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Audesia e lo stregone
Nella penombra degli archi e delle volte intonacati ma cadenti, quando la prima lama di luce s'infila nel vano appena schiuso del portoncino d'ingresso, vescovi e madonne sgranano gli antichi occhi affrescati. Finalmente un raggio di sole buca la polverina sottile sospesa nell'aria, finalmente qualcuno si è ricordato di loro.
L'ultima frequentazione è di non più di due decenni fa. Poi di nuovo l'oblio. Si decise di scavare nel pavimento di San Lorenzo e quel che ne venne fuori... Ci si affrettò a sostenere e celebrare la fondatezza della leggenda, quella del diacono cristianizzatore che, insieme al fratello, poi approdato all'Isola di Orta, aveva rovesciato le are degli Agoni, sostituendole con gli altari del dio cattolico.
Ma su come davvero la Religione si fosse diffusa tra i pagani ai piedi dei laghi alto-piemontesi, mancavano -e in parte mancano- studi efficaci. Quanto agli scavi autunnali del lontano 1996, sono stati dati alle stampe soltanto resoconti tecnici. Una ricerca che, finalmente, ritessendo coraggiosamente i fili della storia, accordi le informazioni, le storie e le leggende, ancora tarda a nascere.
Di certo c'é che, tra il settembre e il dicembre di quell'anno, molte sorprese vennero fuori dal pavimento della malconcia chiesa dedicata al martire Lorenzo. Si sapeva, così narrano le cronache, che l'aveva fondata un missionario giunto da Egina nel V sec. circa. Giuliano, poi, si era costruito al suo interno -o lì accanto- una tomba per sé.
Le reliquie vi rimasero per alcuni secoli finché, in data ignota, furono tolte da quel sepolcro -si presume per proteggerle dagli invasori longobardi- e nascoste nella nuova Basilica del paese.
Di recente resti del castrum antico, di vetusti selciati e di vecchie cripte colme di ossa sono comparsi inavvertitamente nel corso di lavori di manutenzione sul colle che domina il paese. Avrebbero potuto “colmare molti vuoti” se non fossero stati frettolosamente ricoperti e riconsegnati all'oblio e al silenzio per colpa del solito, immancabile disinteresse e fastidio per le nostre origini, mascherato da “mancanza di fondi”.
Della presunta “traslazione” conosciamo solo il giorno, 24 Ottobre, come racconta il Diploma del 919 di Berengario I, che concede di organizzare in tale giornata una fiera annuale in onore del “santo” a Gozzano. All'epoca, come testimonia lo stesso documento, i resti del missionario si trovavano già da qualche parte nella chiesa pievana del paese.
Ma sarebbero venute alla luce quasi miracolosamente, poiché il punto esatto in cui furono inizialmente sepolte non è tutt'oggi noto, molto più tardi, poco prima della costruzione della cripta in cui sono ancora esposte.
Di chi sono davvero quelle ossa? Gli scavi a San Lorenzo avrebbero dovuto rispondere affermativamente a quella semplice domanda. Invece, hanno sollevato, insieme alle lapidi e a tre diversi pavimenti, una gran quantità di domande.
Sulla tomba primitiva di Giuliano sorsero almeno quattro edifici. La pavimentazione di quella attuale copre un intero cimitero che la occupa tutta. Voci non confermate, relative a saggi effettuati all'esterno, insinuano che l'area sepolcrale si estendesse ben oltre la prima chiesa, che vi fu poi costruita al di sopra.
Molte delle fosse, si è infatti scoperto, furono ricavate riutilizzando materiali provenienti da sepolture precedenti... precedenti al Cristianesimo. La lapide utilizzata come copertura di una di queste, la cui dedica si riferisce a una dea pagana, è ancora prudentemente conservata in qualche buio magazzino torinese.
“Autesai.kar/nitus.Petua [...]” recita il fregio, che sovrasta una ruota a quattro raggi e un simbolo composto da due semicerchi vicendevolmente tangenti, molto simili a certe figurazioni rupestri.
“ad Autesa eressero Petua [...]”: è la dedica di una donna, Petua -forse insieme ad altre- a una dea, come anche i simboli suggerirebbero, il cui nome è Autesa, non di certo un nome di luogo, anche se richiama da vicino denominazioni come Autessiodurum o Auxerre.
L'unico altro indizio appartiene a millenni più tardi e precisamente al 1612. È una notizia da fonte non confermata, riportata dal Bascapé nella sua “ Novaria seu de ecclesia Novariensi”, secondo cui quella chiesa era inizialmente dedicata non a San Lorenzo e neppure a San Giuliano, bensì a Maria.
Curiosamente, in effetti, il primo dedicatario noto, Lorenzo, viene festeggiato il 10 agosto, pochissimi giorni prima della festa dell'Assunta, della Vergine. Che questo fosse all'inizio un “luogo della terra”, successivamente romanizzato (come lasciano supporre diversi reperti ritrovati nelle tombe) ed infine cristianizzato?
Sotto al cenotafio che la tradizione racconta essere il sepolcro del “diacono”, è stata trovata una fossa voltata ben costruita. Altre due la fiancheggiano disponendosi come raggi intorno al perimetro esterno di una struttura semicircolare che non racchiude un altare.
L'identificazione dell'insieme come un “synthronon” bizantino (i primi esempi sono quelli della post-teodoriana nord di Aquileia e della pre-eufrasiana sud di Parenzo), una sorta di gradinata semicircolare di pietra su cui sedevano i prelati, è un tentativo che lascia aperti numerosi dubbi. Il “synthronon” era concepito per privilegio e auto-celebrazione dei vivi, la strana struttura sotto San Lorenzo pare invece una conseguenza delle sepolture sulla parte convessa.
Le tre tombe, pressoché coeve -del resto sono le più antiche- esistevano già prima della primitiva chiesa e i suoi occupanti erano semplici riutilizzatori delle fosse già presenti, come testimoniano le cassettine ritrovate in almeno due delle tre. I resti nelle cassette dovevano essere così importanti, che non erano stati tolti dalle fosse e sepolti altrove per far posto ai nuovi corpi, ma erano stati radunati e lasciati al loro posto.
Quando poi la prima chiesa fu costruita al di sopra di questo insieme, l'abside fu impostata in modo da inglobare le tombe, ma erano già così antiche che, non essendone visibili le parti terminali, l'emiciclo finì sovrapposto ai piedi degli occupanti di quelle laterali.
Il particolare “emiciclo”, inoltre, diversamente da un syntronon è chiuso sul fronte da un muro, in cui però si aprono ben due probabili ingressi, come lascia supporre la traccia di pavimentazione. Esternamente, in linea con il muro di chiusura, sono ancora visibili sui due lati le basi di due colonne o pilastri o forse basamenti, che sembrano una sorta di “guardiani” dell'insieme.
C'é poi una certa somiglianza tra questa struttura e il “sacellum” romano, oppure con i monumenti sardi detti “Tombe di giganti”. Ufficialmente vengono ritenuti tombe collettive. Ma la quantità di corpi ritrovati, per quanto abbondante, non suffraga appieno l'ipotesi che si trattasse di sepolcreti comunitari. Piuttosto, erano categorie specifiche di persone a essere seppellite, a più riprese, al loro interno.
Nella loro struttura simbolica, che sarà poi ripresa anche dal Cristianesimo, il grande emiciclo frontale delle “tombe” è la volta celeste, mentre i “sacerdoti” venivano tumulati nel lungo tunnel retrostante, “oltre il cielo”. Forse è lo stesso tunnel in cui dicono di trovarsi coloro che sperimentano gli stati di “pre-morte”. I “sepolti” erano così un medium, un tramite continuo tra il mondi dei vivi e quello dei morti.
A San Lorenzo le tre tombe si trovano altrettanto “oltre il cielo”. I corpi inoltre avevano la testa appoggiata su un “cuscino” ricavato da una pietra e orientato a est. Si ritiene che questo fosse un “privilegio” sacerdotale, ecclesiastico. Anche oggi, la cassa con il morto, in chiesa, viene per lo più posizionata con i piedi verso l'altare, che di solito si trova ad est. Il cielo, con il trapasso, diventa infatti la “nuova terra” su cui il defunto poserà i piedi.
Il “gigante” in senso spirituale, nelle “tombe” sarde e in San Lorenzo, fu invece posto con il capo e con il cuore nell'alto dei cieli, ma con i piedi ancora saldi su questa terra, cosicché potesse continuare a “benedire” i “fedeli” raccolti nell'emiciclo, esercitando le proprie “virtù” anche dopo la morte.
Le “legendae” in effetti, magnificano le capacità taumaturgiche del diacono gozzanese e del “fratello”, che vengono definiti “grandi medici”. Ma, curiosamente, il biografo non spende parole sui prodigi operati. Certo, sarebbe stato difficile attribuire a un solo individuo le guarigioni operate dalla terra stessa attraverso un “collegio” di sacerdoti pagani morti, gli stregoni della dea Audesia...
Ma potrei anche sbagliarmi.
BIBLIOGRAFIA
Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980
Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, Parrocchia di Gozzano, 1982
Aa. Vv., VI centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, Parrocchia di Gozzano, 1961
L. Pejrani Baricco, Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento, in cantino Wataghin et al., 1999
L. Pejrani Baricco, Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania, in Brogiolo 2003
M. Perotti, La “legenda” dei santi Giulio e Giuliano e gli inizi del Cristianesimo nel territorio novarese, in Novarien 19, 1989
Il gioiello segreto del Piaggio di Villadossola
Pochi sanno -quasi nessuno per la verità- che un piccolo gioiello, si nasconde nel bel mezzo di Villadossola, in bella vista dove tutti passano e pochi vedono. La storia sembra la solita: un “loco ameno” vicino a un fiume, un sasso o una sorgente; una prima cappella talmente antica che non ci si ricorda quando fu costruita; il suo ampliamento per farla diventare una chiesa più grande realizzato qualche secolo dopo. Infine, la costruzione iniziale convertita in cripta e sopra di essa l'edificazione di un'ulteriore chiesa, con tutte le successive modifiche del caso.
Ma non esistono due chiese, due moschee o due sinagoghe uguali. Ognuna ha una storia tutta sua che vale la pena raccontare. La storia dell'Assunta del Piaggio comincia così...
Esternamente solo le due doppie absidi coronate di archetti, sovrapposte e per metà sotto il livello stradale, attirano l'attenzione. Si scende nell'attuale cripta attraverso il passaggio recente ricavato sotto la sacrestia, un po' corridoio e un po' cantina. La cripta ha due absidi puntate ad Est. Una è più piccola, tozza e larga, l'altra è più stretta e pronunciata.
Entrambe dovevano essere dotate di altari importanti, come specificano gli Atti di Visita del 1596:”Est locus subterraneus sub parte ecclesia concameratus in quo sunt altaria duo parva nuda tollenda […] Essent demolienda dicta altaria aliqua cautione adhibita cum in eis essent aliquae reliquiae”.
In tutte e due si aprono due piccole finestrelle a feritoia che, probabilmente, puntano alle albe dei due solstizi. Così tutte le “posizioni” solari sono rappresentate. Entrambe le absidi si innestano su piccole navate ad esse in qualche modo proporzionate.
L'abside più antica, il primo luogo di culto, è la prima che si incontra. Toponomastica e geografia sembrano indicare che fosse una “capella ad Castrum”, luogo di culto di un castello o di una fortificazione lambita dal torrente Ovesca. “Se scavassimo qui intorno, troveremmo i resti delle mura del castrum e chissà cos'altro...”. La seconda abside e la seconda navata, aggiunte più tardi, sono più facilmente databili. Nonostante gli elementi aggiunti in epoche diverse, i costoloni romanici e la colonna centrale impostata quando fu eretta la chiesa superiore, certi piccoli dettagli e soprattutto la presenza all'esterno, proprio sulla specchiatura tra le due feritoie, di una croce rilevata in pietra che poggia su una V rovesciata, riportano all'epoca carolingia, tra il VIII e il IX secolo.
La cappella iniziale è dunque più antica, molto più antica e risale almeno al periodo in cui furono scritte le prime vite dei santi Giulio e Giuliano, secoli dopo la loro morte. Ai due fratelli si ascrive di solito la prima cristianizzazione del Novarese e dell'Ossola, ma alcune scoperte archeologiche e documentarie, non ultima la villa romana rinvenuta a Sizzano, cui nel V secolo era già annessa una piccola chiesa, sembrano piuttosto ascrivere la diffusione del cristianesimo all'iniziativa della nobiltà locale spinta da motivi non propriamente spirituali.
Non è escluso che a tale fenomeno possa ascriversi anche la chiesa primitiva del Piaggio. I saggi di scavo hanno infatti messo in evidenza che agli edifici primitivi era annesso un battistero, la cui posizione, attualmente corrisponderebbe a quella dello scalone di ingresso della chiesa “alta” e di cui in parte riprodurrebbe il perimetro. Tanto tempo fa, solo le chiese principali, quelle “pievane” disponevano di un battistero.
Esplorando e fotografando la cripta intanto, il “sapere cellulare” assimila e valuta, aggiungendo tessere al mosaico. Sarebbe troppo facile limitarsi alle variazioni indotte dalle acque sotterranee o al magnetismo terrestre. Ben più interessanti sono i cambiamenti indotti dalle forme, dai resti degli affreschi, dalla terra sottostante, nonostante l'aria “intorbidita” dal varco di accesso del corridoio.
In apparenza le due absidi sono “gemelle” ed entrambe interamente occupate da presenze maschili. In una campeggia il Pantocrator trecentesco nella mandorla mistica, nell'altra il Crocifisso, dello stesso periodo in corrispondenza della croce esterna e figure di vescovi guantati. Eppure le cellule non mentono. Il “catino” più antico, infatti, a dispetto del Cristo che lo domina, conserva intatta nella sua struttura formale la caratteristica nativa, di natura femminile, che gli appartiene. L'altro invece, sì, è un crogiolo di frequenze di tipo “maschile”.
Madre era la chiesa iniziale. Non fu mutata in una madre “più grande”, fu invece affiancata dal suo complementare, come se ci fosse stato un cambiamento di pensiero, come se si fosse deciso che il maschio dovesse prevalere sulla femmina. Ma l'uno non poteva fare a meno dell'altra, poiché l'uomo non è uomo senza la sua sposa e la donna altrettanto senza il suo sposo, perciò entrambi i caratteri furono lasciati. Con due absidi dunque fu rappresentato l'Universo intero.
Per fortuna e per sapienza, quando nel XI secolo, si procedette a costruire la nuova chiesa sopra quella esistente, non solo il santuario antico fu preservato mutandolo in cripta, ma il nuovo edificio fu altrettanto dotato di due absidi che riproponevano esattamente la stessa natura universale. I due antichi catini furono allora affrescati con il Crocifisso, i vescovi dai guanti candidi e il Pantocrator, di cui rimangono pochi resti. I nuovi invece furono abbelliti in accordo alle loro nature.
La Madre, dipinta – forse – dalla stessa mano che dipinse la Madonna di Re, sta distesa sulla faccia visibile dell'altare cubico, nell'abside che le compete. L'affresco sul fondo è nascosto da spessi strati di intonaco, ma c'é da scommettere che al centro ci fosse una Madonna. Ad essa si riferisce appunto il De Maurizi in una nota del 1929. Qualche traccia - scene “bucoliche” - è visibile dietro l'altare che regge la statua lignea ottocentesca dell'Assunta.
L'abside settentrionale superiore, in cui compaiono solo figure maschili, è di nuovo una scoperta. Le le cellule non mentono e dietro le emozioni subito riconoscono conoscenze perfette. Qui, il funzionamento di tutto ciò che esiste è visibile e rappresentato. Le tre figure trinitarie sono identiche, le somiglianze tra le coppie di “apostoli” non casuali. Perfino nelle coppe posate davanti alla trinità richiamano la verità energetica del cosmo. Il sinistro è decorato con linee serpentiformi verticali, il desto presenta solo linee orizzontali. Il mediano è un miscuglio degli altri due e insieme è qualcosa di molto diverso.
Le coppie sottostanti, così simili alle personificazioni trinitarie, sono ritratte in rapporti di amichevole scambio tra loro e adombrano il dipanarsi delle leggi universali che dalla trinità discendono.
Una diversa trinità, pare fosse stata dipinta inizialmente lì sotto: Cristo in croce, il Padre circondato dagli angeli alla sua destra, la Vergine alla sua sinistra. Il messaggio non è stato dunque mutato, solo ricomposto per adattarsi ai tempi nuovi.
Neppure la dedicazione è mutata. Già la chiesa primordiale era edificata “ad Saxum Sancte Marie”, contro quel sasso detto di Santa Maria, cui la cappella primitiva è ancora addossata da sempre, così che essi sono in perpetuo una cosa unica.
Grazie a Giulia Brizzi, Barbara Piana, Chiara Lagostina, Fabio Casalini, Alberto De Giuli e il parroco di Villadossola don Massimo Bottarel, senza i quali la visita non sarebbe stata possibile
BIBLIOGRAFIA
G. De Maurizi, L'Ossola e le sue valli, 1954
Tullio Bertamini, Fondazione delle parrocchie della valle Antrona, Novarien 1, 1967
Aa. Vv., Novara e la sua terra nei secoli XI e XII, 1980
Aa. vv., Chiesa di Santa Maria Assunta, Villarte, 2014
Nostradamus, Arbugio e il tesoro dei Templari
Al fascino dei Templari sembra non sia sfuggito neppure Nostradamus. A loro e all'ubicazione di una parte del tesoro dell'Ordine sarebbe infatti dedicata una “quartina” delle misteriose Centurie composte dal visionario provenzale e precisamente la XIII della X centuria: “Sotto la pastura d’animali ruminanti, / Da essi condotti al ventre erbipolico, / Soldati (saranno) nascosti, e armi producendo fragore, /(Verranno) messi alla prova non lontano dalla città d’Antibes”.
Non lontano infatti da quel gioiello che è oggi Antibes, l'antica Antipoli, una colonia greca in piena Costa Azzurra (insieme a Massalia/Marsiglia e Nikaia/Nizza), in perenne battaglia con le popolazioni celto-liguri locali degli Oxibeni e dei Deceati, si erano installati proprio i Templari fin dal 1207.
L'occasione era stata a fine marzo di quell'anno, la donazione da parte di Alfonso II, conte di Provenza, alla Milizia del Tempio, rappresentata dal maestro di Provenza William Candeil, di tutti i diritti sul maniero e i territori di Biot, l'antica Arbugio. Diciassette anni prima, l'ultima invasione musulmana della costa li aveva costretti alla ritirata da Nizza, dove erano insediati fin dal 1129 (si ritiene che la magione si trovasse da qualche parte nell'attuale quartiere di Saint Etiénne) verso Vence, dove il vescovo, Pietro II di Grimaldi, aveva consentito all'Ordine di riparare alla Bastide Saint-Laurent, dietro pagamento di un affitto annuale.
Chiesa della magione a Grasse
Il successore di Alfonso II, Raimond Berenger, avrebbe poi continuato nell'opera di promozione della presenza templare in Provenza con ulteriori donazioni in terreni e case a Biot, Nizza, Grasse e Vence. A metà del XIII secolo Nizza era sotto il controllo di Grasse. Biot invece mantenne la sua indipendenza per molto tempo.
Nonostante le continue donazioni, però, quando l'Ordine viene soppresso il magro inventario dei beni di Biot sembra indicare che la magione versasse in povertà. Solo due cavalieri vengono fatti prigionieri e trasferiti ad Aix en Provence, dove subiscono gli interrogatori degli inquisitori e dove probabilmente trovano poi la morte.
Eppure emerge da altri documenti che, solo qualche mese prima che fosse spiccata la condanna nei confronti della Milizia del Tempio, Biot risultava possedere quasi 1200 ettari di terreno nei dintorni, 23 cavalle e un buon numero di buoi e di puledri. Dove erano finite tutte quelle ricchezze? E sopratutto come avevano potuto finanziarne l'acquisto?
Già anni prima la magione era stata al centro di una complessa vicenda: il 26 dicembre 1296 alcuni abitanti di Antibes, attratti dalle loro ricchezze, avevano rubato diversi capi di bestiame di proprietà dei Templari di Biot. Affinché il maltolto fosse restituito, era intervenuto addirittura il priore di Nizza, Folco Berenger, che aveva ottenuto l'apertura di un'inchiesta formale da parte tribunale di Grasse.
Contemporaneamente si erano sviluppati attriti anche tra Biot e Villeneuve. I cavalieri avevano infatti sorpreso alcuni uomini a raccogliere legna nei boschi di proprietà dell'Ordine e li avevano scacciati. Per rappresaglia i concittadini degli interdetti avevano rubato due buoi e un asino, poi fatti restituire dal giudice. Le ostilità non si erano comunque placate e nel giugno 1298 il balivo di Villeneuve era arrivato al punto di far imprigionare due cavalieri.
Questa volta, in attesa di giustizia per i confratelli in catene, erano stati i Templari a vendicarsi, impossessandosi con la forza di molti beni dei cittadini di Villeneuve. La condanna nei loro confronti era giunta immediata e inattesa dal tribunale di Grasse, ma i due fratelli non erano stati liberati.
Di nuovo, nel maggio 1300, gli abitanti di Villeneuve, istigati dal balivo, avevano razziato i beni del Tempio, impadronendosi di 23 giumente e 8 puledri.
Neppure il ricorso al siniscalco di Provenza Raimondo de Lecto aveva risolto la diatriba, cui avrebbero messo fine soltanto i Cavalieri di Malta, subentrati ai Templari nel 1320.
Ma intanto le ricchezze di Biot, forse comprate attingendo al leggendario Tesoro dei Templari, erano scomparse nel nulla.
Oggi, i resti della presenza Templare a Biot sono pochi ma significativi. Una croce patente affiancata dal Tau greco fa ancora bella mostra di sé su una pietra inserita nel muro di un'abitazione che, probabilmente, è tutto ciò che rimane dell'antico oratorio di Sant'Antonio. Altri piccoli segni cruciformi esistono ancora sparsi nel paese.
Il doppio arco che conduce a Place Des Arcades, porta ancora il nome di “Passaggio dei Templari”. La piazza, poi, sorge sui resti della magione. Sembra che parte degli attuali passaggi coperti che la cingono facessero parte dei locali o delle stalle dell'Ordine.
In fondo alla piazza si apre il cortile che consente di accedere alla parrocchia dedicata a Santa Maria Maddalena, nume tutelare assai caro proprio ai Templari. Sul selciato sono ancora visibili due grandi croci dei Cavalieri Maltesi e la data 1564.
La chiesa è uno di quei rarissimi edifici ai quali si accede scendendo la scalinata verso la navata, anziché salendo. Inizialmente intitolata alla Vergine e andata distrutta nel XIV secolo, fu completamente ricostruita conservando l'impianto originario della chiesa romanica, a sua volta innalzata sui resti di un tempio romano (la prima colonna a sinistra entrando proviene proprio dal sacrario latino) e di un precedente tempio celtico dedicato al dio Arbugio. Questa divinità potrebbe Giove o più probabilmente l'Efesto greco, anche in considerazione della particolare geologia di Biot, che è situato sul bordo di un antico camino vulcanico, il cui centro è localizzato a circa 2 km a nord-ovest dell'abitato.
L'edificio ha una curiosa e insolita orientazione astronomica verso Sud-Est, direzione approssimativa del sorgere del sole all'alba del Solstizio Invernale. In tale momento, secondo gli antichi astrologi si apre infatti la “porta” detta “degli dei”, attraverso la quale le anime salgono ai cieli e le “influenze” superiori, gli angeli, scendono sulla terra.
Proprio agli angeli è dedicata tutta la prima cappella di sinistra detta appunto “degli angeli guardiani” o custodi. Uno di essi fa bella mostra di sé sull'altare, un altro in vesti rosse campeggia sul pennacchio d'angolo dell'arco.
La scelta si rispecchia nel particolare assetto energetico impresso all'edificio, che ha perciò richiesto lo spostamento del fonte battesimale sulla destra entrando, anziché, come di solito si usa, a sinistra.
Tre sono le rappresentazioni mariane: l'ancona della Vergine del Rosario accanto alla Cappella degli Angeli Guardiani; Notre Dame De Pitie, con il Cristo morto in grembo come la Pietà michelangiolesca, spesso invocata in Francia quale fautrice del prodigio del répit (la “resurrezione” temporanea dei bambini nati-morti o la momentanea venuta alla vita dei bambini mai nati, giusto il tempo necessario a ricevere il battesimo); la Vergine con il bambino in grembo nella Cappella del Rosario.
Altrettante sono le figurazioni della Maddalena, cui erano molto legati i Templari: la ceramica che sormonta all'esterno il portone di ingresso, l'affresco della Maddalena e della Crocefissione sopra la porta laterale sinistra, il dipinto della Maddalena nella cappella omonima.
BIBLIOGRAFIA:
J.A. Durbec, Biot Beau Village De Provence, Association des Amis du Musée de Biot, 2009
J. A. Durbec, Templiers et Hospitaliers en Provence et dans les Alpes- Maritimes, Le Mercure dauphinois, 2001
E. G. Leonard, Introduction au cartulaire manuscrit du Temple (1150–1317) constitué par le marquis d’Albon.
Laurent Dailliez, I Templari in Provenza, Alpi Mediterraneo-Editions, Nizza, 1977
Damien Carraz, Cavalieri Templari nella Valle del Rodano Inferiore, Lione, 2005
Francesco Teruggi, Militum Christi, TriaSunt Associazione Culturale, 2014
Santuario Madonna di Oropa, Migiandone: moderne antiche conoscenze
Che le conoscenze antiche non vadano mai del tutto perse è un fatto con cui a volte ci si trova faccia a faccia all'improvviso e non senza grande sorpresa. Così mi è accaduto, visitando un piccolo Santuario tra le alture dell'Ossola, proprio dietro la Punta di Migiandone. Salito attraverso la mulattiera della Linea Cadorna che porta fino al forte di Bara, ho proseguito oltre la “punta”, seguendo la vecchia “strada delle cappelle”, fino ad attraversare i ruderi dell'alpe La Villa e a raggiungere il piccolo Santuario della Madonna di Oropa.
Il complesso di candida calce con il tetto in piode scurite dal tempo, è ben visibile dalla valle, aggrappato alla montagna sopra Migiandone. Ci si può arrivare anche dall'abitato, percorrendo la via Crucis consumata dal tempo che comincia nella piazza.
Probabilmente dove sorse il Santuario esisteva già, come molto spesso accade, una cappella, non più visibile/esistente, dove oggi si trova l'altare maggiore. In ogni caso, la fondazione e costruzione è recente. Tale Gaspare Bessero, cercatore d'oro in Valle Anzasca, pare si trovasse in difficoltà poiché aveva perso il filone nella miniera. Così, passando dal Santuario di Oropa nel Biellese, fece voto di costruire in Ossola un Santuario dedicato alla Vergine Nera, se la Madonna l'avesse aiutato a ritrovare l'oro. Il “prodigio” si verificò e nel 1820 si provvide a cominciare la costruzione del futuro Santuario.
Certamente chi individuò il luogo e progettò il complesso non si è lasciato sfuggire alcun dettaglio e ha fatto le cose per bene. La porzione di montagna alle spalle di Migiandone, nella parte bassa della valle e ricca di rame, (nell'Ottocento qui esisteva una miniera)1 è certamente in perfetta risonanza con la Vergine Nera portatrice di vita feconda e il pianoro è, in tutta quest'area risonante, il punto migliore.
L'insieme è formato dalla chiesa, a croce greca e orientata verso Sud, con annessa sacrestia, campanile e locali d'abitazione. Un porticato a forma di U svasato la cinge sui lati ed il retro. Come ho potuto verificare, il complesso, era concepito come un percorso in tre tappe, un vero e proprio cammino. L'accesso principale era attraverso la Via Crucis. Ogni stazione, oltre a presentare uno dei passaggi salienti della Passione di Cristo, riportava in un motivo discoidale nel timpano una scena evangelica legata alla Vergine, in un delicato gioco di richiami e rimandi. Così, la prima stazione che si incontra salendo -l'unica ancora discretamente conservata, gli affreschi delle altre sono in gran parte perduti- mostra il momento in cui Cristo prende la croce e al di sopra, l'incontro di Maria con Santa Elisabetta.
La seconda tappa, per chi giungeva dal basso, era il passaggio nel porticato, che si apriva verso la chiesa in dodici punti.
Sul muro corrispondente ad ognuno, era di nuovo rappresentata la vita della Vergine, a partire dalla sua nascita, fino all'Assunzione. Un tredicesimo affresco, sul fondo dell'ultimo tratto concludeva il ciclo con l'Incoronazione di Maria.
Solo questo si conserva ancora, insieme ai primi due della serie, che però sono in un grave stato di abbandono, deturpati dalla mancanza di rispetto di noi contemporanei. Gli altri, nonostante i tentativi di proteggerli, si sono già sgretolati.
Compiuto il camminamento, si poteva accede attraverso una delle aperture laterali, direttamente al portico della chiesa e all'interno del Santuario, avvicinandosi prima all'altare di sinistra, poi a quello centrale ed infine a quello di destra.
Armonicamente, come in un “labirinto” antico, la prima parte serpeggiava in salita invitando il pellegrino a lasciare dietro di sé ogni cosa, il camminamento coperto procedeva in senso antiorario preparandolo lentamente, quello in chiesa in senso orario l'amorevole attenzione della Vergine ai fedeli.
L'intero percorso non era strettamente necessario a chi giungeva invece agli alpeggi. O perché vi era già passato salendo oppure perché veniva da Ornavasso e dai Santuari del Boden e della Guardia. Entrando da Est, accedeva direttamente, dall'ultima tappa del corridoio coperto, alla chiesa.
Una leggenda racconta del tesoro nascosto all'Oropa di Migiandone. Pare che Gaspare Bessero, lungimirante, avesse nascosto parte dell'oro prodigiosamente ritrovato grazie alla Madonna Nera, in un luogo sicuro: dietro (o dentro) la statua della Vergine. Dopo averlo personalmente deposto, aveva lasciato detto, ai pochi messi al corrente del segreto, che avrebbe dovuto essere prelevato soltanto cent'anni dopo, al preciso scopo di servire per gli inevitabili interventi di restauro e conservazione del santuario.
Quando, trascorso il tempo, si procedette all'ispezione del nascondiglio, però, fu trovato vuoto. Ma in quei cento anni l'intera parentela di Gaspare Bessero si era estinta a causa di malanni e infinite sfortune. Sicché le voci di popolo riconobbero presto, nei parenti del cercatore d'oro, i colpevoli e nella loro sorte la giusta punizione che la Provvidenza aveva riservato a quegli avidi traditori...
NOTE
1"78/1. Migiandone. Miniera di rame in Comune di Migiandone, Circondario di Pallanza, Provincia di Novara concessa con Decreto R. 6 febbraio 1858 ai sigg.ri Carlo Pelham Clinton, ingegnere Nicola Harvey e dottore ingegnere William Watson, avente l'estensione di ettari 138.58.32". 1858-1877
BIBLIOGRAFIA
Remo Bessero Belti,La Madonna d'Oropa di Migiandone, 1985
C. Jonghi Lavarini, Ornavasso nella sua storia sacra e civile, 1934
E. Bianchetti, L'Ossola Inferiore, 1878
MURA POLIGONALI: quando l'uomo coglieva le stelle
Capita, ripescando un vecchio libro, di leggervi cose che, in precedenza, erano sfuggite perché non riconosciute oppure non comprese. Ci si torna su a volte dopo anni e a quel punto, con un poco di esperienza cristallizzata in più, si scorgono, nelle stesse parole lette molto tempo prima, nuovi e inattesi discorsi.
Il più intrigante, accurato, poetico e controverso lavoro mai fatto sulla cultura ancestrale del popolo Dogon è, ad oggi, senza dubbio quello che l'antropologo francese Marcel Griaule raccolse nel libro “Dio d'Acqua”. Protagonista è un vecchio cacciatore cieco di nome Ogotemmêli il quale, per ricambiarlo di un non del tutto chiaro favore, comincia a raccontare all'antropologo l'essenza delle tradizioni Dogon. Durante i ripetuti colloqui il saggio letteralmente “scompone il sistema del mondo”, spiegando tecnicamente e con raffinatezza impareggiabile le forze e i ritmi del divenire fin dall'inizio dei tempi.
MAGDALENA (parte III) - Le reliquie dei Sette di Betania
Concludiamo l'excursus nella leggenda dei Sette di Betania con la vicenda del ritrovamento delle reliquie a loro attribuite.
Sui luoghi dove la tradizione ricordava fossero sepolti Lazzaro, le due Marie con Sara, Marta, Magdalena, Massimino e Sidonio, sorsero con i secoli piccole chiese-mausoleo. Ma le scorrerie saracene nel Mediterraneo al grido «La ilaha illa lllah» (Dio è Dio), soprattutto da che gli islamici si erano acquartierati proprio in Provenza, a Frassineto, per razziare le coste francesi e liguri nel IX secolo, avevano costretto i popoli gallici della costa a nascondere i loro santi per proteggerli. Le scarse cronache ipotizzano che fossero state traslate in gran segreto in monasteri inaccessibili o che si trovassero nei forzieri di qualche signorotto locale. Ma erano solo voci e non fecero che alimentare leggende senza fondamento. Dei possibili resti santi, insomma, si finì per perdere, almeno apparentemente, ogni traccia.
MAGDALENA (parte II) - Le vicende dei Sette di Betania
Con questo post continuiamo a seguire le peripezie della compagnia giudaica dopo lo sbarco in Provenza.
Giunte al termine della loro esistenza, Maria Jacobè per prima, secondo la tradizione e Maria Salomè poco tempo dopo, vengono sepolte in una tomba appositamente preparata per loro nella piccola chiesa di Ratis. La fama delle loro gesta e dei miracoli che continuano a produrre anche dopo la morte cresce rapidamente. A loro si aggiunge presto Sara, sepolta "in odor di santità" accanto alle due Marie. Già nel IV secolo, il povero oratorio viene sostituito con una chiesa più grande e maestosa, dedicata alla Vergine, cui viene affiancato un monastero delle Religiose di Arles.
Il mistero megalitico dei bal-men
Quando si parla di megalitismo, soprattutto nel Vecchio Continente l'associazione immediata che si impone è con gli enigmatici dolmen e con le file di menhir che svettano verso il cielo, sparsi un po' in tutto il globo. Ma ci sono altri enigmatici relitti di quel tempo sparsi anche tra le nostre montagne.
Taj Mahal: Tomba o tempio vedico? - quarta parte
In questo ultimo post concludiamo l'indagine sul Taj Mahal e sull'ipotesi della sua origine Indù, anche con l'ausilio della radioestesia.
Analizziamo l'architettura del Taj.
Il Taj è ottagonale. La forma ottagonale è importante per l'Islam ma ha un valore speciale sorpattutto per l'induismo nell'architettura. Otto sono le direzioni astronomiche fondamentali e a ognuna presiede una “guardia”. Le altre due direzioni sono rappresentate dal basamento che indica la terra e dal pinnacolo che indica il cielo. Le dieci direzioni sono così sempre presenti nelle architetture induiste, raffigurate con forme ottagonali inserite tra basamenti e pinnacoli.