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La voce della terra (parte 2)
...segue dalla prima parte...
In ogni territorio c'era almeno un luogo in cui era possibile udire le sibille, i sussurri della Grande Dea. Erano cinque ma era una, racconta il filosofo dei dialoghi. Presso l'omphalos, “ombelico” del mondo, origine dalla quale la vita discende, raccoglievano i discorsi e i pensieri della Dea per l'uomo, pieni di fondamento, di volizione, di sapienza, di giustizia, di tolleranza secondo i luoghi presso i quali essa li pronunciava. Nessuno mise mai in dubbio, confuso tra le voci e le loro ascoltatrici, che le sibille fossero davvero esistite.
Da quell'unica con cinque caratteri, diventarono nei secoli ben dieci, secondo Lucio Terenzio Varrone (I sec. a.C.), che l'aveva sostenuto appoggiandosi alle tradizioni, a Pitagora, a Virgilio, ad Apollodoro e agli altri suoi antichi predecessori greci. Il “reatino” racconta anche che una di queste sibille, la Cumana tanto cara a Roma, aveva messo alla prova già Tarquinio Prisco, offrendogli certi libri in cui erano raccolte tutte le profezie sibilline. Il re ne aveva ottenuti tre soltanto, gli ultimi rimasti, allo stesso prezzo cui la sibilla gliene aveva offerti, prima di bruciarli, nove e poi sei. Erano stati conservati nel tempio Capitolino fino all'83 d.C.
Avrebbero fatto eco a Varrone, tra gli altri, anche Plinio e Strabone, i quali, tuttavia, non riuscirono ad aggiungere elementi determinanti a una storia compromessa fin dall'inizio. Tant'è che già con Tacito non si sarebbe più distinta la realtà dalla leggenda. Secondo il celeberrimo storico, infatti, i libri sarebbero andati persi nel primo dei tre grandi incendi del I secolo a.C. che distrussero il Tempio di Giove sul Capitolium. Solo molti decenni dopo nuove copie dei libri reperite in mezzo mondo sarebbero tornate a Roma. Fu proprio tale racconto ad accendere più tardi le fantasie di Lattanzio, uno dei primi grandi scrittori latini cristianizzati, il quale recuperò il mito sibillino per renderlo prodigiosa anticipazione della venuta del Cristo.
Forse per allettare il paganesimo che andava convertito alla nuova religione, Lattanzio scrisse le sue Istituzioni Divine, affidandole alle sibille e agli scritti raccolti nei loro “libri” che riteneva degni di fede e assolutamente autentici. Ne era talmente convinto che nessuno degli autori successivi l'avrebbe mai messo in dubbio, neppure teologi di fama come Agostino d'Ippona (De Civitate Dei) e Isidoro di Siviglia (Etymologiae) o illustri scrittori medievali come Rabano Mauro, Vincenzo di Beauvais e Jacopo da Varagine. La scomparsa definitiva dei libri, distrutti all'inizio del V secolo, avrebbe fatto il resto, consegnando a Lattanzio il primato di essere l'ultimo a serbarne memoria scritta.
Le sibille stesse, dopo di lui, tacquero. L'ultima profezia fu, nel 363 d.C. quella della pizia delfica, Pito, “di non più profetizzare”. Moriva nello stesso anno Flavio Claudio Giuliano, l'apostata, ultimo imperatore romano della vecchia religione. Con lui iniziava l'irresistibile ascesa del Cristianesimo.
Due furono ancora periodi in cui le sibille tornarono a splendere e a vaticinare. Accadde nel XIII secolo, nel pieno delle crociate e della diffusione dell'ordine Templare che sul divino femminile si basava. Poi riemersero dal passato a metà del 1400 per mano – ironia della sorte – di uno di quelli che erano i peggiori nemici delle ultime pizie, le pronipoti di quelle sacerdotesse con l'udito fino che nei tempi passati avevano raccolto le voci delle sibille.
In anticipo su tutti, Michelangelo, Raffaello, Caravaggio già avevano cominciato timidamente a ritrarle. Ma fu il Discordantiae nonnullae inter SS Hieronymus et Augustinum dell'inquisitore domenicano Filippo Barberi edito ufficialmente nel 1481 sebbene già circolante molti anni prima, a riportare le antiche profetesse alla ribalta.
Il funzionario del Sant'Uffizio nella sua mirabile opera di teologia, disciplina nella quale, a quanto pare, era molto stimato, non solo raccoglie tutto lo scibile su sibille e profeti dell'Antico Testamento, ma addirittura, ne aumenta il numero delle sacerdotesse a 12, inserendo ulteriori figure completamente nuove, Agrippa, Europa e forse anche la Chimica, cui attribuisce ulteriori responsi tratti dalle Scritture.
Come se fosse stata richiamata dall'oblio, poco tempo dopo la voce della sibilla torna a farsi sentire. Nelle Americhe appena riscoperte da Colombo, nel 1531 la pizia Coatlaxopeuth, “colei che schiaccia il serpente”, l'azteca Tonanzin, fa di nuovo udire, dopo millenni, le sue parole e mostra il suo volto scuro sul lontano colle messicano del Tepeyac, a lei sacro.
Poco dopo, la pubblicazione dei primi Libri Sibillini in traduzione (Betuleius Xystus o Sixtus Byrken, Basilea 1545, il cui II libro sembra avere influssi gnostici riconducibili soprattutto al Vangelo degli Ebioniti), proprio nel bel mezzo del Concilio di Trento e mentre l'Inquisizione affila armi e metodi, consacra le sibille antiche quali uniche profetesse ammesse dalla Chiesa, diffondendole fin nelle più remote vallate.
Solo nel 1800 si sarebbe scoperto che i libri sibillini, tanto quelli antichi quanto quelli medievali altro non erano che testi del II secolo a.C. redatti ad Alessandria d'Egitto da autori di cultura giudaica, riscoperti e modificati in epoca protocristiana.
Così mentre le nuove disposizioni della Controriforma si propagano e i i suoi premurosi esecutori, intensificano la loro opera di distruzione, camuffando, modificando, nascondendo e cancellando i ritratti della Madre antica, soprattutto quelli più “sconci” di Vergini Lattanti, la Dea ricompare silenziosamente sotto nuove forme, in attesa di tempi migliori, nei medesimi luoghi e nelle stesse chiese da cui era stata cacciata, nelle città, nelle pianure e nelle più remote valli.
Accade anche nell'alta Ossola, non lontano dal confine svizzero, proprio tra il XV e il XVI secolo dove vengono dipinte all'interno di una chiesa romanica appena ristrutturata, le figure di almeno 28 sibille, insieme ad un grande ciclo di affreschi.
(continua...)
La chiesa-bambino e il passaggio tra i mondi
Ai piedi del colle di Mattarella, detto oggi Calvario, poco a sud di Domodossola, sorge una piccola chiesa e gioiello romanico, dedicata ad un bambino, il martire infante Quirico. Più di cinquanta diverse versioni raccontano la sua morte violenta, insieme a quella della madre Giulitta. Originari di Iconio (Licaonia) fuggono in direzione di Tarso al tempo delle persecuzioni di Diocleziano, ma lungo la strada vengono fatti arrestare dal governatore di Cilicia Alessandro.
La madre viene posta sotto tortura davanti agli occhi del figlio, tenuto sulle ginocchia dal governatore stesso, ma non cede e non abiura. Quirico ad un certo punto, esclama: “Anch'io sono cristiano”, scatenando le ire di Alessandro che lo scaglia sui gradini del tribunale uccidendolo. La madre intanto viene consegnata al boia. Accadeva nel 304-305 d.C. Solo dieci anni più tardi Costantino avrebbe reso il Cristianesimo religione di stato.
I due martiri sono solitamente inscindibili... a Calice invece è ricordato solo San Quirico. Si può azzardare che l'iniziale dedicazione coinvolgesse entrambi e che, successivamente, uno dei due per qualche motivo sia stato progressivamente dimenticato. Si sa che, a volte, il piccolo martire è stato confuso con l'omonimo milite della Legione Tebea. E se invece la “madre” fosse altrove? C'é forse un'altra chiesa che funge da “madre” così come questa è il “figlio”?
In effetti la risposta è affermativa. Ma non è il Sacro Monte sovrastante. Nelle sue vicinanze, proprio sopra San Quirico, esiste ancora, lontana dagli sguardi dei curiosi, non visitabile, parte del muro perimetrale di un'antichissima chiesa a pianta circolare. Si dice, così riportano le cronache, che fosse dedicata a... Santa Maria.
I suoi ruderi si elevano su un grande masso inciso con coppelle e un “affilatoio”. Quale che sia la loro vera funzione, sono senza dubbio il segno della sacralità continua del luogo, già venerato evidentemente molto prima dell'avvento del Cristianesimo.
Così è anche per San Quirico, nel cui muro meridionale, all'esterno, furono inseriti due conci provenienti da un edificio precedente, su cui sono scolpiti una sorta di maschera in negativo (quella di un dio?) e i profili di tre personaggi, forse sacerdoti.
Ecco dunque le due chiese, figlio e madre. San Quirico si trovava presumibilmente sull'antica strada che dalla piana saliva fino al colle di Mattarella, passando appunto per entrambe le chiese. L'oratorio di Calice doveva perciò essere una specie di “porta” di accesso al monte santo. Circondato da tombe su tre lati, aveva un'entrata e un'uscita sui lati opposti della navata, anziché un unico accesso sul fondo. Doveva essere insomma una sorta di “passaggio” tra mondi, quello umano e quello celeste.
In natura il bambino riconosce la madre, l'adulto finisce per dimenticarsela. Questo sembra il messaggio: se torni “fanciullo” riconoscerai la vera “madre”.
Non può certo mancare, presso la porta del cielo, attraverso la quale solo i “bambini” (i puri di cuore) passano, il nobile guardiano Michele arcangelo. Ad ali aperte in un abbraccio, là dove deve stare, lo troviamo insolitamente ritratto mentre infilza con una lunga lancia non il drago ma un demone nero. Il drago è vicino, sopra di lui, in forma di serpenti, dominati dal noto santo sauroctono locale, l'apollineo San Giulio.
Nella sinistra Michele regge la bilancia con cui sta soppesando un uomo e una donna posati nei due piatti. Sono riconoscibili soprattutto per il loro “atteggiamento” maschile e femminile. Principe delle milizie celesti, guerriero nel senso di “portatore e amministratore di giustizia”, l'arcangelo è la nemesi del demone, il suo opposto in cui sembra quasi specchiarsi. La sua lancia termina con una croce, così come la coda del diavolo termina con una croce verso il basso. Il principe è ritratto mentre affonda l'asta nella bocca satanica dell'avversario, o forse negli occhi, incapaci di discernere il giusto dall'ingiusto.
L'unico vero demone è nella bocca di chi parla, negli occhi di chi guarda.
Riecheggia la leggenda di San Qurico e Giulitta, in cui è un “amministratore di giustizia” incapace, antitetico all'arcangelo, nero come il demone “re” e “governatore” dell'inferno, a condannare il bimbo e la madre.
L'unica corona visibile nella piccola chiesa è però quella che un angelo sta ponendo sul capo di una santa, all'opposto di Michele. Santa Caterina di Alessandria? Santa Giulitta?
Le pupille dei suoi occhi, così disuguali, paiono le due “luci” celesti, il sole e la luna, le due “fonti” di discernimento che illuminano la giustizia. Le decorazioni “a punta di lancia”, a “fleur de lys” della lunga veste si ritiene siano tipiche, per colori e motivi, della casata dei De Rodis, feudatari dell'alta Ossola. E se questa “santa” fosse in realtà un'allegoria della casata, della dinastia, della famiglia De Rodis, provvidenzialmente posta proprio al confine meridionale dei loro territori, presso la “porta” di accesso?
La sua sinistra è curiosamente in posa e posizione simile a quella dell'arcangelo, seppur vuota. I capelli di entrambi sono biondi, lucenti come il sole. Sembra che la casata cerchi in ogni modo di rifarsi a S. Michele, suo protettore ed insieme modello, come se essa stessa fosse un “nuovo” San Michele. La parrocchiale voluta dai De Rodis a Premia, il loro luogo di origine, la loro “madre”, è dedicata all'arcangelo...
Le pupille della donna bionda che evoca la nobile casata sono neri come il demone accecato dal principe delle milizie. Luce e ombra si confondono a San Quirico, opposte e uguali parti di una stessa realtà. Sul muro esterno, proprio in corrispondenza del demone nero, spicca il volto antico di un dio pagano scolpito nella roccia, un Cernunno, dicono, senza corna ma con grandi “orecchie”, che paiono bolle di luce intorno al viso.
In verità il suo nome è Belenos, l'Apollo uccisore dei serpenti celtico, speculare rispetto al demone. Il calendario dei mesi che occupa la parte bassa dell'abside è scandito dalle quattro monofore, posizionate i modo da far entrare il sole proprio nei giorni dell'anno dedicati alla sua maestà.
Belenos... colui che è luminoso, il dio luminoso, luminoso come Dio.
Colui che è come Dio... “Michael”, appunto.
Questo post è pubblicato anche su I VIAGGIATORI IGNORANTI
BIBLIOGRAFIA
Tullio Bertamini, San Quirico di Calice, Oscellana, 1974
Gianfranco Bianchetti, Il Quattrocento lombardo in San Quirico di Calice, Oscellana, 1997
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, R. Laffront, Paris, 1969
Marie Magdalene Davy, Initiation à la symbolique romane, Flammarion, Paris, 1964
Riti di vita dagli scivoli alle streghe
Chi ci dice che davvero sui cosiddetti “scivoli” ci si andasse a scivolare? Qualcuno, da schegge di selce, punte di frecce e attrezzi per lo più “litici”, rinvenuti ai piedi o nelle vicinanze di uno “scivolo”, ha dedotto giustamente che l'uomo li frequenta da sempre. Il luogo e la posizione in cui di solito si trovano incute rispetto e suggerisce immancabilmente un qualche uso religioso. Infine le tradizioni, vecchie per altro solo di una manciata di generazioni, secondo cui le donne si sfregavano su un certo sasso sperando di restare incinte, ha fatto il resto. E se invece lo scivolamento non fosse altro che la conseguenza più “moderna” di un uso antico che non sappiamo più riconoscere?
La varietà e quantità di credenze legate alla roccia in effetti ci racconta qualcosa di diverso, restituendoci l'immagine lontana di una sacralità non banale. Sulle pietre ci si distendeva, ci si strusciava, bisognava toccarle oppure appoggiarci una certa parte del corpo, le mani, la schiena, ci si costruiva sopra e le si inglobava negli edifici sacri, si facevano a pezzetti per portarle a casa come souvenir.
Tutti questi usi però, sono accomunati da un fatto ben preciso: la necessità del contatto con la pietra. Non è guardandola o aspettando a distanza, che qualcosa può succedere, è solo toccandola, appoggiandosi, mettendo in relazione il corpo con la roccia: devono diventare una stessa cosa affinché “qualcosa” si sprigioni.
Quanto agli abusati e pretestuosi “riti di fertilità” che vi si svolgevano... ci sono culture e tradizioni di matrice antichissima che sono vive ancora oggi alle quali rivolgerci per comprendere...
Dovremmo ricominciare a capire che che le scene “erotiche” in bella vista sui muri di molti templi indù, non hanno nulla di sensuale. Anzi, non sono neanche quel poco che i nostri occhi pensano di vedere. Non di uomini e di donne si tratta, bensì di divinità, Shiva e Shakti, i quali altro non sono che le forze polarizzate della natura, attrattiva e repulsiva, ascendente e discendente, compressiva ed espansiva. Le cosiddette “posizioni” non sono, altrettanto, un atto “sessuale” ma la rappresentazione su un piano meramente umano del muoversi, dipanarsi e avvicendarsi ritmico e armonico di queste forze e di tutte le loro possibili interazioni dinamiche. Sono immagini dell'esistente che si crea e si mantiene. Non rappresentano movenze fisiche ma moti spirituali, flussi di energia di cui il legame fisico tra uomo e donna non è che un pallido riflesso.
Come le immagini di “erotismo” sacro, così ogni altra forma banalmente ricondotta a non ben definiti “rituale di fertilità” era dunque un “rito di vita”, un rituale di esistenza, un insieme di gesti attraverso i quali la vita viene invocata, adorata, mantenuta, migliorata, chiamata a manifestarsi. La cura, l'effetto taumaturgico è perciò ben altro da una semplice cura, è la vita che torna a scorrere dove non scorreva più, che scivola meglio dove prima c'erano intoppi.
La terra, che sostenta l'uomo e ogni altra creatura, culla e ventre che partorisce l'esistenza è l'ente unico a cui rivolgersi. Le sue manifestazioni visibili, in cui la vitalità adatta all'uomo può esprimersi, sono certe pietre, alcune sorgenti, macchie d'alberi, grotte in cui il cielo può specchiarsi, scendere, intessendo quel rapporto con la sua “sposa” che, appunto, è causa e motore della vita. L'abbiamo sempre saputo. Perfino i santuari “moderni” li abbiamo costruiti sulla roccia, definendoli “fonti di vita”. Sono i santuari stessi ad essere sorgenti di vitalità o le pietre su cui sorgono?
I ricordi più vividi si sono probabilmente conservati soprattutto nelle valli, specie quelle meno frequentate e negli alpeggi, dove la modernità portata dal cristianesimo tardò maggiormente a insediarsi. Sarebbe troppo facile sostenere che esisteva una vera e propria religione primitiva ancora praticata quando l'Inquisizione cominciò a interessarsi alle cosiddette streghe. Ma è indubbio che la tradizione popolare e i racconti estorti alle presunte malefiche sono intrisi proprio di ricordi di quell'antica gnosi che aveva prodotto millenni prima i massi coppellati e gli “scivoli”. Con le persecuzione alle streghe, probabilmente, scomparvero dal sapere popolare gli ultimi scintillii di quel rapporto filiale con la natura.
Forse non erano più conoscenza delle leggi e dei meccanismi e le loro pratiche erano basate sulla perfetta ripetizione “shamanica” di precisi gesti, formule, movimenti tramandati da un lontano passato. Di certo, però le streghe erano temutissime. Miti, leggende e racconti di paese sono un continuo avvertimento a non sfidarne il grande potere. La strega, partecipando al sabbah, era la custode dei segreti della vitalità di tutte le cose (“fertilità”) e per questo poteva compiere anche l'opposto: togliere, rimuovere la vita, risucchiarla via. Del resto per fare il male bisogna seguire le stesse regole del bene. Alla fama sinistra di queste donne contribuirono senz'altro anche la fervida fantasia degli inquisitori, subdoli interessi politici e religiosi, i fanatismi e il carattere grottesco e violento dei racconti estorti sotto minaccia e sotto tortura.
Si potrebbe però azzardare che quelle storie popolate di mostri, di pratiche truculente e formule incomprensibili, funzionassero anche come una sorta di linguaggio simbolico. Unte e a cavalcioni della scopa le streghe si radunavano per danze e feste sfrenate di cui si narravano i dettagli più terribili, ma per lo più erano donne del paese, abitanti della porta accanto, assolutamente presenti nella vita sociale. La paura delle loro ritorsioni poteva dunque essere più una forma di rispetto per le loro “qualità”, piuttosto che vero terrore? E le pozioni, gli unguenti, i preparati, i voli e le cavalcate nella notte, le danze orgiastiche non potrebbero essere state, allo stesso modo, il mezzo linguistico, simbolico in cui nascondere efficacemente le conoscenze ancestrali sopravvissute al tempo?
Nulla è mai veramente nascosto o rivelato solo a qualche “illuminato”. Ma la verità, a volte, poiché le trascende, non può essere espressa con categorie umane e richiede una preparazione e una responsabilità da coltivare nel tempo, per essere afferrata. Così, facendo ognuno la proprio parte nel cosmo, la stria e il suo sposo, uniti nella follia sabbatica, rappresentavano e richiamavano la danza stessa della creazione. La strega, sotto di sé, ha la pietra, la terra stessa di cui è espressione, come un arco convesso verso l'alto, verso il suo corrispondente complementare. Lo stregone, porta su di sé il segno stesso del cielo suo nume, un arco opposto, convesso verso il basso, la sua compagna. La “scopa” infine è l'asse, il percorso, il legame, la direzione, l'unione.
Non sono forse gli stessi simboli che già l'uomo rappresentava nelle grotte e nelle balme al tempo degli scivoli e dei massi coppellati?
Certo, era sempre la strega a raggiungere il suo sposo. E solo se prima si era messa a contatto della pietra o “croce”. La terra è la strada per salire al cielo. La scopa “spazza” la terra, simbolicamente il mezzo che ne risveglia la vitalità, rappresenta efficacemente questa tensione che parte dal basso.
Perciò già nella terra, nella roccia stava quello stesso “demone” con cui le masche volavano a danzare. Ma l'unico che era uscito da una roccia per portare la vita eterna era stato il Gesù cristiano. Quel demone con il cielo sulla testa, l'antico Cernunno dai mille nomi doveva essere di sicuro un usurpatore... era il diavolo sotto mentite spoglie!
Qualcuno, già nel '500 aveva già sollevati dubbi circa la realtà diabolica del fenomeno stregonico. Un eroico frate osservante minore monferrino, Samuele De Cassinis (Questio lamiarum, 1505), al tempo rinomato filosofo, si era spinto a sostenere che la "perfetta costruzione del mondo delle streghe” era un'invenzione “alla cui realizzazione massimamente contribuirono inquisitori e teologi domenicani". Le streghe infatti, secondo lui, non potevano essere dotate di certi poteri in quanto era inconcepibile che dio permettesse il dispiegarsi di fenomeni prodigiosi per scopi non benefici.
In diatribe teologiche di tale portata si era trovato anche il filosofo umanista mantovano Peretto Mantovano (Pietro Pomponazzi) che, già tacciato di eresia per le sue posizioni sulla possibilità di una dimostrazione razionale dell'anima, sosteneva l'origine allucinogena, causata da sostanze, delle millantate attività stregonesche e non l'intervento del diavolo, non dotato di simili capacità (De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, 1556).
Eppure, ne erano così certi gli inquisitori novaresi che a inizio '600, a Baceno, trascinavano le streghe appena catturate nella chiesa di San Gaudenzio e le spintonavano fino a farle crollare davanti “Peccato originale” del Bugnate, sotto lo sguardo terribile del mostro dell'apocalisse, ai piedi della croce della Redenzione. Era l'unica occasione offerta alle streghe per confessare spontaneamente, prima di essere tradotte in prigione e morire di stenti o finire sotto tortura.
Osservavano Eva e Adamo, dalle nudità scalpellate che erano così diventate vesti. La prima donna, con sguardo ipnotico porge il “frutto proibito” all'uomo, ritratto mentre si tira indietro, in un gesto di stizza, di rifiuto, ma non di paura, di disinteresse. Il serpente avvinghiato all'albero intanto si accosta alla donna come per sussurrarle qualcosa all'orecchio. Ma il serpente ha solo il corpo del rettile. La testa è la testa stessa, non soltanto il viso, di Eva!
Quale altro volto poteva avere il “male” se non proprio quello della donna, per un inquisitore? Il diavolo ha le fattezze di una donna, è la donna stessa. O almeno questa era le verità che i persecutori volevano far vedere e toccare con mano alle streghe.
Le adepte del “diavolo” rimanevano impassibili, in silenzio, tranquille, quasi confortate da quella visione. Con la coda dell'occhio spiavano la nuova veste di Eva, grande e sformata fino a coprire la mano destra e ciò che essa portava in grembo. Forse era un cesta piena di mele rosse e bianche, come quella che sta porgendo ad Adamo.
Non era una donna, era la Terra stessa il cui grembo era gravido di doni. Un'altra occhiata fugace svelava loro che anche gli occhi della serpe erano stati accuratamente rimossi, nonostante Eva neppure li degnasse.
Sono gli occhi chiusi di chi pensa di poter comandare la terra, ma così facendo, pur costringendola ad elargire i suoi frutti, si vedrà rifiutato il cielo, gli occhi di chi, condannandola con le parole e semplicemente opponendo un rifiuto, ha già perso.
BIBLIOGRAFIA
Pietro Pomponazzi, De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, Pietro Perna, Basilea, 1556
Margaret Murray, Il culto delle streghe in Europa occidentale, 1921
Margaret Murray, Il dio delle streghe, 1933
Robert Graves, La Dea bianca, Adelphi, 1992
Carlo Ginzburg, Benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, 1966
Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, 1989
Massimo Centini, Le streghe in Piemonte, Priuli&Verruca, 2010
Giambattista Beccaria, Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d'Antigorio, in Aa. Vv., Domina et Madonna, Gam Mergozzo, 1997
Dinora Corsi, Diaboliche, maledette e disperate: le donne nei processi per stregoneria (sec XIV-XVI), Firenze, 2013
Brian P. Levack, La caccia alle streghe in Europa, Laterza, 2010
Fabio Copiatti con Alberto De Giuli e Ausilio Priuli, Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola, Domodossola, 2003
La pietra vive - appunti per una conferenza
La roccia è viva.
La materia, come ci spiega anche la fisica quantistica, non è che energia che possiede una certa velocità. Nell'infinitamente piccolo, infatti, se riuscissimo a penetrare anche la più piccola particella che costituisce l'esistente, al suo interno non troveremmo che flussi di energia, "stringhe" vibranti che creano e mantengono la vita.
Solo la diversa velocità relativa, in fin dei conti, fa apparire più o meno solida ogni cosa che ci circonda.
La roccia, dunque, è movimento, in costante vibrazione, è viva, anche se siamo incapaci di percepirla.
Boca, Oropa... tantissimi sono i luoghi sacri costruiti intorno a pietre "di vita". La Gurva, Madonna del Piaggio di Villadossola, la parrocchiale di Crevoladossola ecc. sono sempre costruite “in saxum”, presso un masso. Dove ancora questi luoghi si sono conservati intatti, vediamo che c'era sempre un'immagine, quella della Vergine... della madre... che “ereditava” i poteri della roccia.
La terra è fatta di rocce...
Le streghe di Baceno erano evidentemente le ultime eredi di una tradizione ancestrale, di un certo modo di vedere l'esistente e di relazionarsi con esso. La pietra era il fulcro delle loro credenze. Si trovavano nella casa di una di loro o presso una roccia ancora visibile ai Piani della Rossa, sopra il Devero, ai piedi della montagna-dio Cervandone. È un sasso lungo e basso. Ci si mettevano nude schiena contro schiena e si cospargevano di un certo unguento scuro. Non sappiamo con certezza di quale sostanza si trattasse. Pare contenesse “aconito” e “belladonna”. Senza dubbio doveva essere simile a certi unguenti dalle proprietà allucinogene che ancora oggi si usano in Africa orientale e non solo, vere droghe che vengono assorbite attraverso la pelle.
In fondo a quella specie di tavola c'era poi un'altra roccia con un taglio in mezzo. Il “diavolo” usciva da lì. Dove c'é il Lago delle Streghe, poi, c'é un masso piatto con un scanalatura che fa da sorgente. Era un altare. Ci sono due date e due corrispondenti croci. Sono esorcismi ripetuti perché una volta sola evidentemente non era bastata.
A Monte Oliveto Maggiore c'è un famoso ciclo di dipinti delle vita di San Benedetto, realizzati dal Signoretti e dal Sodoma (fine 1400 - inizio 1500). Il numero 23, sul lato ovest è intitolato “Come Benedetto caccia lo nimico di sopra alla pietra”. Qui si vede bene il “demone” aggrappato alla pietra che, per questo, non può essere smossa. Il “demone” che "abita" la roccia non inveisce contro i monaci, ha più l'atteggiamento di chi vuol solo essere lasciato in pace.
L'Islam, soprattutto quello asiatico/yemenita, racconta che Allah non fece solo l'uomo ma anche altre razze di esseri invisibili dotati di grandi poteri. Li chiamavano Djinn, da cui genio. Pur invisibili, a volte aiutavano l'uomo, altre volte si prendevano gioco dei malcapitati. La tradizione mesopotamica sostiene che si potessero catturare attraverso speciali “trappole”, tazze, ciotole con disegni intricati sul fondo e poi farli uscire al momento opportuno, mercanteggiando favori in cambio della libertà.
La fiaba di Aladino e del "Genio della lampada" non è che la trasposizione romantica e sottilmente esoterica di quelle leggende.
I Djinn vivono nella roccia. In Giordania la vallata che porta all'ingresso nascosto della meravigliosa città di Petra passa proprio in mezzo a formazioni naturali e artificiali, che vengono chiamate “Dadi dei Djinn”. Pare fossero i guardiani posti a difesa della città rossa. Guai ad entrare senza aver prima chiesto il loro permesso! Ci sono anche a Gerusalemme, nella valle del Cedron, ai piedi della città santa...
La Bibbia, altrettanto, racconta continuamente che la pietra è viva e in quanto tale è fonte di vita, basti pensare a Mosè in mezzo al deserto, nell'episodio in cui, per dissetare il popolo di Israele in fuga, percuote una roccia e da essa, non da dietro o da sotto, ma dalla roccia stessa scaturisce acqua.
L'idea della roccia che vive è un archetipo diffuso in tutti i tempi e luoghi.
Gli aborigeni australiani da sempre raccontano che gli dei, svegliati dal sole, dopo aver percorso la terra e aver creato cantando ogni cosa, tornarono a dormire. Alcuni scesero nelle profondità rocciose della terra, altri si addormentarono dove si trovavano, trasformandosi in pietra. Così ancora oggi venerano Uluru, le Olgas e molte formazioni rocciose australiane in quanto dei, in attesa che si risveglino.
Ci sono rocce per il mal di schiena, per “volare” per tenere fuori gli invasori ecc. Insomma ogni roccia ha il suo scopo, la sua utilità. Ma non tutta la roccia. Sono sempre certi punti della roccia a regalare una certa possibilità. C'é sempre un punto “preferito”, adatto a ciascuna necessità.
Tutto è fatto della stessa energia, solo a velocità diverse. L'uomo è come la roccia e la roccia come l'uomo. Perciò, come l'uomo ha il cuore in un certo punto e il naso in un altro, anche la roccia ha le sue caratteristiche risonanti.
È la roccia, la pietra stessa che “dona” qualcosa. Non ha bisogno di segni per agire. Ciò che viene lasciato sulle rocce, inciso o dipinto, è dunque generalmente di uso “pratico”. Le coppelle sono senza dubbio recipienti. Se il dono della roccia deve essere assimilato come liquido, posso appoggiare nel punto giusto un contenitore. Oppure posso ricavare un contenitore in quel punto preciso, se osservo le stesse norme, gli stessi principi che la natura ha rispettato creando quella medesima pietra.
Certo, non tutte le rocce rappresentano una possibilità. Soltanto alcune venivano scelte. A volte si trovavano in zone impervie, mentre quelle più accessibili venivano scartate. Anche il luogo, la collocazione determina la qualità di ogni roccia...
Così, la vita della pietra, che è la vita stessa della terra, usata nel giusto modo, contribuisce alla vita di chi ne fa uso.
BIBLIOGRAFIA
Giambattista Beccaria, Le streghe di Baceno, in Domina et Madonna, 1997
Demetrio Iero e Adriana Pesante, Il sapere in esilio, 2000
Alberto De Giuli e Ausilio Priuli, Sentieri Antichi, 1997
Maria Gimbutas, Il linguaggio della Dea, 2008
Robert Graves, La dea bianca, 1992
Isaac Asimov, Il libro della fisica, 1984
Massimo Centini, Segni - Parole – Magia, ed. Mediterranee, 1997
Umar Sulaymān Ashqar, The World of the Jinn and Devils, Islamic Books, 1998
Irving Karchmar, Master Of The Jinn: A Sufi Novel, Bay Street Press, 2004
De La Gurve: luoghi forti e Milizie dell'Anzasca (seconda parte)
Mentre i lavori fervono, però, sono costretti a partire per combattere a Novara, a Carpignano, a Vercelli, al passo di Paglino, alla Rocca di Angera. La guerra termina soltanto nel 1617: il Duca sabaudo ha preso il Monferrato. I miliziani tornano ai loro paesi e rimettono mano alla Gurva e alla Madonna della Neve, ora anche in segno di ringraziamento alla Madre della valle, che ne ha guidate le gesta.
Nel 1622 l'oratorio della Madonna della Neve di Bannio è pronto. Ma la peste manzoniana è alle porte. Non resta che affidarsi alla Vergine e far voto di difendere in Suo nome sé stessi e gli abitanti di Anzino e di Bannio, come già gli antichi legionari romani avevano fatto molti secoli prima, presidiando le viscere dell'abitato ricolme di oro. Quel 5 di Agosto viene proclamato festa perpetua della Milizia1.
La Gurva vede invece il suo compimento e la sua inaugurazione solo dopo che la peste è un ricordo, nel 1641. Tutti i reduci anzaschini della campagna 1614-1617 vengono invitati, in quel 15 di Agosto, giorno dell'Assunta, alla solenne consacrazione della nuova chiesa che, per molti anni sarà il fulcro delle milizie della valle.
Quando nel 1701 l'invasore ispanico, nella persona di Carlo I muore e si scatena la Guerra di Successione, forse per un attimo i legionari dell'Anzasca vendono il termine del loro impegno militare. Ma la cessione del ducato agli Asburgo infrange le loro speranze. Trent'anni dopo si ritroveranno annessi – e sempre pronti all'intervento militare – proprio ai sabaudi per combattere i quali erano stati creati.
Poi, nella seconda metà del 1700, qualcosa cambia per sempre. L'istinto di ribellione e il desiderio di libertà si stanno diffondendo come un profumo in Europa. La Rivoluzione Francese è alle porte. Le Milizie della Terra devono essere risvegliate. Non saranno più difensori, ma attaccanti. La Terra che li ha visti nascere ora non deve trattenerli.
Servono nuovi patroni che li spronino a scendere in battaglia. A Bannio, la pelle di quel San Bartolomeo che provvidenzialmente è già il nume della Parrocchia, diventerà, insieme al suo pugnale, la pelle... i confini del “corpo” della valle... che i miliziani venderanno cara – combattendo – al nemico. Tra il 1774 e il 1776 infine, giungono da Roma per opera del frate cappuccino Francesco Maria Ballotta, che li ha appena ritrovati nelle catacombe di San Lorenzo, i martiri guerrieri San Felice e San Vincenzo. Agghindati da combattenti quali sono, i loro corpi, insieme alle ampolle contenenti il loro sangue, vengono posti nella parrocchiale, per difendere il corpo e lo spirito della valle e dei suoi frutti.
Alla milizia di Calasca, sul lato opposto della valle, viene forse assegnato un compito diverso e con esso, un potere inatteso. E il potere, si sa, logora e porta a compiere le più atroci nefandezze. Come la Madonna della Neve, la Gurva non può più essere il nume tutelare dei legionari. Continueranno dunque ad onorarla quale luogo d'origine, ma i tempi sono cambiati.
La costruzione di un nuovo “santuario” in cui possa riconoscersi un guerriero, grande abbastanza da contenere non più una milizia ma un vero esercito, è ora necessaria. Nel 1791 comincia infatti la costruzione di quella sontuosa chiesa che verrà poi soprannominata “Cattedrale nei boschi”.
Intanto giungono da Roma le reliquie di San Valentino2. Vestite con paramenti militari vengono poste nel terzo altare sinistro dall'entrata. Il guerriero martirizzato ora domina incontrastato. Se a Bannio i capi “spirituali” della milizia, credendo di diventare reliquie essi stessi, si fanno seppellire all'esterno del muro, proprio dove riposano Felice e Vincenzo, ad Antrogna sono i capi militari che, con lo stesso pensiero, ordinano di essere sepolti tra i mattoni che giungono fino San Valentino. Dicono che va fatto poiché essi vogliono servirlo pure nell'aldilà ma, in verità, questi sedicenti “eletti” aspirano così a condividere la sua stessa forza e continuare a comandare.
Sulla volta della chiesa, poi, esprimono il loro sdegno e la loro ansia di libertà. La Madre-valle li ha benedetti e tenuti vicino a sé, in un abbraccio pieno di tenerezza. Ma, secondo loro, quella tenerezza ha infine spento la loro indole guerriera. Ad essa, alla dea, scelgono dunque di ribellarsi ponendo nella volta Prometeo, il “bastian-contrario”, che rubò il fuoco agli dei, ritenendo che l'uomo, degli dei, può farne a meno.
È il loro grido di battaglia: il fuoco è nelle loro mani. Prometeo prese il fuoco dagli dei, il fuoco che alimentava le fucine di Efesto e che produceva le armi di Ares/Marte. Sant'Antonio Abate, cui l'edificio viene intitolato, è colui che quel fuoco lo prese: “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto , ed esso vi sarà dato”3. E tale era il fuoco della guerra che la Milizia avrebbe diffuso, il fuoco perpetuo e indomabile della guerra, il fuoco dei moschetti, che si scatena come un incendio e che nessuno può fermare.
Nel 1797 il nuovo sacrario della milizia è pronto. Il fuoco del Santo Antonio arde nei miliziani. La milizia diffonderà le fiamme della guerra e solo la milizia sarà in grado di domarle. Perciò, qualche anno dopo (1805) giungerà ad Antrogna anche una reliquia di quel San Defendente4, guerriero come gli altri, ma della Legione Tebea, che del fuoco e degli incendi è guardiano.
La Madre-Valle è già stata dimenticata. Da lì la milizia viene, ma il suo destino è verso i martiri guerrieri, verso il Santo Antonio, egiziano ed esoterico come Defendente. Qualcuno si premura di segnalarlo. Inforca la porticina a sinistra dell'affresco della Gurva e imprime per sempre, nella roccia che sostiene il masso errante, come fosse uno sfregio, la ribellione della milizia alla Madre che l'ha generata, mettendola via, a riposo, congedandola.
Ma il tempo, quello della storia, è tiranno. Mentre ancora la milizia sogna la guerra e la ribellione, la Rivoluzione Francese è già finita. Defendente deve ancora arrivare ad Antrogna e già un nuovo despota straniero rifonda l'Impero che, con la Rivoluzione, si pensava estinto.
Napoleone è inarrestabile, nessuno si oppone e quei pochi che osano vengono sconfitti.
I sogni di gloria della Milizia si sciolgono, come si scioglie la neve del Rosa al sole. Anche se il Bonaparte, dopo il disastro in Russia, viene sconfitto, ormai è tardi. I legionari di Anzasca non hanno portato guerra, non hanno conquistato, languono nella valle. La compagine, nel 1743, è ormai ridotta a 27 anime, reduci di una guerra che non hanno mai combattuto.
Della gloriosa e intricata storia non rimane che il ricordo sbiadito, qualche segno nella roccia e il fastoso rituale d'agosto. Dapprima si festeggia la Vergine, madre della milizia, alla Gurva. Ma subito dopo si festeggia San Valentino, il nuovo patrono, con una festa che è identica, poiché solo il luogo (la parrocchiale di Antrogna) è diverso. A quel punto, tutto è cambiato. La Madonna va messa a dormire, ridotta al silenzio nella sua teca dorata, va “lugà la Madona”, va messa via...
- Francesco Teruggi -
1Si conserva ancora nell'oratorio l'ex-voto di quell'evento.
2Da non confondersi con i suoi più famosi omonimi, è un oscuro “martire” ritrovato nelle catacombe romane, la cui agiografia è scarna se non pressoché inesistente. Giace nella parrocchiale di Antrogna con indosso vesti da legionario.
4Il corpo di San Defendente (quasi completo) è però custodito nella “Basilica” omonima a Romano di Bergamo. Le sue reliquie ad Antrogna, sempre che si tratti dello stesso “martire”, come quelle del misterioso San Valentino, non sembrano essere state ancora riconosciute pienamente dalla Diocesi. Cfr. ad esempio gli elenchi dell'Archivio Diocesano di Novara in cui i due “santi” non figurano.
BIBLIOGRAFIA
Andrea Primatesta, Calasca e Spigolature di Valle, 2005
Sandretti Agostino, Calasca Zibaldone 1 e 2, 1948-1950
Adriano Antonioletti e Carlo Colombo, La Madonna della Neve e la sua Milizia, ed. privata
Enrico Bianchetti, L'Ossola Inferiore, 1872
Massimo Centini, Martiri Tebei, storia e antropologia di un mito alpino, 2010
Oliviera Calderini e Alberto De Giuli, Segno e simbolo su elementi architettonici litici nel Verbano Cusio Ossola, 1999
Fabio Casalini, Il santuario costruito sulla roccia, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)
Fabio Casalini, Il sacro fuoco della Cattedrale nei Boschi, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)
Fabio Casalini, Quando le pietre raccontano una storia, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)
Fabio Casalini, Il mistero delle Milizie della Valle Anzasca, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)
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De La Gurve: luoghi forti e Milizie dell'Anzasca (prima parte)
PE+: Praefactae Excellentiae. Il segno sulla roccia non lascia dubbi. Qualunque prodigio sia accaduto fu "praefacto" (fatto prima) per opera dell'Excellentia, dell'eccelsa fra le creature, della Vergine, come ne scrisse Sant'Anselmo (De Excellentia Gloriosae Virginis Mariae). Le due lettere e la croce sbilenca, questa volta, non sono banali segni di confine, lì sotto alla roccia, difficili e scomodi a farsi e quasi invisibili se non ci si china a cercarne l’ombra.
No, non è questo il caso. La memoria si è persa, ma il segno ne è muto testimone. Furono incise a mazzetta e punta di metallo in un punto preciso, proprio accanto al fulcro, al baricentro di quella strana roccia in bilico. Se quel punto si fosse trovato poco più verso il fiume, il masso sarebbe rovinato in acqua. Invece, miracolosamente, è fermo in equilibrio. Non sarebbe strano che gli antichi abitanti della valle già nella preistoria lo adorassero come sacro. Qualcuno deve averlo pensato, secoli fa.
Quanti millenni prima il sasso si era fermato in quella posizione, come trattenuto da una mano misteriosa? Molti. Eppure, per un cristiano, non era accettabile che fosse l'opera di una divinità antica, il cui artiglio era di certo diabolico, pagano. No, per quanto incredibile, doveva essere stata la mano delicata della Vergine anche se, in verità, era nata solo molto più tardi di quegli eventi. Maria l'aveva "fatto prima" (prae-fecit) di sé stessa. E in questo, forse, stava il vero “miracolo”, più che nell'equilibrio precario del masso.
La Gurva è uno di quei luoghi di possibilità, benedetti e sacri da sempre, stabiliti da Madre Terra, presso i quali essa ha posto, come monito, un segnale di attenzione ben evidente, affinché siano più riconoscibili di altri. È accaduto in Myanmar presso il millenario Kyaiktyo, la Roccia d'Oro che si crede tenuta in equilibrio da un capello del Buddha. E lo si vede bene tra le rovine della leggendaria Mahabalipuram, nell'India del Sud, dove i templi scolpiti nella pietra e le grotte sacre sorgono tutto intorno alla "Palla di burro", rappresentazione del nutrimento spirituale, che costituisce il principale attributo del giovane Krishna (Balakrishna), ultima incarnazione di Visnu. Il parallelo con il globo che il Bambinello tiene nella destra mentre sta in grembo alla Madre, non può sfuggire.
Una roccia sull’altra: così deve averle messa la forza lenta e potente dell’acqua, che ne ha scolpita una e ha accompagnato l’altra sopra di essa. Il masso sottostante è levigato, come la veste della Madonna su cui siede il Bambin Gesù. Devono averlo ben visto i nostri avi e hanno colto l’occasione per trasformare la terra, quella terra, nella Madre di Dio, erigendo su di essa un piccola cappelletta con un’effige mariana. Intanto fiorì la leggenda del masso piovuto dall’alto e disceso verso il basso, come il Bambinello. La leggenda, così, finì per azzoppare la verità, cancellando ad arte i prodigi compiuti dall'acqua del torrente, che troppo sapevano delle religioni antiche.
La Gurva, come tutti i luoghi veramente sacri, è sacra a prescindere dalle immagini e dai simboli. Sacra è l'acqua che gli scorre accanto e nel suo insieme ben si ritrova simbolicamente l'intera valle. Così dev'esser rimasta per molto, con la sua piccola cappella e l'affresco antico a due braccia forse meno dal masso “caduto”.
Poi, nel 1612, il Governatore spagnolo dello Stato di Milano, Marchese Mendoza della Hionosa, riceve da sua maestà ispanica l'ordine di invadere il Piemonte, per anticipare l'avanzata del Duca di Savoia e diffidarlo dalle sue pretese sul Monferrato. Tutta la popolazione viene obbligata a prendere parte militarmente alla contesa attraverso la costituzione delle Milizie delle Terre, nelle quali vengono costretti ad arruolarsi tutti gli uomini dai 18 ai 50 anni. La Milizia ossolana, che conta 1452 soldati tra i quali 390 provenienti dalla Valle Anzasca1, riceve il compito di presidiare i confini e i passi alpini dalle invasioni esterne.
Ma l'ordine imposto dal dominatore ispanico non viene esaudito in silenzio. I futuri soldati, arruolandosi cercano la benedizione della loro stessa terra. Non combatteranno per lo straniero, ma per la loro valle. I militi di Bannio si rivolgono alla Madonna della Neve e del Gelo, occupandosi di ristrutturarla con il permesso del Vescovo di Novara. Quelli di Calasca scelgono la remota cappelletta della Gurva.
Mentre i lavori fervono, però...
... continua...
1 Gli arruolati provengono da Castiglione, Calasca, Bannio Anzino, Vanzone, Ceppo Morelli, Macugnaga.
Ringrazio Carlo Lovati per i puntuali contributi
Il gioiello segreto del Piaggio di Villadossola
Pochi sanno -quasi nessuno per la verità- che un piccolo gioiello, si nasconde nel bel mezzo di Villadossola, in bella vista dove tutti passano e pochi vedono. La storia sembra la solita: un “loco ameno” vicino a un fiume, un sasso o una sorgente; una prima cappella talmente antica che non ci si ricorda quando fu costruita; il suo ampliamento per farla diventare una chiesa più grande realizzato qualche secolo dopo. Infine, la costruzione iniziale convertita in cripta e sopra di essa l'edificazione di un'ulteriore chiesa, con tutte le successive modifiche del caso.
Ma non esistono due chiese, due moschee o due sinagoghe uguali. Ognuna ha una storia tutta sua che vale la pena raccontare. La storia dell'Assunta del Piaggio comincia così...
Esternamente solo le due doppie absidi coronate di archetti, sovrapposte e per metà sotto il livello stradale, attirano l'attenzione. Si scende nell'attuale cripta attraverso il passaggio recente ricavato sotto la sacrestia, un po' corridoio e un po' cantina. La cripta ha due absidi puntate ad Est. Una è più piccola, tozza e larga, l'altra è più stretta e pronunciata.
Entrambe dovevano essere dotate di altari importanti, come specificano gli Atti di Visita del 1596:”Est locus subterraneus sub parte ecclesia concameratus in quo sunt altaria duo parva nuda tollenda […] Essent demolienda dicta altaria aliqua cautione adhibita cum in eis essent aliquae reliquiae”.
In tutte e due si aprono due piccole finestrelle a feritoia che, probabilmente, puntano alle albe dei due solstizi. Così tutte le “posizioni” solari sono rappresentate. Entrambe le absidi si innestano su piccole navate ad esse in qualche modo proporzionate.
L'abside più antica, il primo luogo di culto, è la prima che si incontra. Toponomastica e geografia sembrano indicare che fosse una “capella ad Castrum”, luogo di culto di un castello o di una fortificazione lambita dal torrente Ovesca. “Se scavassimo qui intorno, troveremmo i resti delle mura del castrum e chissà cos'altro...”. La seconda abside e la seconda navata, aggiunte più tardi, sono più facilmente databili. Nonostante gli elementi aggiunti in epoche diverse, i costoloni romanici e la colonna centrale impostata quando fu eretta la chiesa superiore, certi piccoli dettagli e soprattutto la presenza all'esterno, proprio sulla specchiatura tra le due feritoie, di una croce rilevata in pietra che poggia su una V rovesciata, riportano all'epoca carolingia, tra il VIII e il IX secolo.
La cappella iniziale è dunque più antica, molto più antica e risale almeno al periodo in cui furono scritte le prime vite dei santi Giulio e Giuliano, secoli dopo la loro morte. Ai due fratelli si ascrive di solito la prima cristianizzazione del Novarese e dell'Ossola, ma alcune scoperte archeologiche e documentarie, non ultima la villa romana rinvenuta a Sizzano, cui nel V secolo era già annessa una piccola chiesa, sembrano piuttosto ascrivere la diffusione del cristianesimo all'iniziativa della nobiltà locale spinta da motivi non propriamente spirituali.
Non è escluso che a tale fenomeno possa ascriversi anche la chiesa primitiva del Piaggio. I saggi di scavo hanno infatti messo in evidenza che agli edifici primitivi era annesso un battistero, la cui posizione, attualmente corrisponderebbe a quella dello scalone di ingresso della chiesa “alta” e di cui in parte riprodurrebbe il perimetro. Tanto tempo fa, solo le chiese principali, quelle “pievane” disponevano di un battistero.
Esplorando e fotografando la cripta intanto, il “sapere cellulare” assimila e valuta, aggiungendo tessere al mosaico. Sarebbe troppo facile limitarsi alle variazioni indotte dalle acque sotterranee o al magnetismo terrestre. Ben più interessanti sono i cambiamenti indotti dalle forme, dai resti degli affreschi, dalla terra sottostante, nonostante l'aria “intorbidita” dal varco di accesso del corridoio.
In apparenza le due absidi sono “gemelle” ed entrambe interamente occupate da presenze maschili. In una campeggia il Pantocrator trecentesco nella mandorla mistica, nell'altra il Crocifisso, dello stesso periodo in corrispondenza della croce esterna e figure di vescovi guantati. Eppure le cellule non mentono. Il “catino” più antico, infatti, a dispetto del Cristo che lo domina, conserva intatta nella sua struttura formale la caratteristica nativa, di natura femminile, che gli appartiene. L'altro invece, sì, è un crogiolo di frequenze di tipo “maschile”.
Madre era la chiesa iniziale. Non fu mutata in una madre “più grande”, fu invece affiancata dal suo complementare, come se ci fosse stato un cambiamento di pensiero, come se si fosse deciso che il maschio dovesse prevalere sulla femmina. Ma l'uno non poteva fare a meno dell'altra, poiché l'uomo non è uomo senza la sua sposa e la donna altrettanto senza il suo sposo, perciò entrambi i caratteri furono lasciati. Con due absidi dunque fu rappresentato l'Universo intero.
Per fortuna e per sapienza, quando nel XI secolo, si procedette a costruire la nuova chiesa sopra quella esistente, non solo il santuario antico fu preservato mutandolo in cripta, ma il nuovo edificio fu altrettanto dotato di due absidi che riproponevano esattamente la stessa natura universale. I due antichi catini furono allora affrescati con il Crocifisso, i vescovi dai guanti candidi e il Pantocrator, di cui rimangono pochi resti. I nuovi invece furono abbelliti in accordo alle loro nature.
La Madre, dipinta – forse – dalla stessa mano che dipinse la Madonna di Re, sta distesa sulla faccia visibile dell'altare cubico, nell'abside che le compete. L'affresco sul fondo è nascosto da spessi strati di intonaco, ma c'é da scommettere che al centro ci fosse una Madonna. Ad essa si riferisce appunto il De Maurizi in una nota del 1929. Qualche traccia - scene “bucoliche” - è visibile dietro l'altare che regge la statua lignea ottocentesca dell'Assunta.
L'abside settentrionale superiore, in cui compaiono solo figure maschili, è di nuovo una scoperta. Le le cellule non mentono e dietro le emozioni subito riconoscono conoscenze perfette. Qui, il funzionamento di tutto ciò che esiste è visibile e rappresentato. Le tre figure trinitarie sono identiche, le somiglianze tra le coppie di “apostoli” non casuali. Perfino nelle coppe posate davanti alla trinità richiamano la verità energetica del cosmo. Il sinistro è decorato con linee serpentiformi verticali, il desto presenta solo linee orizzontali. Il mediano è un miscuglio degli altri due e insieme è qualcosa di molto diverso.
Le coppie sottostanti, così simili alle personificazioni trinitarie, sono ritratte in rapporti di amichevole scambio tra loro e adombrano il dipanarsi delle leggi universali che dalla trinità discendono.
Una diversa trinità, pare fosse stata dipinta inizialmente lì sotto: Cristo in croce, il Padre circondato dagli angeli alla sua destra, la Vergine alla sua sinistra. Il messaggio non è stato dunque mutato, solo ricomposto per adattarsi ai tempi nuovi.
Neppure la dedicazione è mutata. Già la chiesa primordiale era edificata “ad Saxum Sancte Marie”, contro quel sasso detto di Santa Maria, cui la cappella primitiva è ancora addossata da sempre, così che essi sono in perpetuo una cosa unica.
Grazie a Giulia Brizzi, Barbara Piana, Chiara Lagostina, Fabio Casalini, Alberto De Giuli e il parroco di Villadossola don Massimo Bottarel, senza i quali la visita non sarebbe stata possibile
BIBLIOGRAFIA
G. De Maurizi, L'Ossola e le sue valli, 1954
Tullio Bertamini, Fondazione delle parrocchie della valle Antrona, Novarien 1, 1967
Aa. Vv., Novara e la sua terra nei secoli XI e XII, 1980
Aa. vv., Chiesa di Santa Maria Assunta, Villarte, 2014
Nostradamus, Arbugio e il tesoro dei Templari
Al fascino dei Templari sembra non sia sfuggito neppure Nostradamus. A loro e all'ubicazione di una parte del tesoro dell'Ordine sarebbe infatti dedicata una “quartina” delle misteriose Centurie composte dal visionario provenzale e precisamente la XIII della X centuria: “Sotto la pastura d’animali ruminanti, / Da essi condotti al ventre erbipolico, / Soldati (saranno) nascosti, e armi producendo fragore, /(Verranno) messi alla prova non lontano dalla città d’Antibes”.
Non lontano infatti da quel gioiello che è oggi Antibes, l'antica Antipoli, una colonia greca in piena Costa Azzurra (insieme a Massalia/Marsiglia e Nikaia/Nizza), in perenne battaglia con le popolazioni celto-liguri locali degli Oxibeni e dei Deceati, si erano installati proprio i Templari fin dal 1207.
L'occasione era stata a fine marzo di quell'anno, la donazione da parte di Alfonso II, conte di Provenza, alla Milizia del Tempio, rappresentata dal maestro di Provenza William Candeil, di tutti i diritti sul maniero e i territori di Biot, l'antica Arbugio. Diciassette anni prima, l'ultima invasione musulmana della costa li aveva costretti alla ritirata da Nizza, dove erano insediati fin dal 1129 (si ritiene che la magione si trovasse da qualche parte nell'attuale quartiere di Saint Etiénne) verso Vence, dove il vescovo, Pietro II di Grimaldi, aveva consentito all'Ordine di riparare alla Bastide Saint-Laurent, dietro pagamento di un affitto annuale.
Chiesa della magione a Grasse
Il successore di Alfonso II, Raimond Berenger, avrebbe poi continuato nell'opera di promozione della presenza templare in Provenza con ulteriori donazioni in terreni e case a Biot, Nizza, Grasse e Vence. A metà del XIII secolo Nizza era sotto il controllo di Grasse. Biot invece mantenne la sua indipendenza per molto tempo.
Nonostante le continue donazioni, però, quando l'Ordine viene soppresso il magro inventario dei beni di Biot sembra indicare che la magione versasse in povertà. Solo due cavalieri vengono fatti prigionieri e trasferiti ad Aix en Provence, dove subiscono gli interrogatori degli inquisitori e dove probabilmente trovano poi la morte.
Eppure emerge da altri documenti che, solo qualche mese prima che fosse spiccata la condanna nei confronti della Milizia del Tempio, Biot risultava possedere quasi 1200 ettari di terreno nei dintorni, 23 cavalle e un buon numero di buoi e di puledri. Dove erano finite tutte quelle ricchezze? E sopratutto come avevano potuto finanziarne l'acquisto?
Già anni prima la magione era stata al centro di una complessa vicenda: il 26 dicembre 1296 alcuni abitanti di Antibes, attratti dalle loro ricchezze, avevano rubato diversi capi di bestiame di proprietà dei Templari di Biot. Affinché il maltolto fosse restituito, era intervenuto addirittura il priore di Nizza, Folco Berenger, che aveva ottenuto l'apertura di un'inchiesta formale da parte tribunale di Grasse.
Contemporaneamente si erano sviluppati attriti anche tra Biot e Villeneuve. I cavalieri avevano infatti sorpreso alcuni uomini a raccogliere legna nei boschi di proprietà dell'Ordine e li avevano scacciati. Per rappresaglia i concittadini degli interdetti avevano rubato due buoi e un asino, poi fatti restituire dal giudice. Le ostilità non si erano comunque placate e nel giugno 1298 il balivo di Villeneuve era arrivato al punto di far imprigionare due cavalieri.
Questa volta, in attesa di giustizia per i confratelli in catene, erano stati i Templari a vendicarsi, impossessandosi con la forza di molti beni dei cittadini di Villeneuve. La condanna nei loro confronti era giunta immediata e inattesa dal tribunale di Grasse, ma i due fratelli non erano stati liberati.
Di nuovo, nel maggio 1300, gli abitanti di Villeneuve, istigati dal balivo, avevano razziato i beni del Tempio, impadronendosi di 23 giumente e 8 puledri.
Neppure il ricorso al siniscalco di Provenza Raimondo de Lecto aveva risolto la diatriba, cui avrebbero messo fine soltanto i Cavalieri di Malta, subentrati ai Templari nel 1320.
Ma intanto le ricchezze di Biot, forse comprate attingendo al leggendario Tesoro dei Templari, erano scomparse nel nulla.
Oggi, i resti della presenza Templare a Biot sono pochi ma significativi. Una croce patente affiancata dal Tau greco fa ancora bella mostra di sé su una pietra inserita nel muro di un'abitazione che, probabilmente, è tutto ciò che rimane dell'antico oratorio di Sant'Antonio. Altri piccoli segni cruciformi esistono ancora sparsi nel paese.
Il doppio arco che conduce a Place Des Arcades, porta ancora il nome di “Passaggio dei Templari”. La piazza, poi, sorge sui resti della magione. Sembra che parte degli attuali passaggi coperti che la cingono facessero parte dei locali o delle stalle dell'Ordine.
In fondo alla piazza si apre il cortile che consente di accedere alla parrocchia dedicata a Santa Maria Maddalena, nume tutelare assai caro proprio ai Templari. Sul selciato sono ancora visibili due grandi croci dei Cavalieri Maltesi e la data 1564.
La chiesa è uno di quei rarissimi edifici ai quali si accede scendendo la scalinata verso la navata, anziché salendo. Inizialmente intitolata alla Vergine e andata distrutta nel XIV secolo, fu completamente ricostruita conservando l'impianto originario della chiesa romanica, a sua volta innalzata sui resti di un tempio romano (la prima colonna a sinistra entrando proviene proprio dal sacrario latino) e di un precedente tempio celtico dedicato al dio Arbugio. Questa divinità potrebbe Giove o più probabilmente l'Efesto greco, anche in considerazione della particolare geologia di Biot, che è situato sul bordo di un antico camino vulcanico, il cui centro è localizzato a circa 2 km a nord-ovest dell'abitato.
L'edificio ha una curiosa e insolita orientazione astronomica verso Sud-Est, direzione approssimativa del sorgere del sole all'alba del Solstizio Invernale. In tale momento, secondo gli antichi astrologi si apre infatti la “porta” detta “degli dei”, attraverso la quale le anime salgono ai cieli e le “influenze” superiori, gli angeli, scendono sulla terra.
Proprio agli angeli è dedicata tutta la prima cappella di sinistra detta appunto “degli angeli guardiani” o custodi. Uno di essi fa bella mostra di sé sull'altare, un altro in vesti rosse campeggia sul pennacchio d'angolo dell'arco.
La scelta si rispecchia nel particolare assetto energetico impresso all'edificio, che ha perciò richiesto lo spostamento del fonte battesimale sulla destra entrando, anziché, come di solito si usa, a sinistra.
Tre sono le rappresentazioni mariane: l'ancona della Vergine del Rosario accanto alla Cappella degli Angeli Guardiani; Notre Dame De Pitie, con il Cristo morto in grembo come la Pietà michelangiolesca, spesso invocata in Francia quale fautrice del prodigio del répit (la “resurrezione” temporanea dei bambini nati-morti o la momentanea venuta alla vita dei bambini mai nati, giusto il tempo necessario a ricevere il battesimo); la Vergine con il bambino in grembo nella Cappella del Rosario.
Altrettante sono le figurazioni della Maddalena, cui erano molto legati i Templari: la ceramica che sormonta all'esterno il portone di ingresso, l'affresco della Maddalena e della Crocefissione sopra la porta laterale sinistra, il dipinto della Maddalena nella cappella omonima.
BIBLIOGRAFIA:
J.A. Durbec, Biot Beau Village De Provence, Association des Amis du Musée de Biot, 2009
J. A. Durbec, Templiers et Hospitaliers en Provence et dans les Alpes- Maritimes, Le Mercure dauphinois, 2001
E. G. Leonard, Introduction au cartulaire manuscrit du Temple (1150–1317) constitué par le marquis d’Albon.
Laurent Dailliez, I Templari in Provenza, Alpi Mediterraneo-Editions, Nizza, 1977
Damien Carraz, Cavalieri Templari nella Valle del Rodano Inferiore, Lione, 2005
Francesco Teruggi, Militum Christi, TriaSunt Associazione Culturale, 2014
Balma dei Cervi: la preghiera degli Dei
Nel 2012, quando la sovrintendenza ha ufficializzato la scoperta e ha posto sotto la sua protezione la Balma dei Cervi in Valle Antigorio, mantenendone segreta l'ubicazione, riscontrava che “si sono avuti alcuni distacchi della crosta calcarea, con l'asportazione delle pitture; alcuni distacchi sono in corso con margini sollevati di 1 o 2 mm”. Nella nostra breve visita due anni dopo, la delicata situazione in cui le pitture versano è stata inequivocabilmente evidente anche ai nostri occhi inesperti. È un miracolo che questi inestimabili messaggi sulla roccia siano ancora lì dopo millenni.
Ci appelliamo dunque affinché tutte le autorità provvedano al più presto
alla loro messa in sicurezza, così come già ampiamente promesso e prospettato.
E ci appelliamo a tutti voi affinché il vostro desiderio di avvicinarle, per quanto comprensibile,
alimenti invece il buon senso e il rispetto verso questo dono meraviglioso che viene da lontano.
Abbiamo raggiunto la balma non per curiosità, ma per raccontare, sensibilizzare e invitare al rispetto, affinché il nostro patrimonio non vada distrutto e dimenticato. Non riveleremo dove si trova. Questo gioiello deve rimanere segreto per rimanere protetto.
Ci appelliamo affinché la Balma continui ad essere per l'umanità.
- Francesco Teruggi, TriaSunt Associazione Culturale -
C'é una balma, da qualche parte in valle Antigorio, nell'estremo nord del Piemonte e dell'Ossola, alla quale solo i cervi salgono. Pare un grande orecchio teso ad ascoltare il ruggito distante del fiume. Sul colmo del rigonfiamento che sporge quasi come una mensola, a circa 1 metro e mezzo d'altezza, giace, nel silenzio, il più vasto e forse antico complesso di pitture rupestri delle Alpi Occidentali. Sono almeno una quindicina i siti noti, tra cui il Balm d'la Vardaiola dell'Alpe Veglia, a poche decine di chilometri di distanza, la Rocca di Cavour, la Balma ’d Mondon in val Pellice e Ponte Raut in val Germanasca, con cui sembrano avere molto in comune, ma le pitture antigoriane li superano tutti.
La fascia dipinta, lunga circa sei/sette metri è coperta di almeno una quarantina di pitture in ocra rossa di sfumature volutamente differenti, tracciate con la certezza e la calma di chi sa cosa significano. Un punto, un solo punto apre la narrazione che, poi, si sviluppa in almeno quattro zone, come capitoli di un libro, su un leggero strato candido di aragonite, depositata dall'umidità che percola dalla balma. Un altro punto conclude la storia. “Oranti in preghiera” simili a quelli camuni o a certe figurazioni “tombali” sarde si alternano a file di punti, recinti, simboli antropomorfi, ombre vive di una realtà che non sappiamo più riconoscere. Mai sapremo davvero di quale racconto si tratti, mai riusciremo a leggerlo.
È un racconto di eroi e di dee, il ricordo del tempo perduto in cui l'uomo parlava con le stelle. Sono simboli, concetti, astrazioni, di cui forse non capiremo mai la verità e l'essenza, poiché proprio non lo meritiamo. Ma dalla compassione di cui la natura ci fa partecipi, nonostante la nostra tendenza irrefrenabile a oltraggiarla, i segni della sua presenza sono riemersi nel 2008.
Se davvero è opera, come si pensa, di cacciatori eneolitici, non dovrebbe sorprendere che, millenni dopo, a imbattersi in questa scoperta sia stato proprio un loro lontano discendente. Solo un cacciatore si sarebbe spinto fino a quella balma, solo un cacciatore avrebbe potuto riconoscere i segni eterni lasciati dai suoi “avi”.
Altri anni sono poi occorsi prima che i tempi fossero adatti. Finché, nel novembre del 2011, poco distante da quello stesso luogo, un archeologo ha riconosciuto nelle foto quello che il cacciatore sapeva nel cuore.
Per ora non sono state rinvenute tracce di una permanenza dell'uomo in questo luogo, talmente sacro che sulla sua essenza religiosa sono d'accordo perfino gli storici e gli archeologi. Mani esperte e degne ebbero dalla natura, una volta soltanto, il permesso di scrivere su queste rocce parole eterne. Poi, su di esse, la Madre delle madri fece prodigiosamente scendere un sottile manto traslucido di concrezione calcarea, per proteggerle. E con esso, provvide ad avvolgerle nel giusto oblio che anche oggi dovremmo osservare.
Quando il cacciatore e l'archeologo la raggiunsero insieme per la prima volta, c'era un cervo ad aspettarli, il totem di quel luogo ancestrale, il suo vigile custode e fondamento. Solo i cervi infatti salgono alla balma, da quando il mondo l'ha plasmata. La raggiungono per strofinare le “corna” contro la roccia scintillante, dove sanno di avere il permesso per compiere quel rito naturale. Nessuna pittura è stata toccata dalle loro ruvide impalcature. Vengono tra la primavera e l'estate ad affilare e perfezionare i palchi con cui conquisteranno le femmine e sfregando, rendono più viva e feconda la dura roccia. Tornano solo nel più gelido inverno, i “tori delle fate”, per lasciarli come fiori sulla soglia della casa dove la loro amata dimora. E in quel ritmo raccontano la storia di tutto ciò che esiste. Nell'abbraccio della balma il cervo nasce, muore e morendo torna a nuova vita.
Di quegli “omini” dipinti alla balma, che paiono a tratti visitatori spaziali, perché giungono da epoche remote che non conosciamo veramente, dall'Era dell'Orsa, del Cinghiale Bianco e del Signore dei Boschi, si scrive, con tono asettico, che essi sarebbero “figure antropomorfe schematiche con le braccia alzate”. Eppure il fanciullino silente in ognuno di noi, “che non solo ha brividi [...] ma lagrime ancora e tripudi suoi”, guardando meglio ci spinge a sfuggire ai sensi e alla ragione per cercare nuovi significati. E allora in quelle “braccia” alzate, compaiono d'improvviso i profili dei palchi di cervo, in quelle “gambette” storte e sproporzionate le zampe possenti del sacro animale. Gli antropomorfismi pareidolici cedono subito il passo alla contemplazione della potenza di quei simboli, della forza universale che quei segni rappresentano ed esprimono.
I puntini pare formino “recinti”, “catapulte”, “ghirlande”, corde che legano”. Ma chi li fece, con davanti agli occhi le macchie bianche sul manto dei piccoli di cervo, li plasmò in forma di gocce e li disegnò facendo delicatamente leva con il dito sulla roccia, come a voler imprimere a ciascun punto il movimento vitale.
Poco a poco le fessure naturali, i rigonfiamenti, tutto su quella roccia pare vivo e pregno di sensi e significati impossibili da immaginare. Infine, anche quel triangolo fatto di punti e di “omini”, che i pochi fortunati visitatori d'istinto hanno definito “aquila” e l'innocenza di una bambina “la valle in mezzo alle montagne”, lo riconosci.
Quel profilo non è che il muso, il naso, della Bianca Regina dei Cervi, il cui alito dolcissimo emana parole di tenerezza per il mondo. Forse quei simboli sono allora, le idee pure, i progetti, la danza cosmica dei pensieri di quell'Intelligenza che ha creato ogni cosa.
Tra quei pensieri, uno è di certo per noi piccoli uomini, particelle infinitesimali nella grandiosità della creazione. Chissà che non porti un messaggio quel “capovolto”, a testa in giù e con un arco sulla testa... dicono che quello tra i “cacciatori” invitati alla Balma che lo dipinse, quel Buonarroti della preistoria, lo fece mettendosi a testa in giù altrimenti non ci arrivava e da quella posizione non poteva che disegnarlo al contrario...
Eppure è un simbolo già visto: i gitani, che in tarda primavera e in autunno si riuniscono in Provenza, lo chiamano “l'uomo che afferra il cielo”, stilizzazione del primo arcano dei tarocchi zingari. Nelle sue sembianze involgarite si cela l'antico Mercurio, messaggero degli dei. Lì, sulla parete della balma, così capovolto, pare proprio Hermes che porta il messaggio del cielo sulla terra. Anzi, che porta il cielo sulla terra, come a voler dire che il “cielo”, che tanto cerchiamo, è in “terra”. O, meglio, che l'unica strada per giungere al Cielo è la Terra.
La terra è mamma e maestra misericordiosa, mai matrigna.
Attese che uomini degni nascessero in quella valle e li accolse in quel preciso punto affinché disegnassero il suo messaggio.
Al resto avrebbe provveduto il vento di Nord Ovest soffiando, come le brezze degli altopiani asiatici sui cordoni dei mantra tibetani, su quelle preghiere di tenerezza, custodite dal “bestiame della Dea”, che la Natura rivolge incessante all'uomo:“Abbi fiducia in me”.
BIBLIOGRAFIA
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I due re che fecero universi gemelli nella pietra
Questa è la storia di un re decaduto, di una montagna sacra e dalla nascita del più grande impero indocinese. E' la storia di re Devanika, sovrano di Funan, spodestato dalle bellicose tribù venute dal nord.
Nulla gli rimaneva se non le visioni del rishi Vaktrashiva, secondo il quale avrebbe dovuto lasciare la celeste città di My-Son, per cercare la montagna sacra di Shiva Briadeshwara, uno dei 68 lingam naturali di Shiva e qui edificare un nuovo tempio e una nuova città. Allo spuntare della luce dorata di un'alba del V secolo a.C. Devanika partì, dunque, portando con sé il fido Khammata, l'architetto reale.
Stele di Devanika
Camminarono per settimane, forse mesi. Poi un giorno Devanika, mentre rimuginava seduto sulla riva del grande fiume madre-di-tutte-le-acque, finalmente lo vide. Lingaparvata si ergeva dalla pianura, fiero e maestoso proprio davanti a lui. Era giunto nella nuova terra sacra, la novella Kurukshetra, gemella identica della piana in cui si erano combattute le battaglie del Mahabarata.
Costruì un lago in cui i pellegrini che sarebbero giunti potevano immergersi per uscirne benedetti e ordinò a Khammata di erigere un tempio a Shiva sulla montagna. Tra il fiume e la piana sorse presto la capitale del nuovo regno, Shresthapura. La benevolenza del dio avrebbe vegliato su Devanika e sui suoi successori.
Quattrocento anni più tardi, l'ultimo re di Shresthapura e discendente di Devanika, Jayavarman II, al termine dell'unificazione di tutti i piccoli regni indocinesi, avrebbe costruito un nuovo tempio e fondato ufficialmente il grande impero Khmer iniziando la costruzione della nuova grande città sacra di Angkor.
Il passaggio dal mito alla storia è una stele rinvenuta sulle rive del Mekong nell'odierno Laos, in cui il re mitico Devanika racconta di proprio pugno la vicenda di come giunse nel luogo in cui regnava Shiva vivente. Poi, nel 1998, una scoperta tutta italiana ha definitivamente risolto l'enigma. A poca distanza dalla stele, sulla cima del Phu Kao, che domina dall'alto dei suoi 1416 metri la regione di Champassak, nel Laos meridionale e sulle cui pendici Henry Parmentier aveva scoperto un grandioso tempio pre-angkoriano a inizio '900, una spedizione italiana ha trovato la prova dell'esistenza di un sacrario dedicato proprio a Shiva: le fondamenta di un piccolo tempio e poco più in basso, i resti di un altare e di un lingam.
Qui, dunque, dove il corso del Mekong è più largo, nella fertile pianura del Bassac, è nato l'impero Khmer, alle pendici del Lingaparvata, il Ling Kia Po P'o della cinese "Storia dei Sui" (VI secolo d.C.) sulla cui cima si ergeva un tempio dedicato al dio P'o To Li, custodito da mille soldati e dove una volta all'anno durante il plenilunio, il re in persona sacrificava una vittima al signore della montagna.
Della prima capitale e della sua leggendaria gemella Lingapura, acclamata in molte fonti antiche come ricca e prospera città di commercio, solo ora individuata come buona certezza, rimangono soltanto pochi resti. Ma esiste ancora lo splendido complesso templare progettato e costruito forse già da Khammata, sulle pendici del dio montagna.
Wat Phou Champassak è un universo nella pietra. È concepito come una grandiosa via, una strada in leggera salita lunga più di un chilometro e mezzo che punta decisamente a ovest, preceduta da due file, una di di tre e l'altra di due, ciclopici baray (bacini artificiali). L'unico che oggi ancora contiene acqua misura 200 metri di larghezza per 600 di lunghezza. Se il Phu Kao-Lingaparvata simboleggiava il Monte Meru che si levava dalla pianura di Kurukshetra, i bacini riproducevano gli oceani che si estendevano alle sue pendici. Pare che un canale artificiale (non più esistente) deviato dal Mekong consentisse al re di raggiungere il baray centrale a bordo di un'imbarcazione cerimoniale.
Una terrazza a gradoni, ancora visibile, posta oltre il bacino, era un tempo il basamento del primo gopuram, l'accesso principale del tempio, oltre il quale iniziava il lungo viale rettilineo delimitato da due lunghe file di pilastrini in forma di lingam.
Il viale termina ai piedi di due complessi gemelli di cortili vagamente simili a chiostri, in cui si aprono portali splendidamente scolpiti. Lo scopo delle due strutture, arbitrariamente definite “casa degli uomini” e “casa delle donne” è tutt'ora oggetto di dibattito.
Da ciascuna, una galleria coperta conduceva all'inizio del percorso in salita. Il numero sette diventa dominante. Sei più la sommità sono i livelli intervallati da quattro scalinate e portali, sette sono le rampe per ogni scalinata e sette i gradini di ogni rampa. Naga dalle infinite spire si snodano sui muri che delimitano il percorso ed elevano le loro sette teste in fondo alle balaustre. Altri serpenti si fronteggiano scolpiti nei gradini e nelle soglie di ogni livello, ai piedi di quelli che, molti secoli fa erano poderosi gopuram.
Oltre la seconda scala si ergevano i due Dvarapala (colui che apre/sorveglia la porta) armati, uno per lato. L'unico esistente, ancora adorato come buddha, sembra sia stato modellato sulle fattezze dell'architetto reale Khammata, ideatore del tempio.
Finalmente il camminamento processionale raggiunge la collina. Sette terrazze che emergono dalla terra come un muro invalicabile sono l'ultimo ostacolo al raggiungimento della sommità del tempio. Bisogna di nuovo affrontare una scalinata a sette rampe di sette ripidi scalini.
E infine, ecco il santuario inaccessibile di Shiva, con il vestibolo che precede il sacrario e le porte aperte su tre lati in direzione dei punti cardinali, sormontate dai Dikpala, i loro rappresentanti e guardiani. Qui nella porta principale si infila il sole dell'equinozio che sorge a Est. Oggi illumina una statua del buddha ma una volta percorreva tutto il vestibolo per raggiungere il lingam sacro e nutrirlo con il miele del cielo.
Intanto, l'acqua prelevata dalla sorgente che si trova 60 metri sud-ovest del complesso e incanalata in un sistema di canalizzazione e distribuzione unico al mondo, passando per numerose fontane e per la sacra Trimurti delle forze del cosmo, irrorava continuamente e il lingam, nutrendolo con il latte della terra.
Poi, il liquido vivificato dalla luce si raccoglieva probabilmente in una vasca, dalla quale solo il re poteva bere. L'essenza della regalità, l'Io impalpabile del sovrano, era infatti posta nel lingam, simbolo della potenza creatrice di Shiva.
Alla stessa fonte di latte e miele si sarebbe abbeverato quattrocento anni più tardi l'ultimo discendente di Devanika, incoronato re da queste acque luminose con il nome di Jayavarman II. Cresciuto alla corte dei sovrani Saliendra di Giava, non si sa se come schiavo o per ricevere adeguata istruzione, vide la costruzione dello spettacolare Borobodur, il primo tempio-montagna eretto per celebrare il culto del deva-raja, re-dio.
Tornato infine in patria come vassallo, ben presto si impose sui signori locali e la sua influenza aumentò. Poi, un giorno, com'era stato per Devanika, una visione lo rese re. Il messaggio giunse in sogno ad un suo figlio, forse lo stesso che gli sarebbe succeduto come Yasovarman I o l'altro che si dice abbia regnato per breve tempo come Jayavarman III. Il luogo che aveva visto nel suo viaggio onirico, un picco circondato da cinque montagne, era quello su cui avrebbe dovuto sorgere un nuovo tempio dedicato a Shiva Nataraja, il danzatore cosmico.
Cercò senza sosta. Finché lo riconobbe. Era là, tra i Monti Dangrek. Era come nel sogno. Lo fece uguale all'antico tempio, più a settentrione, dove i Khmer erano nati, Wat Phou. Stabilì con precisione da dove giungeva il sole dell'equinozio e fece fare una galleria perché il signore del cielo vi si accomodasse.
Ma ruotò l'asse principale del tempio, chiamato Prasat Preah Vihear, “Castello della dimora Celeste”, quasi esattamente a Nord e su di esso fu posto un lungo viale lastricato con cinque gopuram. Poi, come ricorda una stele trovata nei dintorni, una “pietra” sacra, forse un lingam, fu portata da Wat Phou al nuovo tempio. Così Jayavarman II poté finalmente celebrare "un rito tramite il quale la Cambogia non fosse più dipendente da Giava e che non ci fosse nel regno che un solo re che ne era l' unico sovrano", diventando in questo luogo di potere il sovrano universale, il Chakravatin, “colui le cui ruote si muovono”.
Intanto non molto lontano, nasceva la nuova capitale del regno Khmer, Hariharalaya. Il suo complesso di templi sarebbe poi diventato l'area sacra di Angkor. Ma per lungo tempo le origini non sarebbero state dimenticate. Una strada lunga 240 chilometri continuò a collegare la capitale all'antico tempio di Wat Phou, presso il piccolo santuario del Toro Nandi, passando per Nang sida e Ban Thaat. Ancora oggi i primi 30 km sono ancora disseminati di piccoli templi e santuari. Molti altri sono stati saccheggiati e distrutti dai cercatori di tesori.
In Laos, con la venuta del buddismo theravada, ai lingam di Shiva si sono sostituiti i buddha prabang, ma il sole ancora ne bacia le sommità e l'acqua scorre sulle loro teste ad irrorarli e nutrirli.
Cambogia e Thailandia, intanto, continuano a contendersi la sovranità, contendendosi Preah Vihear, che oggi si trova proprio sul confine tra i due stati e senza il possesso del quale nessuno dei due stati può riaffermare la propria supremazia sull'altro...
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Projet de Recherches en Archaeologie Lao, Vat Phu: The Ancient City, The Sanctuary, The Spring (pamphlet)
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