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Perche si chiama "Répit"?
Il “ritorno effimero in vita dei bambini mai nati” viene spesso indicato con il termine francese “répit”. Si ritiene in genere che il primo studioso “moderno” di questo fenomeno millenario a utilizzare tale termine sia stato Émile Nourry, esperto di folklore, che pubblicò nel 1911 un saggio sul “rito della piuma” con lo pseudonimo di Pierre Saintyves.
I significati etimologici derivabili da tale sostantivo sono molteplici: termine di pagamento; si dice di una persona che si è rimessa dopo una malattia grave; Sosta, sospensione momentanea di un’azione, di un obbligo, di una tensione, di una sofferenza fisica o morale, interruzione, pausa, riprendere fiato, tregua; tempo di riposo, rilassamento, allentamento, sosta, pausa; riposo, rilassamento salutare, pausa di alcuni giorni, anno, istante, giorno, momento, settimana, tempo di pausa.
Ma Saintyves, in verità, permuta “répit” da un passaggio, preso quasi letteralmente, di un corposo lavoro dell'abbé Corblet che, nel 1881, aveva raccolto in otto tomi le sue ricerche sulla storia e le origini del Battesimo e già citava alcuni casi francesi di “ritorno effimero in vita” dei bambini mai nati.
Secondo il prelato, che non fornisce chiarimenti in merito, la denominazione sarebbe stata coniata in Piccardia e si riferirebbe non al rito, bensì al luogo in cui si svolgeva: “En Picardie on donnait le nom de répits, aux chapelles qui étaient censées jouir de ce privilège miraculeux” (In Piccardia è stato dato il nome di répit, alle cappelle che erano reputate beneficiare di tale miracoloso privilegio).
E poiché, nella regione i “répit”, conosciuti sono soltanto due - la Cattedrale di Amiens e Notre Dame de Liesse - è possibile che il nome o soprannome originario sia fiorito presso uno dei due santuari e in seguito sia diventato di uso comune.
Tra i due, il più antico e più probabile luogo di origine del termine è Notre Dame de Liesse, la cattedrale che custodisce una delle più antiche Vergini nere francesi, che operò prodigi della “doppia morte” per secoli prima che la stessa usanza cominciasse ad essere praticata anche ad Amiens (dove il primo caso risale al 1655 e si verificò nella Cappella dell'Annunciazione, di fronte alla pala d'altare di Nicolas Basset). La sua storia leggendaria è all'origine dei suoi numerosi prodigi tra i primi dei quali, appunto, figura proprio una “doppia morte”: la vita sarebbe stata brevemente restituita, infatti, tra il XII e il XII secolo, al figlio di un mercante borgognone. Si racconta che la madre si fosse addormentata durante il bagno lasciando cadere in acqua il bambino, di soli quindici giorni. Il mercante, tornato a casa, avrebbe trovato la consorte in prigione accusata di infanticidio e il figlio già sepolto da almeno quattro giorni.
Per tentare di salvare dalla pena di morte la moglie, il borgognone aveva infine deciso di disseppellire il corpicino e di portarlo al cospetto del giudice per dimostrare che si era trattato di un incidente. Ma, una volta che il bimbo era stato tra le sue braccia, vedendone lo stato ancora buono di conservazione, si era lasciato andare a una preghiera alla Signora di Liesse - alla quale era molto devoto e che già aveva invocato tempo prima affinché proteggesse quel parto - e improvvisamente il figlio aveva cominciato a dare segni di vita.
Il nome “répit”, potrebbe celare le sue origini nella leggendaria vicenda della statua della Beata Vergine Nera di Liesse. Per quanto poco o nulla, a parte il colore dominante, richiami quel lontano paese, il simulacro proviene dell'Egitto.
Protagonisti del suo arrivo in terra francese furono i Cavalieri di San Giovanni, stanziati nella vicina Làon, presso l'Abbazia di San Giovanni. La frammentaria ma precisa memoria lasciata dal cancelliere dell'Ordine fra' Melchiorre Bandini, racconta di come, nel 1134, tre dei cavalieri laonesi erano partiti per la Terra Santa e si trovavano quell'anno impegnati al confine meridionale del Regno di Gerusalemme, dove il re Foulques aveva affidato all'Ordine Ospitaliero la fortezza di Bethgebrim, l'antica Bersabea, all'indomani della conquista di Ascalona, presidiata invece dai Templari. Nel mese di Agosto i tre erano caduti un'imboscata tesa loro dai soldati del califfo egiziano mentre pattugliavano la strada di collegamento fra le due città.
Portati in catene fino alle prigioni de Il Cairo, gli aguzzini del califfo avevano senza successo tentato di convincerli a convertirsi all'Islam. Infine il califfo in persona, adirato per la loro resistenza, aveva mandato da loro l'amata e piacente figlia, Ismérie, con la speranza che cedessero alle sue lusinghe. Ma a vacillare era stata invece la stessa “sultana”, colpita dalla parole e dalla venerazione per la Vergine che i tre mostravano. Così, per metterli alla prova, aveva chiesto loro di realizzarne un'immagine, affinché potesse vedere con i suoi occhi questa figura celestiale e aveva dato loro strumenti e un lume. Nella notte, nonostante il Signore d'Eppes, il Signore di Marchois e il terzo cavaliere (di cui non si ricorda il nome), non avessero alcuna velleità e capacità artistica, era accaduto il prodigio. Un angelo aveva scolpito per loro, mentre dormivano, una statua della Vergine.
Il mattino seguente Ismérie, profondamente colpita dalla visione di quella effige, l'aveva portata nei suoi appartamenti. In sogno la Vergine le era apparsa, convincendola a convertirsi e a liberare i tre cavalieri e così era accaduto. Il quartetto aveva viaggiato per giorni nel deserto, cercando di sfuggire ai soldati del califfo, finché si erano addormentati sotto una palma e di nuovo, prodigiosamente, erano stati trasportati fino a Liesse.
Ismérie aveva ricevuto il battesimo con il nuovo nome “Maria” e aveva vissuto presso la cappella, pare, fino alla morte. Il suo corpo santo sarebbe stato sepolto nella navata della nuova cattedrale in costruzione, insieme ai tre eroici cavalieri.
Dove finisce la storia, però, comincia il mistero. Il racconto si snoda tra la realtà terrena e la dimensione del sogno che si alternano ripetutamente, indicando la precisa volontà di ricollegare e rendere “cristianamente” accettabili fatti che, altrimenti, non lo sarebbero. La verità, se ancora è possibile scorgerla, si nasconde nei dettagli.
I protagonisti sono tre, ma soltanto due hanno un nome, uno invece rimane imprecisato, quasi come se non fosse possibile attribuirgli - o non ce ne fosse bisogno - neppure un titolo oltre a quello generico di cavaliere. Sono dunque davvero tre diversi individui o sono forse le tre (in senso simbolico) “personalità” di uno stesso guerriero?
Quanto a Ismérie, ha un nome davvero insolito e tutt'ora senza una spiegazione esaustiva. Potrebbe essere una corruzione, come molti sostengono, del nome proprio germanico “Ismar”, il cui uso in Piccardia, però, non è semplice da motivare. Compare altrove solo nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, secondo cui si chiamava così la Madre di Santa Anna e nonna della Vergine Maria, di cui non c'é tuttavia, alcuna altra traccia, neppure biblica.
Scarsamente invece, poiché l'idea dominante è che la statua non possa essere venuta dall'Egitto e quindi la storia sia una “devota fantasia”, l'attenzione è stata rivolta proprio ad una possibile origine “moresca”. Nella lingua araba, esiste infatti il termine “izmer” o “zmer/zemer”, dalla radice “zmr” che, variando le vocali inserite (secondo la costruzione lessicale semitica), assume molteplici significati tra cui “cuore”, “avere a cuore” cioè “amare” e “fare musica/cantare”.
Nella forma in cui si presenta potrebbe assumere un valore ”passivo”, quindi potrebbe essere tradotto come “colei che sta a cuore a”, “l'amata da”. E questo è precisamente l'equivalente dell'antico titolo egiziano “mer-i-amon”, “amata da Amon” (e anche “nel cuore di Amon”), con cui veniva invocata la dea Iside. Più precisamente il nome completo era Is (is) Meri-a(mon), da cui potrebbe essere stato derivato Isméria/Ismérie.
Curiosamente, poi, il nome Ismérie viene attribuito indifferentemente sia alla “sultana” convertita che alla sacra effige di Nostra signora di Liesse. Essa stessa è Ismérie. Il motivo di questa confusione, solo apparente, è nella particolare spiegazione, assolutamente non gradita a Santa Romana Chiesa, che anticamente i fedeli di Liesse davano della venerata statua. In essa non vedevano un Madonna con Bambino, bensì - ce lo ricordano i primi “storici” che scrissero dei fatti di Liesse - la principessa egiziana Ismérie assisa in trono che “presenta” la Vergine. Quest'ultima dunque sarebbe stata rappresentata come una giovane Maria, Maria Bambina o Maria Nascente.
Così l'immagine ricorda molto la scultura antica egizia, non nelle forme ma nell'impostazione, con la divinità di grandi proporzioni, ai cui piedi o presso le cui ginocchia sta il faraone, di proporzioni nettamente più ridotte, che è anch'egli una divinità, ma di “rango inferiore”, più “terreno”, non ancora assunto nelle schiere celesti, in divenire.
L'aiuto provvidenziale che la Vergine Nera Ismérie elargisce è la “liberazione dalle costrizioni” (dalle catene): emancipa la principessa dalla non-fede (dalla non-credenza nella Vergine cristiana), attraverso di essa affranca dai ceppi i tre cavalieri e infine riscatta il quartetto dalla permanenza forzata in terra straniera, trasportandoli nel sonno fino a Liesse.
Questa stessa particolarità è propria della dea Iside Egizia in quanto “mer-i-amon”, in un suo particolare aspetto venerato, come altri, nell'immagine di una misteriosa e assai invocata dea dalla testa leonina (il leone è rappresentazione della forza che si sprigiona) che aveva templi da Elefantina ad Athribis. Africana era la sua origine, non tanto per la pelle scura (con cui tutti gli dei egizi venivano raffigurati) quanto perché rappresentata accanto a una gazzella, animale delle savane e tipica preda del leone, ma che il leone “può decidere” di lasciare libera.
Altrettanto “africana” doveva essere Ismérie, spesso indicata come “soudane”, non nel senso di “sultana” ma di “sudanese”: il padre è infatti stato identificato in uno dei califfi/imam egiziani (al-Ḥāfiẓ li-dīn Allāh), non in un sultano (il primo sultano d'Egitto fu Saladino, nominato nel 1175/1176).
La dea egizia era la protettrice delle cataratte, i “salti” o cascate del Nilo, vere e proprie porte attraverso cui l'acqua scura del fiume poteva raggiungere i campi e fertilizzarli. La sua benevolenza era della massima importanza affinché le cateratte rimanessero aperte, altrimenti l'acqua sarebbe rimasta imprigionata negli altipiani africani.
Era colei che “apriva la porta degli eoni”, poiché il giogo dei giochi, la prigione per eccellenza è il tempo, della cui progressione era la divinità. Era dunque il nume del rinnovamento, del tempo eterno e del rinnovamento. Poiché era “nel cuore di Amon” rappresentava il “cuore ideale” del defunto, leggero come la piuma, così da essere immune alla bilancia di Anubis, liberò dall'afflizione del tempo e degno di entrare nell'eternità.
Era venerata con mille nomi - Ahemait, Amam, Ammemet, Ammit, Ammut, Amtent, Aperetiset, Triphis (presso i greci) - e aveva il proprio importante sacrario nel tempio della nascita di Dendera e in tutti gli altri templi legati alla nascita terrena e alla rinascita. Ma aveva un nome particolare, lo stesso con cui veniva designata l' “immagine perfetta” di ogni Dio, come la miracolosa immagine di Liesse.
Il suo nome era Répit.
Ismérie, l'antica di tutti gli antichi è l'immagine (répit) di sé stessa che si rinnova (ringiovanisce, si mostra come bambina) in accordo con i nuovi tempi, liberandosi dal giogo della propria “vecchiaia”. La principessa “sultana” altrettanto, aveva visto sé stessa rinnovata e se ne era fatta veicolo, così come era accaduto a un'altra Maria a Nazareth molto tempo prima.
Liesse è il luogo (in occidente) del nuovo rinnovamento, così come l'antico luogo (in oriente) è l'Egitto (antico). Proprio questa liberazione da una certa “spiritualità antica”, per quanto cristiana, a favore di una spiritualità nuova, ma che nello stesso tempo è più vicina a quella primordiale, è ciò che con buona probabilità, cercavano e sperimentavano i Cavalieri di San Giovanni e i loro fratelli Templari, almeno nelle iniziali intenzioni. Tant'è che a Malta, fin dal 1620 esisteva una chiesa dedicata a Notre-Dame-de-Liesse, in quanto “patrona” dei Giovanniti, che era stata costruita a spese personali del bailo d'Armenia fra' Giacomo Chenn de Bellay. Tra le sue mura si conservano tutt'ora le spoglie di San Generoso, personificazione della tenera prodigalità della Nera Vergine; un dipinto del 1623 del Casarino (allievo di Caravaggio) raffigurante San Mauro che guarisce un fanciullo e un altro dello stesso autore che ritrae San Luigi, annoverato tra i patroni del répit.
A chi portare, dunque un fanciullo morto prima-del-tempo se non a colei che del tempo-che-ritorna è Signora?
[Le foto di questo breve saggio sono tratte da Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse-Notre-Dame, 1862]
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BIBLIOGRAFIA
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Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse Notre Dame, Liesse-Notre-Dame. Pottelain-Masson, 1862
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Villette, Etienne Nicolas, Histoire de l'image miraculeuse de Notre-Dame de Liesse: avec discours préliminaire sur la vérité de cette histoire, & sur l'antiquite de la chapelle de Liesse, Laon, C. Courtois, 1743
Il sator di Aosta: Saturno Regna!
Questa mia idea ha un inizio semplice: il centro del "sator circolare" della Collegiata di Sant'Orso ad Aosta non c'é un leone e tantomeno la raffigurazione si riferisce a Sansone.
Senz'altro molte volte rappresentazioni con tali caratteristiche (un personaggio a cavalcioni di una fiera nell'atto di spalancarle le fauci), sono state indicate come "Sansone che smascella il leone". Alcune presentano addirittura un titolo riferito all'eroe biblico (a Modena ad esempio). Per lo più si ipotizza una convergenza di miti pre-cristiani ( Ercole e il leone Nemeo) e biblici (Sansone).
Il dettaglio curioso, però, è che né Sansone né Ercole vengono mai descritti nell'atto di "aprire la bocca" al leone. Il primo lo squarta (quindi gli apre il ventre), il secondo lo percuote e poi lo strangola.
Procedendo di particolare in particolare, a Sant'Orso la "bestia", a ben guardarla, del leone ha solo la corporatura e il muso. Le peculiarità del felino "maschio" (la criniera ad esempio) sono assenti. Potrebbe essere una leonessa, allora, ma sul suo capo sono ben evidenti due lunghe corna e la coda è innaturalmente lunga, sembra più un serpente...
L'animale mitico cui più si avvicina è la chimera, così descritta da Omero nell'Iliade (VI, 223-226): "...Era il mostro di origine divina, lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l'eroe la spense...".
Certo, quella di Sant'Orso non è una figurazione classica: manca la testa caprina e il muso da canide, sostituiti da lineamenti leonini e vistose corna. Ma è altrettanto singolare che sia una "presenza" ricorrente ad Aosta: una sua raffigurazione inequivocabile (con tanto di didascalia) fu infatti inserita anche nella pavimentazione del duomo della città (XIII sec.).
La sua nemesi è Bellerofonte, figlio di Glauco. Pare che l'avesse infilzata con la sua lancia dalla punta di piombo la quale, scaldandosi con il fuoco delle fiamme che erompevano dalle fauci del mostro, si sarebbe sciolta colando nella sua gola fino a soffocarlo. La strana "lama" triangolare su cui la veste dell'eroe, a Sant'Orso, sembra essersi impigliata lo identificherebbe proprio con il nobile di Efira.
La lotta con il mostro è incorniciata da un triplo cerchio. In quello mediano scorrono le lettere del quadrato magico". La croce che separa l'inizio e la fine dell' "acrostico" si trova proprio sopra alla testa dell'eroe. Il palindromo rotas-sator alla destra e alla sinistra della croce, finisce così per identificarsi con il nome proprio del personaggio sottostante.
Sator è Saturno (Saturno da satus, "semenza" e sero, "seme"). Ma anche saturare (saziare). La preziosa informazione, sulla quale non ci si sofferma mai troppo, la regalò al mondo suo malgrado il noto esoterista Samuel Liddel MacGregor Mathers già nell'Ottocento, nella pur scarsa traduzione del quattrocentesco “The Sacred Magic of Abramelin the Mage”, in cui senza indugio identifica l'enigmatico nome con il dio-pianeta.
Ora l'immagine sembra farsi più nitida: è Saturno che "apre la bocca" alla chimera, la "invita" a sputare, a rigurgitare qualcosa. Sulla natura saturnina di Sansone e di Ercole esistono diversi studi...
Astrologicamente Saturno è il maestro del Capricorno, il suo "governatore" e la chimera con le corna caprine e la coda serpentiforme (il serpente che vive nell'acqua?) ricorda molto tale segno zodiacale.
Le membra leonine ne sottolineano la potenza (il tema è perfettamente rappresentato dalla XI carta dei Tarocchi), l'energia che da essa si sprigiona: Saturno è l'unico che può “tenerle aperta la bocca” e quindi gestire tale forza, senza pericolo.
Il sesto pianeta era nell'antichità (prima della "scoperta" dei tre pianeti "moderni") il più esterno del sistema solare. Il suo particolare moto di rivoluzione intorno al sole è di 28 anni terrestri (7 x 4). Ogni anno si sposta di circa 7° sull'orizzonte e ogni 7 anni di circa 49°. Gli antichi astrologi ritenevano che il "ciclo di Saturno", suddiviso in settenari fosse il ciclo celeste fondamentale, quello che (essendo il più esterno di tutti) regolava tutti gli altri. I cerchi, sei in totale (Saturno è il sesto pianeta per distanza dal sole), che contornano l'enigmatica immagine di lotta a Sant'Orso, forse richiamano proprio l'idea dei cicli cosmici... così si spiegherebbe anche la particolare disposizione ad anelli concentrici del Sator dell'abbazia templare di Valvisciolo (LT).
L'identificazione copta e bizantina dei cinque termini del quadrato del Sator con le Cinque Piaghe (o con i nomi propri dei Cinque Chiodi) di Cristo, fornisce un ulteriore spunto. Quattro sono "periferici" (le due mani, la ferita dei piedi e quella del capo causata dalla corona di spine), una è centrale (la ferita del costato): non è difficile immaginarsi una ruota definita proprio dal chiodo centrale (il mozzo) e da quattro punti sulla circonferenza che definiscono i due assi di una croce.
Saturno è un'allegoria del piombo da trasformare in oro di cui favoleggiano alchimisti, ma è anche il piombo del filo del muratore (il sole), che fornisce la misura.
Perciò è detto "aratro": il solco che traccia è quello in cui poi si ordineranno i semi della vita. Ma quel solco è anche la divisione fra la vita e la morte, il taglio netto del tristo mietitore.
"Saturno, l'aratro, governa i cicli della vita".
Questa forse è la più semplice traduzione del celeberrimo quadrato magico. L'aratro è la scansione del tempo. Più precisamente: "Saturno con il suo ciclo (tempo) regge (governa) i cicli della vita (dell'esistenza universale)".
Nel Sator circolare di Aosta, Saturno tiene il Capricorno: poiché questo è il primo segno zodiacale dopo il Solstizio Invernale (il momento in cui "il sole muore"), Saturno, che è il suo pianeta "maestro", è il "regolatore" di tutto ciò che ri-nasce.
Gli elementi che contornano Saturno al governo del Capricorno, sono la "quadratura del cerchio". I quattro animali agli angoli, anziché essere i quattro emblemi degli evangelisti (leone, uomo alato, toro, aquila, ovvero Marco, Matteo, Luca e Giovanni), sono creature mostruose, di un ordine diverso.
Il "piccolo leone" e l' "uomo in bocca al pesce" sono rispettivamente la costellazione zodiacale del Leone e dell'Aquario (astrologicamente equivalgono alla posizione in cui Saturno è in Esilio e in Domicilio), mentre il "drago" e l' "aquila a due corpi" sono i due segni zodiacali che precedono il Toro (Luca) e L'Aquila/Angelo (Giovanni). Corrispondono all'Ariete e alla Bilancia e sono, di nuovo, due posizioni chiave di Saturno, Caduta ed Esaltazione!
Insieme rappresentano i quattro momenti cruciali del ciclo di Saturno.
Ma non finisce qui. Le gambe di Saturno a cavalcioni della chimera sono di un color rosso mattone piuttosto acceso, come se l'autore avesse voluto evidenziarvi un particolare senso. Fin dai tempi di Sparta la gamba piegata all'altezza del ginocchio è un simbolo di forza, di dominio e insieme di appartenenza sociale.
Le due gambe rossastre e piegate ad angoli diversi del Sator di Sant'Orso sono in qualche modo collegate, tramite il medesimo colore, al collo (la testa) dell' "aquila a doppio corpo" e con la pinna caudale (i piedi) dell' "uomo inghiottito dal pesce". Le gambe sono dunque il doppio ritmo che collega la testa ai piedi: un richiamo alla ciclicità e alla doppia spirale del tempo, di cui Saturno è ìl fulcro.
Per calcolarne la posizione in cielo è sufficiente osservarlo in rapporto all'Orsa Maggiore, detta appunto Aratro e "trainata" dai Septem Triones, i sette buoi che sono le sue sette stelle maggiori.
Perfino lo spiritualista russo Gurdjieff nei suoi libri potrebbe averlo citato come signore del tempo, anagrammandone la qualità di "arepo" (aratro, solco) in "(h)eropa(s)".
Saturno è il "Signore del Mulino (del cielo)", l'antico dio arabico Hubal, che dimora nel pozzo presso la Ka'aba. La Pietra Nera incastonata nel luogo più sacro della Mecca è essa stessa Saturno. Egli è dunque la "pietra angolare", l'origine e misura di ogni cosa.
È il mesopotamico Enki-Ea e l'egizio Ptah, gli dei creatori. Ed è anche il mitico Imperatore Giallo orientale, "inventore" della medicina cinese e di tutte le arti ad essa collegate.
Nella mitologia celtica è Fearn-Foroneo, detto Bran-il-Benedetto, la testa oracolare che restituisce responsi e vaticini, poiché conosce il passato e il futuro.
Ma Saturno è il "tempo" dei pagani. Perciò fu nascosto sotto il pavimento della collegiata di Sant'Orso (sorgeva forse su un tempio dedicato al dio Sator?), ma non dimenticato.
Sulla sua testa (quella di Adamo, il Golgotha) il Cristo piantò la sua croce, spodestandolo. La vita però aveva bisogno di lui. Come i "celti" percuotevano l'ontano a lui caro cantando "vieni fuori dalla tua pelle!", così il Crocifisso lo privò della sua, gli mise in mano un coltello al posto della falce/aratro e gli diede il nuovo nome di Bartolomeo.
Perfino il curioso rituale del "passar sotto l'altare" nella cripta della chiesa, richiama nella sua ciclicità il trascorrere del tempo e di conseguenza una qualche usanza per "annullarlo". Si dice che si tratti di un "rito di fertilità". Ma, poiché, il complesso sorge su una antichissima e assai vasta necropoli, sembrerebbe piuttosto indicare una volontà diversa: rivolgersi al tempo-Saturno per "trascorrere", "passare attraverso" e procedere verso la "rinascita"...
Conoscere i ritmi di Saturno, il ciclo che è alla base di tutti i cicli e che tutti li governa, come l'anello dei romanzi di Tolkien, è anche l'inizio di un cammino di conoscenza.
Il Quadrato del Sator, perciò, forse non era un qualche simbolo di potere o un talismano miracoloso, bensì il segno di appartenenza di quelli che, quel cammino, decidevano di intraprenderlo, che fossero streghe silvestri (che lo chiamavano Cernunno), probi viri romani o prodi cavalieri Templari.
Era il sovrano della Festa dei Folli, che intonando "il Canto dei Cervi" invitava i sudditi al sollazzo, così come già era accaduto molti secoli prima durante i Saturnalia. Così, le differenze, ritualmente si annullavano in ricordo della vita terrena di Saturno: "Orfeo ci rammenta che Saturno visse apertamente sulla terra e tra gli uomini" (frammento orfico).
I rilievi hanno evidenziato come il mosaico del Sator sia stato ricavato (nel XIII secolo) sopra e al centro del vano funerario più importante dell'intero complesso. La nicchia era confinante con la parete della cripta ancora visibile attraverso un muro in cui erano ricavate tre finestrelle opportunamente polarizzate: due monofore (plus e minus) e una bifora centrale (neutro), che consentiva di "vedere", almeno simbolicamente, i "corpi santi". Quali ossa ospitasse esattamente non si sa. Il complesso è da sempre intitolato ai santi Pietro e Orso. Che quest'ultimo giacesse sotto al Sator, quasi a farne le veci?
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BIBLIOGRAFIA
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Chevalier, Jean e Gheerbrant, Alain, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 1999
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Iannelli, Nicola, Sator - Epigrafe del culto delle sacre origini di Roma - la genesi e il significato del quadrato magico svelati nella teoria della correlazione astronomica, Bastogi, Foggia, 2009
Perinetti, Roberto e Pasquini, Laura, Il mosaico del coro della chiesa dei santi Pietro e Orso ad Aosta, in Actes du IX Colloque de l'Association Internationale pour l'Etude de la Mosaïque Antique (AIEMA), Roma, 6-11 novembre 2001, éd. H. Morlier, Roma 2005
Io sono la genitrice dell'universo
Nelle leggende del Graal, tra le sue mille forme e apparenze, compare sempre quella del vaso, del contenitore, che raccoglie un qualche “cibo” o “nettare” divino. A chiunque potrebbe palesarsi, ma solo pochi si rendono conto, in ritardo, come Perceval, di cosa sia.
Nonostante il successivo affacciarsi, nelle storie dei trovatori, della figura di Giuseppe d'Arimatea e di un altro calice, quello che avrebbe accolto il sangue del Cristo morente, esisteva da sempre un “vaso” di cui forse il Graal era davvero rappresentazione. Ma chi mai avrebbe potuto accettarlo? Come poteva il ventre di una donna e ciò che contiene essere la più ambita delle reliquie?
Nel 1994, nel dipartimento francese dell'Ardèche, esplorazioni speleologiche hanno inaspettatamente riportato alla luce i più antichi dipinti in grotta dell'intero pianeta. Nei meandri della grotta Chauvet, uomini impavidi e ingegnosi, 32000 anni fa, dipinsero un intero mondo di visioni. Ne è rimasto stregato il celebre regista, produttore e attore Herzog che, nel 2010, ha ultimato un commovente documentario dell'intero sito, intitolato “La grotta dei sogni dimenticati”.
I suoi 500 metri e più di estensione ospitano varie centinaia di pittogrammi. Ma è giù, nel profondo della terra, nella “camera” più lontana dall'ingresso, che giace su uno sperone roccioso il più antico di tutti. E' una “venere”, una dea madre, di cui sono ben intuibili le gambe e soprattutto l'attributo vulvare, la “porta” del suo grembo, di cui l'intera Chauvet è una grandiosa rappresentazione.
Quella madre fu dipinta anche nelle alpi, nell'Ossola remota dei “Leponzi”, nella parete scoscesa di una balma naturale affacciata sulla valle. Anche qui, come a Chauvet, ancora esiste. Come nell'Ardèche, dove fu trasformata nei suoi animali totemici (uno “stregone” o una divinità con le corna e la testa e un felino aggiunti successivamente, circa 26-27000 anni fa) anche in valle Antigorio è stata rappresentata attraverso il suo equivalente animale, il cervo, dal cui naso la vita viene soffiata in questo mondo.
In entrambi i luoghi le “preghiere sognanti” raccontano la stessa storia, fatta di ritmi, di ascese e discese, di nascita e di morte, di trasformazione, delle forze universali che si avvicendano nella magnifica danza della Creazione. Qui la vita raggiungeva il mondo dalle profondità siderali del cosmo, diventando materia, come suggeriscono le dee madri partorienti rinvenute a La Madeleine, ad Angles Sur l'Anglin e a Tursac accanto a entità animalesche cornute. Forse qui venivano portate le donne affinché il parto si svolgesse nel migliore dei modi. Quale luogo è più adatto alla nascita, infatti, del ventre profondo di Madre Terra, genitrice dell'Universo intero?
Alla grande madre di ogni cosa si sono rivolti i culti di ogni epoca. Con mille nomi l'hanno chiamata, a volte dimenticandola, a volte ricordandosi nuovamente di lei, come la dea stessa racconta nelle Metamorfosi di Apuleio: “Nel mondo io sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi”. È la Cibele dei Frigi, la Minerva degli Attici, la Venere cipriota, la Diana cretese, Ecate, Rammusia, Giunone, Proserpina.
Il suo nome più antico, però, è forse Isthar o Iside, quella di cui, nel tempio egizio di Sais era inciso sull'altare: “Io, Iside, sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà... Il frutto a cui ho dato nascita è il sole”. Il trono è il suo emblema, il trono è il “sostegno” della vita.
Viene ricordata e venerata dalla notte dei tempi e fino a tutta l'antichità. Poi, improvvisamente, qualcuno la solleva dal trono e spodestandola, la getta nell'oblio. All'incirca è un giorno di gennaio tra il 35 e il 39 d.C. Il cilicio Saulo, allievo del celebre filosofo gerosolimitano Gamaliele e feroce persecutore dei rivoltosi “cristiani”, cade e rimane parzialmente cieco mentre si reca a Damasco per proseguire la sua opera inquisitoria.
Ecco. Il feroce oppositore originario di Tarso, nato all'ombra di Iside, assalito dalle visioni insieme ad Anania come i sacerdoti della dea nel tempio di Philae, ben presto si rivolta contro i suoi stessi dei, dalle fattezze di animali: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Lettera ai Romani1).
Proclama invece il messaggio cristico come unica religione, inventando di fatto il Cristianesimo moderno. Ma non può sfuggire alle sue origini e non soddisfatto della guerra che sta portando alle “forze” e agli “enti” di cui è “figlio”, si dichiara unico depositario della sapienza divina: “ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Lettera ai Filippesi). L'onnipotenza di cui presto si fregia è senza dubbio quella che sta usurpando alla dea, alla Grande Regina Iside, chiamata appunto “Myrionima” proprio nella sua terra, la Cilicia in cui sorge Tarso.
Sfortunatamente per lui, continua ad ogni peregrinazione a dover fronteggiare la dea cosmocrate gnostica e i suoi sacerdoti, che addirittura gli si mostrerà come Artemide in Tessalonica. La dea, dunque, va definitivamente scalzata dal suo scranno. E ciò si compirà con la lettera ai Colossesi in cui, definitivamente, il Salvatore cristiano ne prende il posto: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ci aveva già provato tanto tempo prima il sovrano egizio Akhenaton, che aveva cercato di spazzare via tutti gli dei in favore di Aton, l'unico: “Tu hai l'eternità nelle membra, e tutte le creature vivono in te. [...] Tu li fai crescere per tuo figlio, colui che uscì dal tuo corpo...”. Ma solo il suo “pronipote” cilicio riuscì dove lui aveva fallito.
Sconfessata e privata della devozione, la dea, giace a lungo quale semplice figurazione della Sapienza divina solo per aver dato il natale a Gesù. Della vera teotokos rimane solo qualche riflesso nell'iconografia bizantina della Vergine. La Sapienza viene fatta sedere “sopra” il grembo della Madre, tolta a forza dal suo interno.
Mille anni la dea avrebbe atteso. Ci voleva una mente eccelsa ed illustre, quanto grettamente umana, perché di lei i popoli tornassero a parlare. Quando quel giorno del XII secolo alcune gocce del latte di sapienza stillarono dal suo seno direttamente nella bocca del monaco Bernardo, il tempo finalmente giunse. Egli ne divenne il nuovo alfiere. Come si era fregiato dei suoi attributi chi l'aveva sepolta, così avrebbe fatto il prodigioso teologo grazie al quale sarebbe tornata al suo posto negli altari. Bernardo era l'unico che si era abbeverato direttamente alla sedes sapientiae e nessun altro, nessun Abelardo di questo mondo gli avrebbe potuto passare innanzi.
I nascenti Templari sarebbero serviti allo scopo e il presule lo dichiara apertamente nella sua più discussa opera, la Lode alla nuova milizia: “Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione”. Lo scopo per cui l'ordine era stato fondato si sarebbe perso presto, fino a scomparire con il 1315 e la loro soppressione, ma altri ne avrebbero ampliato e proseguito l'opera.
Mentre i Cavalieri si diffondevano in tutto il vecchio mondo, i trovatori provenzali cominciarono a intessere le lodi alla Dea nella forma dell'amor cortese e nelle leggende del Graal. Certi re presero a farsi chiamare “trovatori della regina celestiale”, come i sovrani dell'antica Babilonia. Quel che non ci si ricordava veniva ripreso dai testi patristici del 6°-7° secolo (Liturgie basiliane, Gioie di Maria, Omelie della Vergine Maria di Germano di Costantinopoli, Lignum Crucis). Culti rinnovati si rivolsero alle oscure madri nere celate nelle cripte delle chiese. Riti perduti tenuti nascosti riemersero trasformati in usanze cristiane e alla paura del destino infausto che attendeva i bambini mort-né (morti-nati), i “mai nati”, si sostituì una nuova speranza nella madre dea, che concedeva loro una breve apparizione in questa vita affinché i loro corpicini potessero riposare in pace in terra consacrata.
La dea era tornata. Solo una cosa ancora mancava, una nuova effige della dea che riparasse al millenario affronto che le era stato inflitto dall'uomo. Sarebbe nata a metà del XIII secolo, dapprima in Portogallo e Spagna per poi diffondersi fino in Polonia e nelle terre germaniche. L'avrebbero sostituita alle altre al sommo degli altari. E i fedeli, avvicinandosi a questa nuova Madre assisa, come un grande trono su cui è seduto il “frutto del suo seno”, l'avrebbero vista aprirsi, spalancarsi come le porte della Gerusalemme celeste, per mostrare chiaramente la Sapienza di cui era il contenitore, il vaso.
Sarebbe durata poco. Già il Concilio di Trento ne avrebbe decretato la quasi totale scomparsa, condannandone la maggior parte delle figurazioni. A quelle che rimanevano avrebbe pensato Benedetto XIV nel 1745. Diversi erano i temi rappresentati dentro a queste “vierges ouvrantes”, vergini aprenti. Erano di legno, più raramente di avorio come il trono di Salomone ed erano costruite come scrigni,scatole, vasi, il cui coperchio si spalancava: alcune riproducevano scende tratte dalle Gioie della Madonna, altre episodi della Passione. Le più controverse e le ultime a resistere contenevano... la Trinità, la stessa vergata nelle absidi e nelle volte delle chiese. Nel ventre scuro (chiuso) di queste madonne pesantemente vestite, albergavano i tre princìpi, i costituenti dell'Universo, la Vera Sapienza che nella Grande Dea Terra trova realizzazione! E non dovrebbe sorprendere che molte di loro fossero esteriormente Madonne Lattanti.
Se ne conoscono oggi una settantina, ma ad eccezione di una manciata che si sono salvate dall'oblio del tempo, le altre sono soltanto riproduzioni tarde. La più antica è quella di Boubon. Due di quelle autentiche si trovano in Italia. Una, risalente al XV secolo, è ancora esposta nel museo del Castello di Pozzolo-Formigaro (VC), l'altra è stata pochi anni fa riconosciuta nella Parrocchiale di Ayas ed è proprio quella presso la quale si svolgeva il controverso rito della piuma o répit.
Nell'intenzione di chi la dipinse, forse, anche la Madonna di Re (VB), se fosse stata una statua, sarebbe stata una “Vierge ouvrante”. Il cartiglio ai suoi piedi, riprendendo le parole dei Padri della Chiesa, dice chiaramente “I gremio matris sedes sapientia patris”... la sede della Sapienza del Padre è nel grembo della madre, proprio dentro... non sulle sue ginocchia...
Una manciata di chilometri più a sud ovest, in Valle Strona, a Luzzogno, nel 1547, qualche anno dopo il miracolo presso l'affresco di Re, il vescovo Bascapé, in visita, ordina che l'antica madonna lattante sull'altare del piccolo santuario, venga privata del corpo “deteriorato e malconcio”. Perché la testa fu mantenuta mentre il corpo fu sostituito? Era forse il corpo eretico di una madre gnostica? Era forse un “vaso” che poteva aprirsi e mostrare verità scomode, inconfessabili, eretiche, pericolose?
Ormai era tardi. Quando l'Illuminismo arrivò la Dea si era di nuovo ritirata nel profondo delle cripte.
Il mondo non era ancora pronto, non meritava il suo ritorno.
E non lo è ancora.
NOTE
1La questione è stata ampiamente dibattuta ed è ragionevolmente provata, nonostante la controversia sulla effettiva paternità di San Paolo per molte delle “lettere” e dei testi che sono attribuite.
BIBLIOGRAFIA
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Chabanol, Renée, Les Vierges ouvrantes où à volets, ou statues triptyques, in Revue de la Société d’Histoire et d’archéologie de la Plaine de l’Ain (SHAPA), 2001
Clément, J.,Vierges ouvrantes , in La représentation de la Madonna à travers les âges, Paris, 1909
La voce della terra (parte 2)
...segue dalla prima parte...
In ogni territorio c'era almeno un luogo in cui era possibile udire le sibille, i sussurri della Grande Dea. Erano cinque ma era una, racconta il filosofo dei dialoghi. Presso l'omphalos, “ombelico” del mondo, origine dalla quale la vita discende, raccoglievano i discorsi e i pensieri della Dea per l'uomo, pieni di fondamento, di volizione, di sapienza, di giustizia, di tolleranza secondo i luoghi presso i quali essa li pronunciava. Nessuno mise mai in dubbio, confuso tra le voci e le loro ascoltatrici, che le sibille fossero davvero esistite.
Da quell'unica con cinque caratteri, diventarono nei secoli ben dieci, secondo Lucio Terenzio Varrone (I sec. a.C.), che l'aveva sostenuto appoggiandosi alle tradizioni, a Pitagora, a Virgilio, ad Apollodoro e agli altri suoi antichi predecessori greci. Il “reatino” racconta anche che una di queste sibille, la Cumana tanto cara a Roma, aveva messo alla prova già Tarquinio Prisco, offrendogli certi libri in cui erano raccolte tutte le profezie sibilline. Il re ne aveva ottenuti tre soltanto, gli ultimi rimasti, allo stesso prezzo cui la sibilla gliene aveva offerti, prima di bruciarli, nove e poi sei. Erano stati conservati nel tempio Capitolino fino all'83 d.C.
Avrebbero fatto eco a Varrone, tra gli altri, anche Plinio e Strabone, i quali, tuttavia, non riuscirono ad aggiungere elementi determinanti a una storia compromessa fin dall'inizio. Tant'è che già con Tacito non si sarebbe più distinta la realtà dalla leggenda. Secondo il celeberrimo storico, infatti, i libri sarebbero andati persi nel primo dei tre grandi incendi del I secolo a.C. che distrussero il Tempio di Giove sul Capitolium. Solo molti decenni dopo nuove copie dei libri reperite in mezzo mondo sarebbero tornate a Roma. Fu proprio tale racconto ad accendere più tardi le fantasie di Lattanzio, uno dei primi grandi scrittori latini cristianizzati, il quale recuperò il mito sibillino per renderlo prodigiosa anticipazione della venuta del Cristo.
Forse per allettare il paganesimo che andava convertito alla nuova religione, Lattanzio scrisse le sue Istituzioni Divine, affidandole alle sibille e agli scritti raccolti nei loro “libri” che riteneva degni di fede e assolutamente autentici. Ne era talmente convinto che nessuno degli autori successivi l'avrebbe mai messo in dubbio, neppure teologi di fama come Agostino d'Ippona (De Civitate Dei) e Isidoro di Siviglia (Etymologiae) o illustri scrittori medievali come Rabano Mauro, Vincenzo di Beauvais e Jacopo da Varagine. La scomparsa definitiva dei libri, distrutti all'inizio del V secolo, avrebbe fatto il resto, consegnando a Lattanzio il primato di essere l'ultimo a serbarne memoria scritta.
Le sibille stesse, dopo di lui, tacquero. L'ultima profezia fu, nel 363 d.C. quella della pizia delfica, Pito, “di non più profetizzare”. Moriva nello stesso anno Flavio Claudio Giuliano, l'apostata, ultimo imperatore romano della vecchia religione. Con lui iniziava l'irresistibile ascesa del Cristianesimo.
Due furono ancora periodi in cui le sibille tornarono a splendere e a vaticinare. Accadde nel XIII secolo, nel pieno delle crociate e della diffusione dell'ordine Templare che sul divino femminile si basava. Poi riemersero dal passato a metà del 1400 per mano – ironia della sorte – di uno di quelli che erano i peggiori nemici delle ultime pizie, le pronipoti di quelle sacerdotesse con l'udito fino che nei tempi passati avevano raccolto le voci delle sibille.
In anticipo su tutti, Michelangelo, Raffaello, Caravaggio già avevano cominciato timidamente a ritrarle. Ma fu il Discordantiae nonnullae inter SS Hieronymus et Augustinum dell'inquisitore domenicano Filippo Barberi edito ufficialmente nel 1481 sebbene già circolante molti anni prima, a riportare le antiche profetesse alla ribalta.
Il funzionario del Sant'Uffizio nella sua mirabile opera di teologia, disciplina nella quale, a quanto pare, era molto stimato, non solo raccoglie tutto lo scibile su sibille e profeti dell'Antico Testamento, ma addirittura, ne aumenta il numero delle sacerdotesse a 12, inserendo ulteriori figure completamente nuove, Agrippa, Europa e forse anche la Chimica, cui attribuisce ulteriori responsi tratti dalle Scritture.
Come se fosse stata richiamata dall'oblio, poco tempo dopo la voce della sibilla torna a farsi sentire. Nelle Americhe appena riscoperte da Colombo, nel 1531 la pizia Coatlaxopeuth, “colei che schiaccia il serpente”, l'azteca Tonanzin, fa di nuovo udire, dopo millenni, le sue parole e mostra il suo volto scuro sul lontano colle messicano del Tepeyac, a lei sacro.
Poco dopo, la pubblicazione dei primi Libri Sibillini in traduzione (Betuleius Xystus o Sixtus Byrken, Basilea 1545, il cui II libro sembra avere influssi gnostici riconducibili soprattutto al Vangelo degli Ebioniti), proprio nel bel mezzo del Concilio di Trento e mentre l'Inquisizione affila armi e metodi, consacra le sibille antiche quali uniche profetesse ammesse dalla Chiesa, diffondendole fin nelle più remote vallate.
Solo nel 1800 si sarebbe scoperto che i libri sibillini, tanto quelli antichi quanto quelli medievali altro non erano che testi del II secolo a.C. redatti ad Alessandria d'Egitto da autori di cultura giudaica, riscoperti e modificati in epoca protocristiana.
Così mentre le nuove disposizioni della Controriforma si propagano e i i suoi premurosi esecutori, intensificano la loro opera di distruzione, camuffando, modificando, nascondendo e cancellando i ritratti della Madre antica, soprattutto quelli più “sconci” di Vergini Lattanti, la Dea ricompare silenziosamente sotto nuove forme, in attesa di tempi migliori, nei medesimi luoghi e nelle stesse chiese da cui era stata cacciata, nelle città, nelle pianure e nelle più remote valli.
Accade anche nell'alta Ossola, non lontano dal confine svizzero, proprio tra il XV e il XVI secolo dove vengono dipinte all'interno di una chiesa romanica appena ristrutturata, le figure di almeno 28 sibille, insieme ad un grande ciclo di affreschi.
(continua...)
Nostradamus, Arbugio e il tesoro dei Templari
Al fascino dei Templari sembra non sia sfuggito neppure Nostradamus. A loro e all'ubicazione di una parte del tesoro dell'Ordine sarebbe infatti dedicata una “quartina” delle misteriose Centurie composte dal visionario provenzale e precisamente la XIII della X centuria: “Sotto la pastura d’animali ruminanti, / Da essi condotti al ventre erbipolico, / Soldati (saranno) nascosti, e armi producendo fragore, /(Verranno) messi alla prova non lontano dalla città d’Antibes”.
Non lontano infatti da quel gioiello che è oggi Antibes, l'antica Antipoli, una colonia greca in piena Costa Azzurra (insieme a Massalia/Marsiglia e Nikaia/Nizza), in perenne battaglia con le popolazioni celto-liguri locali degli Oxibeni e dei Deceati, si erano installati proprio i Templari fin dal 1207.
L'occasione era stata a fine marzo di quell'anno, la donazione da parte di Alfonso II, conte di Provenza, alla Milizia del Tempio, rappresentata dal maestro di Provenza William Candeil, di tutti i diritti sul maniero e i territori di Biot, l'antica Arbugio. Diciassette anni prima, l'ultima invasione musulmana della costa li aveva costretti alla ritirata da Nizza, dove erano insediati fin dal 1129 (si ritiene che la magione si trovasse da qualche parte nell'attuale quartiere di Saint Etiénne) verso Vence, dove il vescovo, Pietro II di Grimaldi, aveva consentito all'Ordine di riparare alla Bastide Saint-Laurent, dietro pagamento di un affitto annuale.
Chiesa della magione a Grasse
Il successore di Alfonso II, Raimond Berenger, avrebbe poi continuato nell'opera di promozione della presenza templare in Provenza con ulteriori donazioni in terreni e case a Biot, Nizza, Grasse e Vence. A metà del XIII secolo Nizza era sotto il controllo di Grasse. Biot invece mantenne la sua indipendenza per molto tempo.
Nonostante le continue donazioni, però, quando l'Ordine viene soppresso il magro inventario dei beni di Biot sembra indicare che la magione versasse in povertà. Solo due cavalieri vengono fatti prigionieri e trasferiti ad Aix en Provence, dove subiscono gli interrogatori degli inquisitori e dove probabilmente trovano poi la morte.
Eppure emerge da altri documenti che, solo qualche mese prima che fosse spiccata la condanna nei confronti della Milizia del Tempio, Biot risultava possedere quasi 1200 ettari di terreno nei dintorni, 23 cavalle e un buon numero di buoi e di puledri. Dove erano finite tutte quelle ricchezze? E sopratutto come avevano potuto finanziarne l'acquisto?
Già anni prima la magione era stata al centro di una complessa vicenda: il 26 dicembre 1296 alcuni abitanti di Antibes, attratti dalle loro ricchezze, avevano rubato diversi capi di bestiame di proprietà dei Templari di Biot. Affinché il maltolto fosse restituito, era intervenuto addirittura il priore di Nizza, Folco Berenger, che aveva ottenuto l'apertura di un'inchiesta formale da parte tribunale di Grasse.
Contemporaneamente si erano sviluppati attriti anche tra Biot e Villeneuve. I cavalieri avevano infatti sorpreso alcuni uomini a raccogliere legna nei boschi di proprietà dell'Ordine e li avevano scacciati. Per rappresaglia i concittadini degli interdetti avevano rubato due buoi e un asino, poi fatti restituire dal giudice. Le ostilità non si erano comunque placate e nel giugno 1298 il balivo di Villeneuve era arrivato al punto di far imprigionare due cavalieri.
Questa volta, in attesa di giustizia per i confratelli in catene, erano stati i Templari a vendicarsi, impossessandosi con la forza di molti beni dei cittadini di Villeneuve. La condanna nei loro confronti era giunta immediata e inattesa dal tribunale di Grasse, ma i due fratelli non erano stati liberati.
Di nuovo, nel maggio 1300, gli abitanti di Villeneuve, istigati dal balivo, avevano razziato i beni del Tempio, impadronendosi di 23 giumente e 8 puledri.
Neppure il ricorso al siniscalco di Provenza Raimondo de Lecto aveva risolto la diatriba, cui avrebbero messo fine soltanto i Cavalieri di Malta, subentrati ai Templari nel 1320.
Ma intanto le ricchezze di Biot, forse comprate attingendo al leggendario Tesoro dei Templari, erano scomparse nel nulla.
Oggi, i resti della presenza Templare a Biot sono pochi ma significativi. Una croce patente affiancata dal Tau greco fa ancora bella mostra di sé su una pietra inserita nel muro di un'abitazione che, probabilmente, è tutto ciò che rimane dell'antico oratorio di Sant'Antonio. Altri piccoli segni cruciformi esistono ancora sparsi nel paese.
Il doppio arco che conduce a Place Des Arcades, porta ancora il nome di “Passaggio dei Templari”. La piazza, poi, sorge sui resti della magione. Sembra che parte degli attuali passaggi coperti che la cingono facessero parte dei locali o delle stalle dell'Ordine.
In fondo alla piazza si apre il cortile che consente di accedere alla parrocchia dedicata a Santa Maria Maddalena, nume tutelare assai caro proprio ai Templari. Sul selciato sono ancora visibili due grandi croci dei Cavalieri Maltesi e la data 1564.
La chiesa è uno di quei rarissimi edifici ai quali si accede scendendo la scalinata verso la navata, anziché salendo. Inizialmente intitolata alla Vergine e andata distrutta nel XIV secolo, fu completamente ricostruita conservando l'impianto originario della chiesa romanica, a sua volta innalzata sui resti di un tempio romano (la prima colonna a sinistra entrando proviene proprio dal sacrario latino) e di un precedente tempio celtico dedicato al dio Arbugio. Questa divinità potrebbe Giove o più probabilmente l'Efesto greco, anche in considerazione della particolare geologia di Biot, che è situato sul bordo di un antico camino vulcanico, il cui centro è localizzato a circa 2 km a nord-ovest dell'abitato.
L'edificio ha una curiosa e insolita orientazione astronomica verso Sud-Est, direzione approssimativa del sorgere del sole all'alba del Solstizio Invernale. In tale momento, secondo gli antichi astrologi si apre infatti la “porta” detta “degli dei”, attraverso la quale le anime salgono ai cieli e le “influenze” superiori, gli angeli, scendono sulla terra.
Proprio agli angeli è dedicata tutta la prima cappella di sinistra detta appunto “degli angeli guardiani” o custodi. Uno di essi fa bella mostra di sé sull'altare, un altro in vesti rosse campeggia sul pennacchio d'angolo dell'arco.
La scelta si rispecchia nel particolare assetto energetico impresso all'edificio, che ha perciò richiesto lo spostamento del fonte battesimale sulla destra entrando, anziché, come di solito si usa, a sinistra.
Tre sono le rappresentazioni mariane: l'ancona della Vergine del Rosario accanto alla Cappella degli Angeli Guardiani; Notre Dame De Pitie, con il Cristo morto in grembo come la Pietà michelangiolesca, spesso invocata in Francia quale fautrice del prodigio del répit (la “resurrezione” temporanea dei bambini nati-morti o la momentanea venuta alla vita dei bambini mai nati, giusto il tempo necessario a ricevere il battesimo); la Vergine con il bambino in grembo nella Cappella del Rosario.
Altrettante sono le figurazioni della Maddalena, cui erano molto legati i Templari: la ceramica che sormonta all'esterno il portone di ingresso, l'affresco della Maddalena e della Crocefissione sopra la porta laterale sinistra, il dipinto della Maddalena nella cappella omonima.
BIBLIOGRAFIA:
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J. A. Durbec, Templiers et Hospitaliers en Provence et dans les Alpes- Maritimes, Le Mercure dauphinois, 2001
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Laurent Dailliez, I Templari in Provenza, Alpi Mediterraneo-Editions, Nizza, 1977
Damien Carraz, Cavalieri Templari nella Valle del Rodano Inferiore, Lione, 2005
Francesco Teruggi, Militum Christi, TriaSunt Associazione Culturale, 2014
Lalibela - La Croce e il Sador
Nel profondo del deserto etiopico, ben nascosta tra i torridi altipiani a nord di Addis Abeba, sorge ancora quella che, per un breve periodo, fu la capitale del potente regno axumita. La sua storia leggendaria comincia con la prodigiosa nascita del suo futuro edificatore, segnata dall'improvvisa comparsa di uno sciame di api che si posarono sulle sue membra. Fu così battezzato Lalibela, “le api riconoscono la sovranità”.