vela posto centralmente sopra l'abside. Le sei mensole scolpite, che reggono gli archi accoppiati di ciascuna ripartizione absidale, ripetono per ciascun arco la testa di un toro, ma con un diverso elemento di contrappunto: un drago cornuto, un viso umano con estremità appuntite simili a corna, una terza “testina” cilindrica ormai consunta che potrebbe di nuovo essere un toro.
La simbologia complessiva, con i riferimenti al Sole “marziale” (testa umana dotata di corna), alla Luna (drago) e ad un terzo astro, Venere (in astrologia pianeta “maestro” della costellazione del Toro e tramite fra la Luna e il Sole) e la ripetizione delle “corna” quale costante di tutto l'insieme, è un potente richiamo al sacrificio di ogni parte di sé quale atto necessario alla “rinascita spirituale” a nuova vita. I segni lasciati dai costruttori sono così, verosimilmente, una rinnovata codificazione del valore spirituale della roccia in cui furono intagliati i gradini.
Chi ancora oggi si sofferma presso questo luogo non può, infatti, non notare la croce incisa profondamente nei mattoni bruni alla base esterna dell'abside, non esattamente in asse con il centro dell'emiciclo, ma proprio in corrispondenza con la scala scolpita. La particolare posizione fu scelta, con tutta probabilità per indicare il corrispondente punto della roccia sottostante, ma fu ovviamente realizzata dopo la costruzione della chiesa ed è contornata da altre due croci, più piccole e meno visibili, realizzate successivamente.
L'inevitabile conclusione è che la tradizione originaria e più antica del luogo si sia dunque mantenuta anche dopo l'arrivo dei Cavalieri giovanniti. L'ordine ospitaliero, non entrando in dispute teologiche e spirituali, ma prendendosi semplicemente cura dei viandanti e dei bisognosi e rispettandone le convinzioni, senza distinzioni religiose, razziali o politiche, mantenne in tal modo viva, la pratica rituale esistente.
La natura di tale usanza è riemersa inaspettatamente grazie ai recenti scavi archeologici (1999-2005). Sono state rinvenute tutt'intorno all'edificio, sepolture riconducibili ad almeno tre diverse fasi di utilizzo. Un gruppo di fosse rupestri sul lato sud dello sperone roccioso, vicino alla chiesa, ha restituito resti umani di sesso maschile, che potrebbero essere quelli dei Giovanniti responsabili della commenda.
La maggior parte delle fosse, invece, scavate nella roccia in forma di “loggette” antropomorfe e appartenenti a maschi e femmine di diverse età, è databile almeno al XI secolo. Tra queste le sepolture più stupefacenti sono quelle rinvenute in una zona più appartata, lungo il bordo tra sud e est, contenenti le membra (di incerta datazione) di almeno tre bambini prematuri, nati-morti (per lo più tra l'ottavo mese e il parto), inumati nella nuda terra. I corpi sono stati ritrovati proprio ai piedi della “scala” intagliata” nella roccia. Tali sepolture sono il segno inequivocabile di una tradizione ancestrale di “affidamento” degli sfortunati infanti alla “roccia sacra” che è riconducibile al fenomeno millenario del répit.
Saint Jean di L'Argentière, dunque, non solo si trovava su una trafficata via di pellegrinaggio, ma era evidentemente esso stesso un santuario, molto antico, al quale si ricorreva per ottenere il “ritorno effimero in vita” dei bambini “morti durante la nascita”, per il tempo di un solo respiro.
I minuscoli cadaveri, dopo il lungo viaggio, venivano portati a braccia su per i gradini dalle madri che li salivano uno alla volta “ondeggiando” a destra e sinistra. La scala è infatti realizzata con superfici e pendenze che impongono, appunto, di spostarsi secondo una certa cadenza, così come accade quando ci si trova sul ponte di una barca scossa dalle onde. Giunti all'ultimo gradino venivano deposti sulla sommità della roccia nuda (più tardi proprio sotto la croce) affinché Carrus/Marte-Sole, “maestro” dell'Ariete, il segno della rinascita all'inizio della Primavera, concedesse quell'ultimo sospiro.
Non a caso il “battesimo sub condicione”, che era lo scopo finale del répit nella sua forma cristianizzata, era chiamato anche “ondoiemént”, ondeggiamento, proprio per ricordare la somiglianza simbolica dello stato “sospeso” del nato-morto (il limbo) che non può trovare pace, con il “mare in tempesta” per il quale unico sollievo è il “porto sicuro” del Battesimo (ben rappresentato dalla dedicazione del luogo a San Giovanni Battista).
Determinante era poi il “sacrificio necessario” (quello del toro, ripetuto in ben tre delle sei mensole d'arco absidali) rappresentato dal pellegrinaggio stesso, lo sforzo consapevole senza il quale il prodigio non si sarebbe potuto compiere.
La prosecuzione dell'usanza rituale, conservata e mantenuta anche dai Cavalieri di San Giovanni, nonostante la forte avversione della Chiesa, è testimoniata da almeno altre 25 sepolture di fanciulli di età variabile (non solo prematuri) più discoste dalla roccia e databili al XVI secolo grazie anche al rinvenimento, in una di esse, di due monete effigiate con il duca Carlo II di Savoia) e di alcune ceramiche dipinte.
Non sono noti documenti comprovanti la pratica del répit a L'Argentiére. L'unico accenno potrebbe essere quello contenuto negli atti del processo a Chaterine Charbonelle, originaria di Val des Prés, condannata per stregoneria nel 1445, in cui la stessa “strega” testimonia di aver incontrato il diavolo mentre si recava in pellegrinaggio a San Giovanni di L'Argentiere insieme ai suoi bambini.
Le parole dell'imputata contengono almeno due elementi interessanti. La donna afferma di essersi recata a L'Argentière “in pellegrinaggio”, quindi con l'intento di ottenere presso la chiesa di Saint Jean una qualche grazia. Specifica inoltre, senza alcuna necessità, di averlo compiuto “insieme ai suoi bambini”. Potrebbero essere sibilline indicazioni del fatto di aver preso parte al répit? I bambini citati erano realmente i suoi figli, oppure si riferiva ad alcuni “nati-morti” di cui si era presa cura in quanto forse era una levatrice (come gran parte delle “streghe” perseguite dagli inquisitori)?
L'elemento più sorprendente, poi, è l'incontro che avrebbe avuto, presso il santuario, con il diavolo in persona! Era davvero il demone degli inferi quello con cui si era intrattenuta o un qualche altro ente ritenuto “diabolico” da Santa Romana Chiesa? In effetti, come detto, la testina umana cornuta posta come mensola d'arco all'esterno dell'abside maggiore di San Giovanni, potrebbe davvero essere descritta come un'immagine diabolica. Ciò si rivelerebbe, per altro, assai coerente con la partecipazione al “pellegrinaggio del répit” e alla presenza di certi bambini. Del resto, il “dio delle streghe”, identificato proprio con Satana, era un dio cornuto, il misterioso Cernunno.
Non esistono allo stato attuale elementi sicuri per confermare o meno tale ipotesi. La precettoria di San Giovanni De Gradibus Caroli rappresenta comunque un caso unico nel suo genere, quello di un santuario ancestrale sostituito da un primo edificio cristiano e successivamente dalla chiesa ospitaliera, presso il quale continuò a perpetuarsi lo stesso rituale e di cui la roccia continuò a essere l'intercessore.
La sua importanza spiega di certo anche la presenza a L'Argentière di ben due ospitali, quello giovannita già citato e quello indicato in alcune fonti come “Saint-Sépulcre-de-la-Pierre-Sainte”, esistente fin dal 1264, quando ne era precettore Pierre de la Blache, passato poi in gestione alle monache di Boscodon con il nome di “Hôpital Sainte-Marie de Boscodon de la Pierre Sainte”.
La “Pietra Santa” indicata nell'intitolazione è, di nuovo, la roccia su cui sorge la Chiesa di Saint Jean e ha fatto ipotizzare, in un primo momento, che l'ospitale delle monache fosse quello giovannita anziché una struttura distinta, ipotesi che oggi è stata abbandonata.
Le due istituzioni, ben distinte, erano probabilmente necessarie per gestire non solo l'afflusso dei viandanti di passaggio ma anche e soprattutto quello dei pellegrini in visita al santuario. Ancora nel 1501 il notaio di Gap François Farel constatava in forma scritta, essendosi recato a L'Argentière per seguire certi affari della commenda, che erano almeno duemila le persone provenienti dalle vallate vicine a portare candele accese nella chiesa ospitaliera, in onore di San Giovanni, nei giorni della sua ricorrenza.
Meno di cinquanta anni più tardi, però, soltanto uno dei diciotto “testamenti di Cervières”, contenenti una richiesta di pellegrinaggio, quello di Jean De Borrel, datato 17 Aprile 1523, menziona la cappella di Saint Jean a L'Argentière: la fama del luogo si è spenta.
Intorno al 1380-90, a poche decine di chilometri, sono giunte al Priorato di Ganagobie le preziose reliquie di Sant'Onorato, qui traslate da Lerìns per preservarle dagli invasori Saraceni. Sistemate sul ballatoio sospeso sopra il portale d'ingresso della chiesa abbaziale e protette da un enigmatico “transitus” (scultura cadaverica sul coperchio del sarcofago), hanno cominciato ad attrarre fedeli e curiosi. Tra i prodigi che elargiscono c'é quello di ridare la vita ai bimbi nati-morti per il tempo di un respiro.
Carrus/Marte ha ora il corpo mortale di un santo cristiano e un nuovo luogo riservato alla sua adorazione...
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BIBLIOGRAFIA
P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883
J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière. Paris, Picard, 1883
S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008
G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974
F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
Il silenzio degli Dei
Fino a quando gli animali
avranno da mangiare
e tutti i ruscelli
potranno cantare
saremo gli amanti
della nostra Madre Terra
le foreste ci proteggeranno
l’inverno.
L’amore è così sacro
come l’acqua e la terra
gli uomini e i fiori
sono fratelli e sorelle.
Una legge ci unisce
è il cosmo che vive
armonia dei colori
pace nel mio cuore.
(Jacqueline Fassero)
Quella parete, lassù nella valle, con le sue strane pitture, i suoi fantasmagorici simboli e la sua sconosciuta antichissima sapienza, non smette mai di chiamare. Ci capiti una volta - non ti han detto dov'é, perché è proibito raggiungerla, ma la determinazione ti ha portato fino a lei – e non la lasci più. Non ne parli, pensi ad altro, hai una vita da vivere, eppure nel mezzo della notte, nel più profondo silenzio, la ritrovi.
I segni che pregò i tuoi antenati di realizzare, nascosti all'uomo per millenni, estreme suppliche rivolte all'uomo cieco e sordo di un futuro lontano, ora si sono rivelati. Il tempo stringe. La valle materna che in tutti questi eoni ha sopportato e retto ogni angheria affinché l'essere umano, pur immeritevole, potesse prosperare fra le sue braccia, è allo stremo delle forze.
Le rocce da cui la vita stillava e quelle in cui la vita si raccoglieva, giacciono sotto cumuli d'immondizie, abbandonate e offese dall'incuria. Non è vendetta quella che pende sul nostro capo, è il male che noi ogni giorno, unici re e imperatori delle nostre scelte, abilmente ci procuriamo.
Non contano le parole e i concetti che furono scritti, conta che sono stati scritti “a chiare lettere” per essere letti nel più buio dei tempi... il nostro. Meglio sarebbe stato se quella parete non fosse mai tornata a parlare.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)
Quella parete, lassù nella valle, è nata con la valle stessa, da sconvolgimenti geologici e “placche” impegnate in epici scontri, quando la terra era ancora un ammasso rovente, le cui ferite sarebbero poi state curate dal silenzio e dalle pia vegetazione che presto sarebbe cresciuta sulla roccia.
Lì e solo lì, come è stato scritto nel libro della creazione, schematiche linee di un rosso ocra e forme pure disegnate da mani “bambine” non avrebbero patito le intemperie e l'usura del tempo. Lì, proprio lì, furono vergate. Fu un gran lavoro e non fu una mano sola. S'intuisce e si vede, se si ha l'occhio accorto. Pressione, direzione, dimensione raccontano di un gruppo, di un insieme scelto che lavorò come un sol corpo.
Erano uomini quei favolosi artisti? O forse erano donne? Da dove venivano? È scritto con il colore del fuoco in quelle stesse pitture.
Grotta di Pech Merle
Ci sono forse immagini di guerra? Ci sono forse titani dalle spade affilate o temibili guerrieri?
Ci sono cacciatori impavidi impegnati a uccidere enormi animali feroci?
Io non ne vedo.
Ci sono alberi da frutto? Campi da dissodare? Giardini ricolmi di delizie?
Io non ne vedo.
E non vedo neppure asettici “oranti in preghiera”, innocui “meandriformi” e “recinti” che non recintano nulla.
Ciò che vedo è una grande storia, l'epopea della vita raccontata dalla sorgente da cui la vita sgorgò. Vedo una storia che non insegnano sui libri di scuola, vedo il racconto di un'età dell'oro di cui non abbiamo quasi ricordo.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)
Ci hanno insegnato che le terre europee, dall'ultima glaciazione fino al nascere dei primi grandi imperi e anche oltre, fra il 10.000 a.C e il 2.000 a.C. erano il rifugio di sparuti gruppi di cacciatori/raccoglitori, trogloditi capaci al più di sopravvivere, tra cui si muovevano orde d'invasori giunti da ogni dove, svelti ad andarsene così com'erano venuti.
Ma in quell'oscuro periodo, incastrato fra le glaciazioni, tra l'alba dell'uomo e l'Età del Ferro, gli esseri umani crearono civiltà sempre più raffinate, che non fabbricavano né usavano armi. Erano società pacifiche, stanziate presso i fiumi e i torrenti, nelle valli verdeggianti, in cui il maschio e la femmina incarnavano ciascuno il proprio scopo naturale in armonia. Non si riscontrano distinzioni nelle sepolture, né nel rango sociale.
Madre Terra era il loro nume tutelare e il loro cervello bicamerale poteva udirne la voce amorevole, così come tutte quelle degli spiriti di natura. Nel suo abbraccio e nella sua ciclicità, ampiamente rappresentata nelle incomprese “veneri paleolitiche”, trovavano tutto ciò di cui avevano bisogno, cibo e risposte, forma ritmo e direzione in ogni cosa e per ogni cosa.
Dalla Siberia, a Malta, ai monti Cantabrici, fiorì la grandiosa e libera civiltà “gilanica”, in tutte le sue splendide particolarità locali e regionali. Catal Huyuk, Hacilar, Gobekli Tepe, la Balma dei Cervi antigoriana, sono soltanto alcuni degli antichi centri abitati intorno a cui l'umanità matri-patriarcale prosperò per molto tempo.
Lucas Cranach - Il Paradiso in terra
Poi qualcosa, nel cervello dell'uomo, cominciò a mutare. Qualcuno prese a dubitare delle voci della terra, alcune cominciarono a sembrare migliori, più autoritarie delle altre. Nella grande battaglia interiore che ne scaturì, l'emisfero maschile ebbe la meglio.
I primi uomini in cui il cervello femminile era stato ridotto al silenzio, furono i Kurgan, i mitici “popoli indoeuropei” che, dalle steppe centro-asiatiche, scesero verso l'Europa e il mediterraneo nel V millennio a.C. per portare la “civiltà”.
I resti dei loro tumuli sepolcrali sono venuti alla luce negli anni Novanta del XX secolo, proprio nell'area del bacino del Volga dal quale erano partiti tanto tempo prima.
Così come la Dea taceva nelle loro teste, così avrebbe taciuto nei templi, nelle città, nelle grotte e presso le fonti. Urlando tutta la loro rabbia, scuotendo terribilmente i loro corpi e battendo sugli scudi scesero fino al Mediterraneo e la costrinsero al silenzio.
Furono loro a portare la guerra che l'Europa non conosceva, furono loro ad accentrare il potere in grandi città fortificate, furono loro a dichiarare maschio l'unico, feroce dio supremo e a farsene profeti ed esecutori. Così fu espugnata Troia e passati per la spada tutti i suoi occupanti. Atlantide bruciava. Il paradiso in terra era perduto.
Le Rovine di Atlantide - da Ventimila Leghe Sotto i Mari (ed. Hezel)
I grandi santuari megalitici furono dimenticati o diventarono improbabili fortezze, il sangue cominciò a scorrere tingendo i fiumi di riflessi purpurei e il timore di essere assaliti spinse perfino i morti a portarsi una spada nella tomba.
Grandi imperi si imposero sui pacifici gilanici. La sapienza diventò potere e il potere logorò l'animo umano. La Terra guardava in silenzio l'uomo compiere le proprie scelte e costruirsi da solo la sua rovina. La Terra non sarebbe perita, non erano che piccoli fastidi sulla sua immensa pelle. Ma nell'immane misericordia che custodiva nel proprio grembo, la Dea soffriva per l'uomo. La Balma fu forse un incompreso atto di amorevole pietà.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (originale nel riquadro piccolo)
Se è vero che furono donne le ultime a sentire ancora le voci della Terra, assise sui loro scranni dentro gli antri sibillini più bui e profondi, non saranno state (anche) loro le mani che l'hanno dipinta?
Dita scelte, di uomini e di donne hanno tracciato quei segni, affinché vi infondessero struttura e funzione secondo natura.
Poi il silenzio.
Fino a oggi.
La riscoperta della civilità “gilanica” paneuropea nel XX secolo è opera dell'archeomitologa lituana Maria Gimbutas. Dopo aver postulato l'esistenza di una forma di aggregazione sociale matriarcale e patriarcale insieme, pacifica e ugualitaria, precedente le prime grandi civiltà, ne rinviene le tracce durante le lunghe campagne di scavo che svolge tra gli anni 70 e gli anni 90.
Megaliti, grotte dipinte, “veneri” paleolitiche, massi coppellati, petroglifi, i grandi insediamenti dell'anatolia non sono altro che i resti di questa perduta “età dell'oro”.
Il suo lavoro viene poi ripreso e ampliato a partire dagli anni 90 dalla scrittrice e divulgatrice statunitense Riane Esler e dall'archeologo James Patrick Mallory.
Intanto i lavori di Erich Fromm e soprattutto di Julian Jaynes in campo psicologico, rivelano la fondamentale modificazione morfologica del cervello umano antico che avrebbe portato alla fine di tali società pacifiche, a vantaggio dell'ordinamento patriarcale, che domina ancora il mondo moderno.
Come disse la stessa Maria Gimbutas: “La base di ogni civiltà risiede nel suo livello di creazioni artistiche, di conquiste estetiche, di valori non materiali e di libertà, che danno significato, valore e gioia alla vita per tutti i suoi cittadini, così come un equilibrio di potere tra i due sessi”.
La Balma fu dipinta quale ultima possibilità per l'uomo di ritrovarsi e ritrovare la Terra, quando nient'altro avrebbe più potuto convincerlo...
BIBLIOGRAFIA
Maria Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Venexia, Roma, 2012
Maria Gimbutas, Le civiltà della Dea, Le civette, Viterbo, 2012
Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano, 2008
Riane Esler, Il piacere è sacro, Frassinelli, Milano, 1995
Riane Eisler, Il calice e la spada. La nascita del predominio maschile (1987), Pratiche Editrice, Parma, 1996
Anna De Nardis (a cura di), Momolina Marconi: Da Circe a Morgana, Venexia, Roma, 2009
Luciana Percovich, Colei che dà la vita. Colei che dà la forma, Venexia, Roma, 2009
Il fiato del piccolo re
Chi è il re dei draghi, l'origine di tutti i serpenti? Qual'é il “principio” che li rende ciò che sono? Non è forse il fuoco che cova nel loro ventre ed erompe come fiato ardente dalle loro bocche? Non è forse la fiamma che arde nelle loro pupille e si sprigiona come saetta dai loro occhi?
Il fuoco, che distrugge e distruggendo purifica, nasce dalle profondità della terra per salire come fiamma fino al cielo. Era il fuoco puro che, se non controllato, strisciava fra le messi nei periodi di canicola, provocandone una crescita troppo veloce e il formarsi della “ruggine del grano” che guastava i raccolti.
Già i Romani e altri popoli prima di loro per scongiurarne la devastazione, usavano praticare i riti detti “ambarvalia” (“andare in giro per i campi”), il più importante dei quali era recarsi in processione al sorgere della “stella del cane” (25 aprile) chiedendo (“rogando”) al dio Robigus di “ammansire la bestia”. Da tale usanza detta “robigalia”, sarebbero derivate le “rogazioni” cristiane durante le quali veniva portato per i campi il fantoccio di un “drago”.
Non si faccia confusione però. Il “drago” era certo l'immagine di tutti i malanni, di tutti i pericoli che si nascondono nelle profondità della terra. Eppure non era ancora, nell'antichità, la bestia demoniaca in cui l'avrebbero trasformato nel medioevo, anzi, come ogni cosa nel creato, era parte dell'esistenza. Tant'è che non lo si uccideva ma si provvedeva per lo più ad ammansirlo, convincendolo a “spostarsi”, ad occupare un luogo a lui più consono e non dannoso.
Di santi “sauroctoni”, domatori di draghi e di serpenti d'ogni foggia e dimensione, acquatici e terricoli, è pieno il martirologio romano, dall'Arcangelo con la spada al suo emulo San Giorgio, a San Silvestro, San Teodoro, San Rufilo, San Mercuriale, Santa Margherita di Antiochia, San Bernardo di Mentone, San Marone, San Pellegrino, Santa Marta, a San Demetrio a San Giulio d'Orta e molti altri.
Come il drago era la sintesi di tutti i pericoli causati da una qualunque forma di “squilibrio” della terra, la tradizione sfornò nei secoli molteplici altre forme per esprimere ogni singola “minaccia”. Di tutti uno era il re. Era il fuoco stesso, nato da un uovo sferico partorito da un “gallo”, dal sole stesso. Veniva dalle profondità della terra, dal pozzo in cui lo trovò il santo vescovo Siro a Genova. Proprio dove la narrazione di Jacopo da Varagine colloca l'episodio, ancora oggi (tra le attuali via Fossatello e via S. Siro) c'é ancora una lapide a ricordare dove si trovava il pozzo.
Tale fuoco era nocivo alla terra indifesa e la irretiva con i suoi occhi di fuoco e così infatti apparve all'imperatore la cui figlia ne era ottenebrata, dopo che il santo martire frigio Trifone, ancora giovane, l'aveva fatto fuggire.
È dunque il fuoco che brucia silenziosamente nelle profondità della terra, il magma che erompe dai vulcani, lo stesso fuoco di cui è fatto il sole. È la fiamma che purifica e monda, l'ardore nel petto del cavaliere d'amore cortese, la brace che arde nell'intelletto dei sapienti. Ma è anche il distruttore che può prendere il sopravvento e incenerire ogni speranza, ogni slancio amoroso, ogni desiderio di conoscenza.
Tanto nelle processioni rogatorie, quanto nei racconti popolari, sopravvive così mirabilmente, in termini simbolici, il principio sapienziale del “troppo calore” che distrugge e che è tale, con modi propri, per il cosmo, per la terra e per l'uomo.
Non si tratta di una sapienza solo “filosofica” o mistica ma anche di conoscenze pratiche che, in questo modo si sono efficacemente tramandate. Nelle tradizioni alpine il “piccolo re” o “re di biss”, re dei serpenti, meglio noto come “basilisco” è una delle creature fantastiche e pericolose nelle quali ci si può imbattere, se si è incauti, andando per pascoli, prati e alpeggi. Nelle sue fattezze si nasconde non una mera fiabetta per bambini, ma un piccolo gioiello di sapienza contadina che è potuta giungere fino a noi, mantenendo intatto il suo insegnamento, proprio grazie a questa sua forma.
Il basilisco è, in verità, il “gran nemico”, il principale avversario di ogni alpigiano. In una parola è il “colpo di calore”, frequente soprattutto per chi lavora all'aperto. Nell'ambiente che si racconta il rettile prediliga, si riconosce chiaramente un'indicazione delle condizioni in cui l'insolazione può verificarsi più facilmente: il basilisco si incontra nell'erba alta, secca e ingiallita, tipica delle situazioni di siccità e di eccessivo caldo.
L'aria calda e irrespirabile che si alza dal terreno in quelle condizioni viene efficacemente resa con il “fiato” infernale della bestia. È quella stessa aria calda e satura, se si manifesta prima del mese di maggio, provocherà una crescita eccessiva delle messi, compromettendo i raccolti. Ed è anche quello stesso afrore che minaccia di morte i minatori e chi si avventura nelle grotte, annidandosi nei pozzi come nell'antica Genova del vescovo Siro e nel buio più profondo.
Il colpo di calore, allora, ormai inevitabile, viene strisciando, in silenzio e colpisce all'improvviso. A quel punto si crolla a terra febbricitanti a faccia in su, cercando di respirare. Il disco solare con i suoi raggi, visto attraverso le palpebre arrossate, non può che somigliare agli occhi di brace del rettile.
Presto cominciano i vaneggiamenti e le allucinazioni unite al tremore spasmodico del corpo, che non riesce più a espellere il calore in eccesso. Infine, mentre si sbatte e si vaneggia a tal guisa da sembrare indemoniati (come la figlia dell'imperatore frigio!), giunge inesorabile, nella solitudine delle valli e dei prati, la morte.
In questa mirabile descrizione delle cause e dei sintomi, pii uomini del passato non hanno però mai dimenticato di elencare anche i rimedi, avvertendo, prima di tutto, che il basilisco non va “ucciso”. Pezze imbevute di acqua poste sulla pelle soffocano il basilisco e uccidono chi si è preso un colpo di sole, altrettanto il ghiaccio che può provocare uno shock termico.
Il rettile invece, va “ammansito”, va invitato ad andarsene in modo fermo, ma con dolcezza. Siro, l'aveva convinto a entrare nel secchio calato nel pozzo e il basilisco, quando ne era stato tirato fuori, era fuggito gettandosi in mare. Altrettanto, bere per favorire la sudorazione e immergere il corpo in acqua fresca (non gelida!) sono e sono sempre stati i piccoli rimedi per combattere l'insolazione.
Se scorressimo con attenzione i vecchi racconti di chi scampò al basilisco, poi, troveremmo sicuramente, nascosti nelle fortunose e inverosimili soluzioni escogitate dai superstiti, mille altri rimedi, ricordi di una sana conoscenza della natura che da tempo abbiamo tradito.
La natura continua a gridare, inascoltata, che nella malattia c'é già anche la cura. È così infatti che il rettile, per principio omeopatico, diventò medicina di sé stesso, trasformato nel Santo Basilisco dei cristiani, provvidenzialmente martirizzato e sepolto a Comana sotto Diocleziano.
BIBLIOGRAFIA
Jean Paul Clébert, Animali fantastici, Milano, Armenia, 1990
Jorge Luis Borges e Margherita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Milano, Einaudi, 1957
Marie-Madeleine Davy, Il simbolismo medievale, Paris, Flammarion, 1977
Jean Chevalier e Alain Geerbrant, Dizionario dei Simboli, 1969
Jacques Bonvin, Dictionnaire énergétique et simbolique de l'art romain, Paris, Mosaique, 1996
Huang Ti, Nei ching Su Wen, V sec. a.C., pubbl. 1770
Teresio Valsesia, Val Grande ultimo paradiso, 1985
Aa. Vv., La montagna dei twergi, Gruppo Alpini Ornavasso, 1989
Enrico Rizzi, I Walser, Anzola d'Ossola, Fondazione arch. Enrico Monti, 2003
La voce della terra (parte 1)
C'era un tempo in cui uomini e dei camminavano fianco a fianco, un tempo in cui le parole non servivano. Era il tempo di Ilio, dei viaggi di Odisseo e di Enea, il tempo degli eroi e delle imprese. Ma nulla può esistere se è perfetto, la vita richiede vibrante imperfezione per esprimersi. Poco a poco, molti smisero di fidarsi di loro e le idee del cosmo li abbandonarono. Gli dei continuarono a camminare sulla terra, ma l'uomo smise di seguirli, di vederli, di sentirli e piombò nella nostalgia, generatrice di lingue e di idiomi. Solo qualcuno conservava ancora il cuore puro abbastanza da udire quelle voci lontane, isolati e inascoltati profeti le cui orecchie percepivano il sussurro dei non più visibili numi.
Poi, non ve ne furono più. Le voci si fecero tanto lontane e indistinte che, solo appoggiando l'orecchio, opportunamente allenato, nel punto più adatto, si poteva ancora sperare di percepirne i sussurri. Questi luoghi, sparsi fra la Tessaglia e Marpesso, la Persia e Samo, Eritre e la Libia, Tebe e Cartagine erano antri, caverne, cavità aperte verso il cielo come bocche silenti in cui il raro orecchio puro poteva immergersi completamente e ascoltare il canto della dea. Ma presto anche quelle sarebbero rimaste mute.
Negli anni 60 il professor George Eogan del'University College di Dublino cominciava a riportare alla luce il meraviglioso tumulo irlandese di Knowth, non lontano da quello ben più famoso di Newgrange, con le sue pietre coperte di spirali. L'ingresso del tumulo era sovrastato da una indecifrabile entità di pietra, in forma di meandri concentrici.
Ma la scoperta più incredibile, nel “corredo funerario” fu quella di una testa di selce, che forse coronava un bastone rituale, con la bocca spalancata a forma di coppella, gli occhi ipnotici uniti in un doppio vortice e spirali – suoni materializzati in due dimensioni - al posto delle orecchie e nella regione occipitale.
Cinquemila anni fa gli dei non erano ancora del tutto muti: la strana figura che custodisce l'accesso alla “tomba”, riconosciuta come civetta, con il suo grido di vita - di rigenerazione e non certo di morte come si crede comunemente - ci racconta che la voce ancora udibile, rappresentata in quel pomolo splendidamente scolpito, era quella della dea antica. La stessa voce che si ascoltava a Knowth, l'avevano sentita le popolazioni preistoriche, i Mesopotamici, gli Egizi, le tribù italiche, i Fenici, i Greci, i Latini e le genti di ogni parte del pianeta. In tutte le più remote regioni del mondo i sussurri della dea erano stati uditi. Qualcuno, per non dimenticarne le parole, le dipinse con pigmenti color ocra sulle pareti delle grotte e delle balme affinché la roccia le custodisse. Così, ancora di recente, un riparo naturale nell'ossolana valle Antigorio, ha svelato i preziosi e antichi pittogrammi (almeno una cinquantina) vergati in epoche remote sulla sua parete scoscesa, che potrebbero essere gli equivalenti grafici della voce della terra, della sua “preghiera” all'uomo.
La confusione tra chi parla e chi ascolta ha portato a riconoscere tante voci diverse, ma già Platone - così scrisse nel Timeo - era certo che tutte le sibille fossero una sola e che questa non fosse altro che la Dea. Allo stesso modo, le rare creature femminili con il cuore leggero al punto di riuscire a udire le voci, finirono per essere scambiate per la voce stessa.
Sacerdotesse, consacrate al loro dono, laggiù nell'ombra luminosa della terra, ascoltavano le parole di potenza e di possibilità per riportarle agli uomini, diventando nell'immaginario il verbo che cercavano di sentire, ultima speranza in un mondo destinato a divenire sordo.
(continua...)
Riti di vita dagli scivoli alle streghe
Chi ci dice che davvero sui cosiddetti “scivoli” ci si andasse a scivolare? Qualcuno, da schegge di selce, punte di frecce e attrezzi per lo più “litici”, rinvenuti ai piedi o nelle vicinanze di uno “scivolo”, ha dedotto giustamente che l'uomo li frequenta da sempre. Il luogo e la posizione in cui di solito si trovano incute rispetto e suggerisce immancabilmente un qualche uso religioso. Infine le tradizioni, vecchie per altro solo di una manciata di generazioni, secondo cui le donne si sfregavano su un certo sasso sperando di restare incinte, ha fatto il resto. E se invece lo scivolamento non fosse altro che la conseguenza più “moderna” di un uso antico che non sappiamo più riconoscere?
La varietà e quantità di credenze legate alla roccia in effetti ci racconta qualcosa di diverso, restituendoci l'immagine lontana di una sacralità non banale. Sulle pietre ci si distendeva, ci si strusciava, bisognava toccarle oppure appoggiarci una certa parte del corpo, le mani, la schiena, ci si costruiva sopra e le si inglobava negli edifici sacri, si facevano a pezzetti per portarle a casa come souvenir.
Tutti questi usi però, sono accomunati da un fatto ben preciso: la necessità del contatto con la pietra. Non è guardandola o aspettando a distanza, che qualcosa può succedere, è solo toccandola, appoggiandosi, mettendo in relazione il corpo con la roccia: devono diventare una stessa cosa affinché “qualcosa” si sprigioni.
Quanto agli abusati e pretestuosi “riti di fertilità” che vi si svolgevano... ci sono culture e tradizioni di matrice antichissima che sono vive ancora oggi alle quali rivolgerci per comprendere...
Dovremmo ricominciare a capire che che le scene “erotiche” in bella vista sui muri di molti templi indù, non hanno nulla di sensuale. Anzi, non sono neanche quel poco che i nostri occhi pensano di vedere. Non di uomini e di donne si tratta, bensì di divinità, Shiva e Shakti, i quali altro non sono che le forze polarizzate della natura, attrattiva e repulsiva, ascendente e discendente, compressiva ed espansiva. Le cosiddette “posizioni” non sono, altrettanto, un atto “sessuale” ma la rappresentazione su un piano meramente umano del muoversi, dipanarsi e avvicendarsi ritmico e armonico di queste forze e di tutte le loro possibili interazioni dinamiche. Sono immagini dell'esistente che si crea e si mantiene. Non rappresentano movenze fisiche ma moti spirituali, flussi di energia di cui il legame fisico tra uomo e donna non è che un pallido riflesso.
Come le immagini di “erotismo” sacro, così ogni altra forma banalmente ricondotta a non ben definiti “rituale di fertilità” era dunque un “rito di vita”, un rituale di esistenza, un insieme di gesti attraverso i quali la vita viene invocata, adorata, mantenuta, migliorata, chiamata a manifestarsi. La cura, l'effetto taumaturgico è perciò ben altro da una semplice cura, è la vita che torna a scorrere dove non scorreva più, che scivola meglio dove prima c'erano intoppi.
La terra, che sostenta l'uomo e ogni altra creatura, culla e ventre che partorisce l'esistenza è l'ente unico a cui rivolgersi. Le sue manifestazioni visibili, in cui la vitalità adatta all'uomo può esprimersi, sono certe pietre, alcune sorgenti, macchie d'alberi, grotte in cui il cielo può specchiarsi, scendere, intessendo quel rapporto con la sua “sposa” che, appunto, è causa e motore della vita. L'abbiamo sempre saputo. Perfino i santuari “moderni” li abbiamo costruiti sulla roccia, definendoli “fonti di vita”. Sono i santuari stessi ad essere sorgenti di vitalità o le pietre su cui sorgono?
I ricordi più vividi si sono probabilmente conservati soprattutto nelle valli, specie quelle meno frequentate e negli alpeggi, dove la modernità portata dal cristianesimo tardò maggiormente a insediarsi. Sarebbe troppo facile sostenere che esisteva una vera e propria religione primitiva ancora praticata quando l'Inquisizione cominciò a interessarsi alle cosiddette streghe. Ma è indubbio che la tradizione popolare e i racconti estorti alle presunte malefiche sono intrisi proprio di ricordi di quell'antica gnosi che aveva prodotto millenni prima i massi coppellati e gli “scivoli”. Con le persecuzione alle streghe, probabilmente, scomparvero dal sapere popolare gli ultimi scintillii di quel rapporto filiale con la natura.
Forse non erano più conoscenza delle leggi e dei meccanismi e le loro pratiche erano basate sulla perfetta ripetizione “shamanica” di precisi gesti, formule, movimenti tramandati da un lontano passato. Di certo, però le streghe erano temutissime. Miti, leggende e racconti di paese sono un continuo avvertimento a non sfidarne il grande potere. La strega, partecipando al sabbah, era la custode dei segreti della vitalità di tutte le cose (“fertilità”) e per questo poteva compiere anche l'opposto: togliere, rimuovere la vita, risucchiarla via. Del resto per fare il male bisogna seguire le stesse regole del bene. Alla fama sinistra di queste donne contribuirono senz'altro anche la fervida fantasia degli inquisitori, subdoli interessi politici e religiosi, i fanatismi e il carattere grottesco e violento dei racconti estorti sotto minaccia e sotto tortura.
Si potrebbe però azzardare che quelle storie popolate di mostri, di pratiche truculente e formule incomprensibili, funzionassero anche come una sorta di linguaggio simbolico. Unte e a cavalcioni della scopa le streghe si radunavano per danze e feste sfrenate di cui si narravano i dettagli più terribili, ma per lo più erano donne del paese, abitanti della porta accanto, assolutamente presenti nella vita sociale. La paura delle loro ritorsioni poteva dunque essere più una forma di rispetto per le loro “qualità”, piuttosto che vero terrore? E le pozioni, gli unguenti, i preparati, i voli e le cavalcate nella notte, le danze orgiastiche non potrebbero essere state, allo stesso modo, il mezzo linguistico, simbolico in cui nascondere efficacemente le conoscenze ancestrali sopravvissute al tempo?
Nulla è mai veramente nascosto o rivelato solo a qualche “illuminato”. Ma la verità, a volte, poiché le trascende, non può essere espressa con categorie umane e richiede una preparazione e una responsabilità da coltivare nel tempo, per essere afferrata. Così, facendo ognuno la proprio parte nel cosmo, la stria e il suo sposo, uniti nella follia sabbatica, rappresentavano e richiamavano la danza stessa della creazione. La strega, sotto di sé, ha la pietra, la terra stessa di cui è espressione, come un arco convesso verso l'alto, verso il suo corrispondente complementare. Lo stregone, porta su di sé il segno stesso del cielo suo nume, un arco opposto, convesso verso il basso, la sua compagna. La “scopa” infine è l'asse, il percorso, il legame, la direzione, l'unione.
Non sono forse gli stessi simboli che già l'uomo rappresentava nelle grotte e nelle balme al tempo degli scivoli e dei massi coppellati?
Certo, era sempre la strega a raggiungere il suo sposo. E solo se prima si era messa a contatto della pietra o “croce”. La terra è la strada per salire al cielo. La scopa “spazza” la terra, simbolicamente il mezzo che ne risveglia la vitalità, rappresenta efficacemente questa tensione che parte dal basso.
Perciò già nella terra, nella roccia stava quello stesso “demone” con cui le masche volavano a danzare. Ma l'unico che era uscito da una roccia per portare la vita eterna era stato il Gesù cristiano. Quel demone con il cielo sulla testa, l'antico Cernunno dai mille nomi doveva essere di sicuro un usurpatore... era il diavolo sotto mentite spoglie!
Qualcuno, già nel '500 aveva già sollevati dubbi circa la realtà diabolica del fenomeno stregonico. Un eroico frate osservante minore monferrino, Samuele De Cassinis (Questio lamiarum, 1505), al tempo rinomato filosofo, si era spinto a sostenere che la "perfetta costruzione del mondo delle streghe” era un'invenzione “alla cui realizzazione massimamente contribuirono inquisitori e teologi domenicani". Le streghe infatti, secondo lui, non potevano essere dotate di certi poteri in quanto era inconcepibile che dio permettesse il dispiegarsi di fenomeni prodigiosi per scopi non benefici.
In diatribe teologiche di tale portata si era trovato anche il filosofo umanista mantovano Peretto Mantovano (Pietro Pomponazzi) che, già tacciato di eresia per le sue posizioni sulla possibilità di una dimostrazione razionale dell'anima, sosteneva l'origine allucinogena, causata da sostanze, delle millantate attività stregonesche e non l'intervento del diavolo, non dotato di simili capacità (De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, 1556).
Eppure, ne erano così certi gli inquisitori novaresi che a inizio '600, a Baceno, trascinavano le streghe appena catturate nella chiesa di San Gaudenzio e le spintonavano fino a farle crollare davanti “Peccato originale” del Bugnate, sotto lo sguardo terribile del mostro dell'apocalisse, ai piedi della croce della Redenzione. Era l'unica occasione offerta alle streghe per confessare spontaneamente, prima di essere tradotte in prigione e morire di stenti o finire sotto tortura.
Osservavano Eva e Adamo, dalle nudità scalpellate che erano così diventate vesti. La prima donna, con sguardo ipnotico porge il “frutto proibito” all'uomo, ritratto mentre si tira indietro, in un gesto di stizza, di rifiuto, ma non di paura, di disinteresse. Il serpente avvinghiato all'albero intanto si accosta alla donna come per sussurrarle qualcosa all'orecchio. Ma il serpente ha solo il corpo del rettile. La testa è la testa stessa, non soltanto il viso, di Eva!
Quale altro volto poteva avere il “male” se non proprio quello della donna, per un inquisitore? Il diavolo ha le fattezze di una donna, è la donna stessa. O almeno questa era le verità che i persecutori volevano far vedere e toccare con mano alle streghe.
Le adepte del “diavolo” rimanevano impassibili, in silenzio, tranquille, quasi confortate da quella visione. Con la coda dell'occhio spiavano la nuova veste di Eva, grande e sformata fino a coprire la mano destra e ciò che essa portava in grembo. Forse era un cesta piena di mele rosse e bianche, come quella che sta porgendo ad Adamo.
Non era una donna, era la Terra stessa il cui grembo era gravido di doni. Un'altra occhiata fugace svelava loro che anche gli occhi della serpe erano stati accuratamente rimossi, nonostante Eva neppure li degnasse.
Sono gli occhi chiusi di chi pensa di poter comandare la terra, ma così facendo, pur costringendola ad elargire i suoi frutti, si vedrà rifiutato il cielo, gli occhi di chi, condannandola con le parole e semplicemente opponendo un rifiuto, ha già perso.
BIBLIOGRAFIA
Pietro Pomponazzi, De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, Pietro Perna, Basilea, 1556
Margaret Murray, Il culto delle streghe in Europa occidentale, 1921
Margaret Murray, Il dio delle streghe, 1933
Robert Graves, La Dea bianca, Adelphi, 1992
Carlo Ginzburg, Benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, 1966
Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, 1989
Massimo Centini, Le streghe in Piemonte, Priuli&Verruca, 2010
Giambattista Beccaria, Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d'Antigorio, in Aa. Vv., Domina et Madonna, Gam Mergozzo, 1997
Dinora Corsi, Diaboliche, maledette e disperate: le donne nei processi per stregoneria (sec XIV-XVI), Firenze, 2013
Brian P. Levack, La caccia alle streghe in Europa, Laterza, 2010
Fabio Copiatti con Alberto De Giuli e Ausilio Priuli, Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola, Domodossola, 2003
De La Gurve: luoghi forti e Milizie dell'Anzasca (prima parte)
PE+: Praefactae Excellentiae. Il segno sulla roccia non lascia dubbi. Qualunque prodigio sia accaduto fu "praefacto" (fatto prima) per opera dell'Excellentia, dell'eccelsa fra le creature, della Vergine, come ne scrisse Sant'Anselmo (De Excellentia Gloriosae Virginis Mariae). Le due lettere e la croce sbilenca, questa volta, non sono banali segni di confine, lì sotto alla roccia, difficili e scomodi a farsi e quasi invisibili se non ci si china a cercarne l’ombra.
No, non è questo il caso. La memoria si è persa, ma il segno ne è muto testimone. Furono incise a mazzetta e punta di metallo in un punto preciso, proprio accanto al fulcro, al baricentro di quella strana roccia in bilico. Se quel punto si fosse trovato poco più verso il fiume, il masso sarebbe rovinato in acqua. Invece, miracolosamente, è fermo in equilibrio. Non sarebbe strano che gli antichi abitanti della valle già nella preistoria lo adorassero come sacro. Qualcuno deve averlo pensato, secoli fa.
Quanti millenni prima il sasso si era fermato in quella posizione, come trattenuto da una mano misteriosa? Molti. Eppure, per un cristiano, non era accettabile che fosse l'opera di una divinità antica, il cui artiglio era di certo diabolico, pagano. No, per quanto incredibile, doveva essere stata la mano delicata della Vergine anche se, in verità, era nata solo molto più tardi di quegli eventi. Maria l'aveva "fatto prima" (prae-fecit) di sé stessa. E in questo, forse, stava il vero “miracolo”, più che nell'equilibrio precario del masso.
La Gurva è uno di quei luoghi di possibilità, benedetti e sacri da sempre, stabiliti da Madre Terra, presso i quali essa ha posto, come monito, un segnale di attenzione ben evidente, affinché siano più riconoscibili di altri. È accaduto in Myanmar presso il millenario Kyaiktyo, la Roccia d'Oro che si crede tenuta in equilibrio da un capello del Buddha. E lo si vede bene tra le rovine della leggendaria Mahabalipuram, nell'India del Sud, dove i templi scolpiti nella pietra e le grotte sacre sorgono tutto intorno alla "Palla di burro", rappresentazione del nutrimento spirituale, che costituisce il principale attributo del giovane Krishna (Balakrishna), ultima incarnazione di Visnu. Il parallelo con il globo che il Bambinello tiene nella destra mentre sta in grembo alla Madre, non può sfuggire.
Una roccia sull’altra: così deve averle messa la forza lenta e potente dell’acqua, che ne ha scolpita una e ha accompagnato l’altra sopra di essa. Il masso sottostante è levigato, come la veste della Madonna su cui siede il Bambin Gesù. Devono averlo ben visto i nostri avi e hanno colto l’occasione per trasformare la terra, quella terra, nella Madre di Dio, erigendo su di essa un piccola cappelletta con un’effige mariana. Intanto fiorì la leggenda del masso piovuto dall’alto e disceso verso il basso, come il Bambinello. La leggenda, così, finì per azzoppare la verità, cancellando ad arte i prodigi compiuti dall'acqua del torrente, che troppo sapevano delle religioni antiche.
La Gurva, come tutti i luoghi veramente sacri, è sacra a prescindere dalle immagini e dai simboli. Sacra è l'acqua che gli scorre accanto e nel suo insieme ben si ritrova simbolicamente l'intera valle. Così dev'esser rimasta per molto, con la sua piccola cappella e l'affresco antico a due braccia forse meno dal masso “caduto”.
Poi, nel 1612, il Governatore spagnolo dello Stato di Milano, Marchese Mendoza della Hionosa, riceve da sua maestà ispanica l'ordine di invadere il Piemonte, per anticipare l'avanzata del Duca di Savoia e diffidarlo dalle sue pretese sul Monferrato. Tutta la popolazione viene obbligata a prendere parte militarmente alla contesa attraverso la costituzione delle Milizie delle Terre, nelle quali vengono costretti ad arruolarsi tutti gli uomini dai 18 ai 50 anni. La Milizia ossolana, che conta 1452 soldati tra i quali 390 provenienti dalla Valle Anzasca1, riceve il compito di presidiare i confini e i passi alpini dalle invasioni esterne.
Ma l'ordine imposto dal dominatore ispanico non viene esaudito in silenzio. I futuri soldati, arruolandosi cercano la benedizione della loro stessa terra. Non combatteranno per lo straniero, ma per la loro valle. I militi di Bannio si rivolgono alla Madonna della Neve e del Gelo, occupandosi di ristrutturarla con il permesso del Vescovo di Novara. Quelli di Calasca scelgono la remota cappelletta della Gurva.
Mentre i lavori fervono, però...
... continua...
1 Gli arruolati provengono da Castiglione, Calasca, Bannio Anzino, Vanzone, Ceppo Morelli, Macugnaga.
Ringrazio Carlo Lovati per i puntuali contributi