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Il silenzio degli Dei
Fino a quando gli animali
avranno da mangiare
e tutti i ruscelli
potranno cantare
saremo gli amanti
della nostra Madre Terra
le foreste ci proteggeranno
l’inverno.
L’amore è così sacro
come l’acqua e la terra
gli uomini e i fiori
sono fratelli e sorelle.
Una legge ci unisce
è il cosmo che vive
armonia dei colori
pace nel mio cuore.
(Jacqueline Fassero)
Quella parete, lassù nella valle, con le sue strane pitture, i suoi fantasmagorici simboli e la sua sconosciuta antichissima sapienza, non smette mai di chiamare. Ci capiti una volta - non ti han detto dov'é, perché è proibito raggiungerla, ma la determinazione ti ha portato fino a lei – e non la lasci più. Non ne parli, pensi ad altro, hai una vita da vivere, eppure nel mezzo della notte, nel più profondo silenzio, la ritrovi.
I segni che pregò i tuoi antenati di realizzare, nascosti all'uomo per millenni, estreme suppliche rivolte all'uomo cieco e sordo di un futuro lontano, ora si sono rivelati. Il tempo stringe. La valle materna che in tutti questi eoni ha sopportato e retto ogni angheria affinché l'essere umano, pur immeritevole, potesse prosperare fra le sue braccia, è allo stremo delle forze.
Le rocce da cui la vita stillava e quelle in cui la vita si raccoglieva, giacciono sotto cumuli d'immondizie, abbandonate e offese dall'incuria. Non è vendetta quella che pende sul nostro capo, è il male che noi ogni giorno, unici re e imperatori delle nostre scelte, abilmente ci procuriamo.
Non contano le parole e i concetti che furono scritti, conta che sono stati scritti “a chiare lettere” per essere letti nel più buio dei tempi... il nostro. Meglio sarebbe stato se quella parete non fosse mai tornata a parlare.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)
Quella parete, lassù nella valle, è nata con la valle stessa, da sconvolgimenti geologici e “placche” impegnate in epici scontri, quando la terra era ancora un ammasso rovente, le cui ferite sarebbero poi state curate dal silenzio e dalle pia vegetazione che presto sarebbe cresciuta sulla roccia.
Lì e solo lì, come è stato scritto nel libro della creazione, schematiche linee di un rosso ocra e forme pure disegnate da mani “bambine” non avrebbero patito le intemperie e l'usura del tempo. Lì, proprio lì, furono vergate. Fu un gran lavoro e non fu una mano sola. S'intuisce e si vede, se si ha l'occhio accorto. Pressione, direzione, dimensione raccontano di un gruppo, di un insieme scelto che lavorò come un sol corpo.
Erano uomini quei favolosi artisti? O forse erano donne? Da dove venivano? È scritto con il colore del fuoco in quelle stesse pitture.
Grotta di Pech Merle
Ci sono forse immagini di guerra? Ci sono forse titani dalle spade affilate o temibili guerrieri?
Ci sono cacciatori impavidi impegnati a uccidere enormi animali feroci?
Io non ne vedo.
Ci sono alberi da frutto? Campi da dissodare? Giardini ricolmi di delizie?
Io non ne vedo.
E non vedo neppure asettici “oranti in preghiera”, innocui “meandriformi” e “recinti” che non recintano nulla.
Ciò che vedo è una grande storia, l'epopea della vita raccontata dalla sorgente da cui la vita sgorgò. Vedo una storia che non insegnano sui libri di scuola, vedo il racconto di un'età dell'oro di cui non abbiamo quasi ricordo.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (VB)
Ci hanno insegnato che le terre europee, dall'ultima glaciazione fino al nascere dei primi grandi imperi e anche oltre, fra il 10.000 a.C e il 2.000 a.C. erano il rifugio di sparuti gruppi di cacciatori/raccoglitori, trogloditi capaci al più di sopravvivere, tra cui si muovevano orde d'invasori giunti da ogni dove, svelti ad andarsene così com'erano venuti.
Ma in quell'oscuro periodo, incastrato fra le glaciazioni, tra l'alba dell'uomo e l'Età del Ferro, gli esseri umani crearono civiltà sempre più raffinate, che non fabbricavano né usavano armi. Erano società pacifiche, stanziate presso i fiumi e i torrenti, nelle valli verdeggianti, in cui il maschio e la femmina incarnavano ciascuno il proprio scopo naturale in armonia. Non si riscontrano distinzioni nelle sepolture, né nel rango sociale.
Madre Terra era il loro nume tutelare e il loro cervello bicamerale poteva udirne la voce amorevole, così come tutte quelle degli spiriti di natura. Nel suo abbraccio e nella sua ciclicità, ampiamente rappresentata nelle incomprese “veneri paleolitiche”, trovavano tutto ciò di cui avevano bisogno, cibo e risposte, forma ritmo e direzione in ogni cosa e per ogni cosa.
Dalla Siberia, a Malta, ai monti Cantabrici, fiorì la grandiosa e libera civiltà “gilanica”, in tutte le sue splendide particolarità locali e regionali. Catal Huyuk, Hacilar, Gobekli Tepe, la Balma dei Cervi antigoriana, sono soltanto alcuni degli antichi centri abitati intorno a cui l'umanità matri-patriarcale prosperò per molto tempo.
Lucas Cranach - Il Paradiso in terra
Poi qualcosa, nel cervello dell'uomo, cominciò a mutare. Qualcuno prese a dubitare delle voci della terra, alcune cominciarono a sembrare migliori, più autoritarie delle altre. Nella grande battaglia interiore che ne scaturì, l'emisfero maschile ebbe la meglio.
I primi uomini in cui il cervello femminile era stato ridotto al silenzio, furono i Kurgan, i mitici “popoli indoeuropei” che, dalle steppe centro-asiatiche, scesero verso l'Europa e il mediterraneo nel V millennio a.C. per portare la “civiltà”.
I resti dei loro tumuli sepolcrali sono venuti alla luce negli anni Novanta del XX secolo, proprio nell'area del bacino del Volga dal quale erano partiti tanto tempo prima.
Così come la Dea taceva nelle loro teste, così avrebbe taciuto nei templi, nelle città, nelle grotte e presso le fonti. Urlando tutta la loro rabbia, scuotendo terribilmente i loro corpi e battendo sugli scudi scesero fino al Mediterraneo e la costrinsero al silenzio.
Furono loro a portare la guerra che l'Europa non conosceva, furono loro ad accentrare il potere in grandi città fortificate, furono loro a dichiarare maschio l'unico, feroce dio supremo e a farsene profeti ed esecutori. Così fu espugnata Troia e passati per la spada tutti i suoi occupanti. Atlantide bruciava. Il paradiso in terra era perduto.
Le Rovine di Atlantide - da Ventimila Leghe Sotto i Mari (ed. Hezel)
I grandi santuari megalitici furono dimenticati o diventarono improbabili fortezze, il sangue cominciò a scorrere tingendo i fiumi di riflessi purpurei e il timore di essere assaliti spinse perfino i morti a portarsi una spada nella tomba.
Grandi imperi si imposero sui pacifici gilanici. La sapienza diventò potere e il potere logorò l'animo umano. La Terra guardava in silenzio l'uomo compiere le proprie scelte e costruirsi da solo la sua rovina. La Terra non sarebbe perita, non erano che piccoli fastidi sulla sua immensa pelle. Ma nell'immane misericordia che custodiva nel proprio grembo, la Dea soffriva per l'uomo. La Balma fu forse un incompreso atto di amorevole pietà.
Balma dei Cervi - Valle Antigorio (originale nel riquadro piccolo)
Se è vero che furono donne le ultime a sentire ancora le voci della Terra, assise sui loro scranni dentro gli antri sibillini più bui e profondi, non saranno state (anche) loro le mani che l'hanno dipinta?
Dita scelte, di uomini e di donne hanno tracciato quei segni, affinché vi infondessero struttura e funzione secondo natura.
Poi il silenzio.
Fino a oggi.
La riscoperta della civilità “gilanica” paneuropea nel XX secolo è opera dell'archeomitologa lituana Maria Gimbutas. Dopo aver postulato l'esistenza di una forma di aggregazione sociale matriarcale e patriarcale insieme, pacifica e ugualitaria, precedente le prime grandi civiltà, ne rinviene le tracce durante le lunghe campagne di scavo che svolge tra gli anni 70 e gli anni 90.
Megaliti, grotte dipinte, “veneri” paleolitiche, massi coppellati, petroglifi, i grandi insediamenti dell'anatolia non sono altro che i resti di questa perduta “età dell'oro”.
Il suo lavoro viene poi ripreso e ampliato a partire dagli anni 90 dalla scrittrice e divulgatrice statunitense Riane Esler e dall'archeologo James Patrick Mallory.
Intanto i lavori di Erich Fromm e soprattutto di Julian Jaynes in campo psicologico, rivelano la fondamentale modificazione morfologica del cervello umano antico che avrebbe portato alla fine di tali società pacifiche, a vantaggio dell'ordinamento patriarcale, che domina ancora il mondo moderno.
Come disse la stessa Maria Gimbutas: “La base di ogni civiltà risiede nel suo livello di creazioni artistiche, di conquiste estetiche, di valori non materiali e di libertà, che danno significato, valore e gioia alla vita per tutti i suoi cittadini, così come un equilibrio di potere tra i due sessi”.
La Balma fu dipinta quale ultima possibilità per l'uomo di ritrovarsi e ritrovare la Terra, quando nient'altro avrebbe più potuto convincerlo...
BIBLIOGRAFIA
Maria Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Venexia, Roma, 2012
Maria Gimbutas, Le civiltà della Dea, Le civette, Viterbo, 2012
Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano, 2008
Riane Esler, Il piacere è sacro, Frassinelli, Milano, 1995
Riane Eisler, Il calice e la spada. La nascita del predominio maschile (1987), Pratiche Editrice, Parma, 1996
Anna De Nardis (a cura di), Momolina Marconi: Da Circe a Morgana, Venexia, Roma, 2009
Luciana Percovich, Colei che dà la vita. Colei che dà la forma, Venexia, Roma, 2009
Io sono la genitrice dell'universo
Nelle leggende del Graal, tra le sue mille forme e apparenze, compare sempre quella del vaso, del contenitore, che raccoglie un qualche “cibo” o “nettare” divino. A chiunque potrebbe palesarsi, ma solo pochi si rendono conto, in ritardo, come Perceval, di cosa sia.
Nonostante il successivo affacciarsi, nelle storie dei trovatori, della figura di Giuseppe d'Arimatea e di un altro calice, quello che avrebbe accolto il sangue del Cristo morente, esisteva da sempre un “vaso” di cui forse il Graal era davvero rappresentazione. Ma chi mai avrebbe potuto accettarlo? Come poteva il ventre di una donna e ciò che contiene essere la più ambita delle reliquie?
Nel 1994, nel dipartimento francese dell'Ardèche, esplorazioni speleologiche hanno inaspettatamente riportato alla luce i più antichi dipinti in grotta dell'intero pianeta. Nei meandri della grotta Chauvet, uomini impavidi e ingegnosi, 32000 anni fa, dipinsero un intero mondo di visioni. Ne è rimasto stregato il celebre regista, produttore e attore Herzog che, nel 2010, ha ultimato un commovente documentario dell'intero sito, intitolato “La grotta dei sogni dimenticati”.
I suoi 500 metri e più di estensione ospitano varie centinaia di pittogrammi. Ma è giù, nel profondo della terra, nella “camera” più lontana dall'ingresso, che giace su uno sperone roccioso il più antico di tutti. E' una “venere”, una dea madre, di cui sono ben intuibili le gambe e soprattutto l'attributo vulvare, la “porta” del suo grembo, di cui l'intera Chauvet è una grandiosa rappresentazione.
Quella madre fu dipinta anche nelle alpi, nell'Ossola remota dei “Leponzi”, nella parete scoscesa di una balma naturale affacciata sulla valle. Anche qui, come a Chauvet, ancora esiste. Come nell'Ardèche, dove fu trasformata nei suoi animali totemici (uno “stregone” o una divinità con le corna e la testa e un felino aggiunti successivamente, circa 26-27000 anni fa) anche in valle Antigorio è stata rappresentata attraverso il suo equivalente animale, il cervo, dal cui naso la vita viene soffiata in questo mondo.
In entrambi i luoghi le “preghiere sognanti” raccontano la stessa storia, fatta di ritmi, di ascese e discese, di nascita e di morte, di trasformazione, delle forze universali che si avvicendano nella magnifica danza della Creazione. Qui la vita raggiungeva il mondo dalle profondità siderali del cosmo, diventando materia, come suggeriscono le dee madri partorienti rinvenute a La Madeleine, ad Angles Sur l'Anglin e a Tursac accanto a entità animalesche cornute. Forse qui venivano portate le donne affinché il parto si svolgesse nel migliore dei modi. Quale luogo è più adatto alla nascita, infatti, del ventre profondo di Madre Terra, genitrice dell'Universo intero?
Alla grande madre di ogni cosa si sono rivolti i culti di ogni epoca. Con mille nomi l'hanno chiamata, a volte dimenticandola, a volte ricordandosi nuovamente di lei, come la dea stessa racconta nelle Metamorfosi di Apuleio: “Nel mondo io sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi”. È la Cibele dei Frigi, la Minerva degli Attici, la Venere cipriota, la Diana cretese, Ecate, Rammusia, Giunone, Proserpina.
Il suo nome più antico, però, è forse Isthar o Iside, quella di cui, nel tempio egizio di Sais era inciso sull'altare: “Io, Iside, sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà... Il frutto a cui ho dato nascita è il sole”. Il trono è il suo emblema, il trono è il “sostegno” della vita.
Viene ricordata e venerata dalla notte dei tempi e fino a tutta l'antichità. Poi, improvvisamente, qualcuno la solleva dal trono e spodestandola, la getta nell'oblio. All'incirca è un giorno di gennaio tra il 35 e il 39 d.C. Il cilicio Saulo, allievo del celebre filosofo gerosolimitano Gamaliele e feroce persecutore dei rivoltosi “cristiani”, cade e rimane parzialmente cieco mentre si reca a Damasco per proseguire la sua opera inquisitoria.
Ecco. Il feroce oppositore originario di Tarso, nato all'ombra di Iside, assalito dalle visioni insieme ad Anania come i sacerdoti della dea nel tempio di Philae, ben presto si rivolta contro i suoi stessi dei, dalle fattezze di animali: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Lettera ai Romani1).
Proclama invece il messaggio cristico come unica religione, inventando di fatto il Cristianesimo moderno. Ma non può sfuggire alle sue origini e non soddisfatto della guerra che sta portando alle “forze” e agli “enti” di cui è “figlio”, si dichiara unico depositario della sapienza divina: “ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Lettera ai Filippesi). L'onnipotenza di cui presto si fregia è senza dubbio quella che sta usurpando alla dea, alla Grande Regina Iside, chiamata appunto “Myrionima” proprio nella sua terra, la Cilicia in cui sorge Tarso.
Sfortunatamente per lui, continua ad ogni peregrinazione a dover fronteggiare la dea cosmocrate gnostica e i suoi sacerdoti, che addirittura gli si mostrerà come Artemide in Tessalonica. La dea, dunque, va definitivamente scalzata dal suo scranno. E ciò si compirà con la lettera ai Colossesi in cui, definitivamente, il Salvatore cristiano ne prende il posto: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ci aveva già provato tanto tempo prima il sovrano egizio Akhenaton, che aveva cercato di spazzare via tutti gli dei in favore di Aton, l'unico: “Tu hai l'eternità nelle membra, e tutte le creature vivono in te. [...] Tu li fai crescere per tuo figlio, colui che uscì dal tuo corpo...”. Ma solo il suo “pronipote” cilicio riuscì dove lui aveva fallito.
Sconfessata e privata della devozione, la dea, giace a lungo quale semplice figurazione della Sapienza divina solo per aver dato il natale a Gesù. Della vera teotokos rimane solo qualche riflesso nell'iconografia bizantina della Vergine. La Sapienza viene fatta sedere “sopra” il grembo della Madre, tolta a forza dal suo interno.
Mille anni la dea avrebbe atteso. Ci voleva una mente eccelsa ed illustre, quanto grettamente umana, perché di lei i popoli tornassero a parlare. Quando quel giorno del XII secolo alcune gocce del latte di sapienza stillarono dal suo seno direttamente nella bocca del monaco Bernardo, il tempo finalmente giunse. Egli ne divenne il nuovo alfiere. Come si era fregiato dei suoi attributi chi l'aveva sepolta, così avrebbe fatto il prodigioso teologo grazie al quale sarebbe tornata al suo posto negli altari. Bernardo era l'unico che si era abbeverato direttamente alla sedes sapientiae e nessun altro, nessun Abelardo di questo mondo gli avrebbe potuto passare innanzi.
I nascenti Templari sarebbero serviti allo scopo e il presule lo dichiara apertamente nella sua più discussa opera, la Lode alla nuova milizia: “Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione”. Lo scopo per cui l'ordine era stato fondato si sarebbe perso presto, fino a scomparire con il 1315 e la loro soppressione, ma altri ne avrebbero ampliato e proseguito l'opera.
Mentre i Cavalieri si diffondevano in tutto il vecchio mondo, i trovatori provenzali cominciarono a intessere le lodi alla Dea nella forma dell'amor cortese e nelle leggende del Graal. Certi re presero a farsi chiamare “trovatori della regina celestiale”, come i sovrani dell'antica Babilonia. Quel che non ci si ricordava veniva ripreso dai testi patristici del 6°-7° secolo (Liturgie basiliane, Gioie di Maria, Omelie della Vergine Maria di Germano di Costantinopoli, Lignum Crucis). Culti rinnovati si rivolsero alle oscure madri nere celate nelle cripte delle chiese. Riti perduti tenuti nascosti riemersero trasformati in usanze cristiane e alla paura del destino infausto che attendeva i bambini mort-né (morti-nati), i “mai nati”, si sostituì una nuova speranza nella madre dea, che concedeva loro una breve apparizione in questa vita affinché i loro corpicini potessero riposare in pace in terra consacrata.
La dea era tornata. Solo una cosa ancora mancava, una nuova effige della dea che riparasse al millenario affronto che le era stato inflitto dall'uomo. Sarebbe nata a metà del XIII secolo, dapprima in Portogallo e Spagna per poi diffondersi fino in Polonia e nelle terre germaniche. L'avrebbero sostituita alle altre al sommo degli altari. E i fedeli, avvicinandosi a questa nuova Madre assisa, come un grande trono su cui è seduto il “frutto del suo seno”, l'avrebbero vista aprirsi, spalancarsi come le porte della Gerusalemme celeste, per mostrare chiaramente la Sapienza di cui era il contenitore, il vaso.
Sarebbe durata poco. Già il Concilio di Trento ne avrebbe decretato la quasi totale scomparsa, condannandone la maggior parte delle figurazioni. A quelle che rimanevano avrebbe pensato Benedetto XIV nel 1745. Diversi erano i temi rappresentati dentro a queste “vierges ouvrantes”, vergini aprenti. Erano di legno, più raramente di avorio come il trono di Salomone ed erano costruite come scrigni,scatole, vasi, il cui coperchio si spalancava: alcune riproducevano scende tratte dalle Gioie della Madonna, altre episodi della Passione. Le più controverse e le ultime a resistere contenevano... la Trinità, la stessa vergata nelle absidi e nelle volte delle chiese. Nel ventre scuro (chiuso) di queste madonne pesantemente vestite, albergavano i tre princìpi, i costituenti dell'Universo, la Vera Sapienza che nella Grande Dea Terra trova realizzazione! E non dovrebbe sorprendere che molte di loro fossero esteriormente Madonne Lattanti.
Se ne conoscono oggi una settantina, ma ad eccezione di una manciata che si sono salvate dall'oblio del tempo, le altre sono soltanto riproduzioni tarde. La più antica è quella di Boubon. Due di quelle autentiche si trovano in Italia. Una, risalente al XV secolo, è ancora esposta nel museo del Castello di Pozzolo-Formigaro (VC), l'altra è stata pochi anni fa riconosciuta nella Parrocchiale di Ayas ed è proprio quella presso la quale si svolgeva il controverso rito della piuma o répit.
Nell'intenzione di chi la dipinse, forse, anche la Madonna di Re (VB), se fosse stata una statua, sarebbe stata una “Vierge ouvrante”. Il cartiglio ai suoi piedi, riprendendo le parole dei Padri della Chiesa, dice chiaramente “I gremio matris sedes sapientia patris”... la sede della Sapienza del Padre è nel grembo della madre, proprio dentro... non sulle sue ginocchia...
Una manciata di chilometri più a sud ovest, in Valle Strona, a Luzzogno, nel 1547, qualche anno dopo il miracolo presso l'affresco di Re, il vescovo Bascapé, in visita, ordina che l'antica madonna lattante sull'altare del piccolo santuario, venga privata del corpo “deteriorato e malconcio”. Perché la testa fu mantenuta mentre il corpo fu sostituito? Era forse il corpo eretico di una madre gnostica? Era forse un “vaso” che poteva aprirsi e mostrare verità scomode, inconfessabili, eretiche, pericolose?
Ormai era tardi. Quando l'Illuminismo arrivò la Dea si era di nuovo ritirata nel profondo delle cripte.
Il mondo non era ancora pronto, non meritava il suo ritorno.
E non lo è ancora.
NOTE
1La questione è stata ampiamente dibattuta ed è ragionevolmente provata, nonostante la controversia sulla effettiva paternità di San Paolo per molte delle “lettere” e dei testi che sono attribuite.
BIBLIOGRAFIA
Clottes, Jean, Chauvet Cave (ca. 30,000 B.C.), in Timeline of Art History, 2002
Le Guillou, Yves, Le Pont-d’Arc Venus – La vénus du Pont-d’Arc, 2001
Gimbutas, Marija, Il linguaggio della Dea, 1999
Graves, Robert, La Dea Bianca, 1959
Delporte, Henri, The shelter at Tursac Factor: study, 1968
Witt, Reginald Eldred, Isis in the ancient world, John Hopkins University Press, 1971
Mattioli-Carcano, Fiorella, Santuari a Répit, 2009
Chabanol, Renée, Les Vierges ouvrantes où à volets, ou statues triptyques, in Revue de la Société d’Histoire et d’archéologie de la Plaine de l’Ain (SHAPA), 2001
Clément, J.,Vierges ouvrantes , in La représentation de la Madonna à travers les âges, Paris, 1909
Riti di vita dagli scivoli alle streghe
Chi ci dice che davvero sui cosiddetti “scivoli” ci si andasse a scivolare? Qualcuno, da schegge di selce, punte di frecce e attrezzi per lo più “litici”, rinvenuti ai piedi o nelle vicinanze di uno “scivolo”, ha dedotto giustamente che l'uomo li frequenta da sempre. Il luogo e la posizione in cui di solito si trovano incute rispetto e suggerisce immancabilmente un qualche uso religioso. Infine le tradizioni, vecchie per altro solo di una manciata di generazioni, secondo cui le donne si sfregavano su un certo sasso sperando di restare incinte, ha fatto il resto. E se invece lo scivolamento non fosse altro che la conseguenza più “moderna” di un uso antico che non sappiamo più riconoscere?
La varietà e quantità di credenze legate alla roccia in effetti ci racconta qualcosa di diverso, restituendoci l'immagine lontana di una sacralità non banale. Sulle pietre ci si distendeva, ci si strusciava, bisognava toccarle oppure appoggiarci una certa parte del corpo, le mani, la schiena, ci si costruiva sopra e le si inglobava negli edifici sacri, si facevano a pezzetti per portarle a casa come souvenir.
Tutti questi usi però, sono accomunati da un fatto ben preciso: la necessità del contatto con la pietra. Non è guardandola o aspettando a distanza, che qualcosa può succedere, è solo toccandola, appoggiandosi, mettendo in relazione il corpo con la roccia: devono diventare una stessa cosa affinché “qualcosa” si sprigioni.
Quanto agli abusati e pretestuosi “riti di fertilità” che vi si svolgevano... ci sono culture e tradizioni di matrice antichissima che sono vive ancora oggi alle quali rivolgerci per comprendere...
Dovremmo ricominciare a capire che che le scene “erotiche” in bella vista sui muri di molti templi indù, non hanno nulla di sensuale. Anzi, non sono neanche quel poco che i nostri occhi pensano di vedere. Non di uomini e di donne si tratta, bensì di divinità, Shiva e Shakti, i quali altro non sono che le forze polarizzate della natura, attrattiva e repulsiva, ascendente e discendente, compressiva ed espansiva. Le cosiddette “posizioni” non sono, altrettanto, un atto “sessuale” ma la rappresentazione su un piano meramente umano del muoversi, dipanarsi e avvicendarsi ritmico e armonico di queste forze e di tutte le loro possibili interazioni dinamiche. Sono immagini dell'esistente che si crea e si mantiene. Non rappresentano movenze fisiche ma moti spirituali, flussi di energia di cui il legame fisico tra uomo e donna non è che un pallido riflesso.
Come le immagini di “erotismo” sacro, così ogni altra forma banalmente ricondotta a non ben definiti “rituale di fertilità” era dunque un “rito di vita”, un rituale di esistenza, un insieme di gesti attraverso i quali la vita viene invocata, adorata, mantenuta, migliorata, chiamata a manifestarsi. La cura, l'effetto taumaturgico è perciò ben altro da una semplice cura, è la vita che torna a scorrere dove non scorreva più, che scivola meglio dove prima c'erano intoppi.
La terra, che sostenta l'uomo e ogni altra creatura, culla e ventre che partorisce l'esistenza è l'ente unico a cui rivolgersi. Le sue manifestazioni visibili, in cui la vitalità adatta all'uomo può esprimersi, sono certe pietre, alcune sorgenti, macchie d'alberi, grotte in cui il cielo può specchiarsi, scendere, intessendo quel rapporto con la sua “sposa” che, appunto, è causa e motore della vita. L'abbiamo sempre saputo. Perfino i santuari “moderni” li abbiamo costruiti sulla roccia, definendoli “fonti di vita”. Sono i santuari stessi ad essere sorgenti di vitalità o le pietre su cui sorgono?
I ricordi più vividi si sono probabilmente conservati soprattutto nelle valli, specie quelle meno frequentate e negli alpeggi, dove la modernità portata dal cristianesimo tardò maggiormente a insediarsi. Sarebbe troppo facile sostenere che esisteva una vera e propria religione primitiva ancora praticata quando l'Inquisizione cominciò a interessarsi alle cosiddette streghe. Ma è indubbio che la tradizione popolare e i racconti estorti alle presunte malefiche sono intrisi proprio di ricordi di quell'antica gnosi che aveva prodotto millenni prima i massi coppellati e gli “scivoli”. Con le persecuzione alle streghe, probabilmente, scomparvero dal sapere popolare gli ultimi scintillii di quel rapporto filiale con la natura.
Forse non erano più conoscenza delle leggi e dei meccanismi e le loro pratiche erano basate sulla perfetta ripetizione “shamanica” di precisi gesti, formule, movimenti tramandati da un lontano passato. Di certo, però le streghe erano temutissime. Miti, leggende e racconti di paese sono un continuo avvertimento a non sfidarne il grande potere. La strega, partecipando al sabbah, era la custode dei segreti della vitalità di tutte le cose (“fertilità”) e per questo poteva compiere anche l'opposto: togliere, rimuovere la vita, risucchiarla via. Del resto per fare il male bisogna seguire le stesse regole del bene. Alla fama sinistra di queste donne contribuirono senz'altro anche la fervida fantasia degli inquisitori, subdoli interessi politici e religiosi, i fanatismi e il carattere grottesco e violento dei racconti estorti sotto minaccia e sotto tortura.
Si potrebbe però azzardare che quelle storie popolate di mostri, di pratiche truculente e formule incomprensibili, funzionassero anche come una sorta di linguaggio simbolico. Unte e a cavalcioni della scopa le streghe si radunavano per danze e feste sfrenate di cui si narravano i dettagli più terribili, ma per lo più erano donne del paese, abitanti della porta accanto, assolutamente presenti nella vita sociale. La paura delle loro ritorsioni poteva dunque essere più una forma di rispetto per le loro “qualità”, piuttosto che vero terrore? E le pozioni, gli unguenti, i preparati, i voli e le cavalcate nella notte, le danze orgiastiche non potrebbero essere state, allo stesso modo, il mezzo linguistico, simbolico in cui nascondere efficacemente le conoscenze ancestrali sopravvissute al tempo?
Nulla è mai veramente nascosto o rivelato solo a qualche “illuminato”. Ma la verità, a volte, poiché le trascende, non può essere espressa con categorie umane e richiede una preparazione e una responsabilità da coltivare nel tempo, per essere afferrata. Così, facendo ognuno la proprio parte nel cosmo, la stria e il suo sposo, uniti nella follia sabbatica, rappresentavano e richiamavano la danza stessa della creazione. La strega, sotto di sé, ha la pietra, la terra stessa di cui è espressione, come un arco convesso verso l'alto, verso il suo corrispondente complementare. Lo stregone, porta su di sé il segno stesso del cielo suo nume, un arco opposto, convesso verso il basso, la sua compagna. La “scopa” infine è l'asse, il percorso, il legame, la direzione, l'unione.
Non sono forse gli stessi simboli che già l'uomo rappresentava nelle grotte e nelle balme al tempo degli scivoli e dei massi coppellati?
Certo, era sempre la strega a raggiungere il suo sposo. E solo se prima si era messa a contatto della pietra o “croce”. La terra è la strada per salire al cielo. La scopa “spazza” la terra, simbolicamente il mezzo che ne risveglia la vitalità, rappresenta efficacemente questa tensione che parte dal basso.
Perciò già nella terra, nella roccia stava quello stesso “demone” con cui le masche volavano a danzare. Ma l'unico che era uscito da una roccia per portare la vita eterna era stato il Gesù cristiano. Quel demone con il cielo sulla testa, l'antico Cernunno dai mille nomi doveva essere di sicuro un usurpatore... era il diavolo sotto mentite spoglie!
Qualcuno, già nel '500 aveva già sollevati dubbi circa la realtà diabolica del fenomeno stregonico. Un eroico frate osservante minore monferrino, Samuele De Cassinis (Questio lamiarum, 1505), al tempo rinomato filosofo, si era spinto a sostenere che la "perfetta costruzione del mondo delle streghe” era un'invenzione “alla cui realizzazione massimamente contribuirono inquisitori e teologi domenicani". Le streghe infatti, secondo lui, non potevano essere dotate di certi poteri in quanto era inconcepibile che dio permettesse il dispiegarsi di fenomeni prodigiosi per scopi non benefici.
In diatribe teologiche di tale portata si era trovato anche il filosofo umanista mantovano Peretto Mantovano (Pietro Pomponazzi) che, già tacciato di eresia per le sue posizioni sulla possibilità di una dimostrazione razionale dell'anima, sosteneva l'origine allucinogena, causata da sostanze, delle millantate attività stregonesche e non l'intervento del diavolo, non dotato di simili capacità (De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, 1556).
Eppure, ne erano così certi gli inquisitori novaresi che a inizio '600, a Baceno, trascinavano le streghe appena catturate nella chiesa di San Gaudenzio e le spintonavano fino a farle crollare davanti “Peccato originale” del Bugnate, sotto lo sguardo terribile del mostro dell'apocalisse, ai piedi della croce della Redenzione. Era l'unica occasione offerta alle streghe per confessare spontaneamente, prima di essere tradotte in prigione e morire di stenti o finire sotto tortura.
Osservavano Eva e Adamo, dalle nudità scalpellate che erano così diventate vesti. La prima donna, con sguardo ipnotico porge il “frutto proibito” all'uomo, ritratto mentre si tira indietro, in un gesto di stizza, di rifiuto, ma non di paura, di disinteresse. Il serpente avvinghiato all'albero intanto si accosta alla donna come per sussurrarle qualcosa all'orecchio. Ma il serpente ha solo il corpo del rettile. La testa è la testa stessa, non soltanto il viso, di Eva!
Quale altro volto poteva avere il “male” se non proprio quello della donna, per un inquisitore? Il diavolo ha le fattezze di una donna, è la donna stessa. O almeno questa era le verità che i persecutori volevano far vedere e toccare con mano alle streghe.
Le adepte del “diavolo” rimanevano impassibili, in silenzio, tranquille, quasi confortate da quella visione. Con la coda dell'occhio spiavano la nuova veste di Eva, grande e sformata fino a coprire la mano destra e ciò che essa portava in grembo. Forse era un cesta piena di mele rosse e bianche, come quella che sta porgendo ad Adamo.
Non era una donna, era la Terra stessa il cui grembo era gravido di doni. Un'altra occhiata fugace svelava loro che anche gli occhi della serpe erano stati accuratamente rimossi, nonostante Eva neppure li degnasse.
Sono gli occhi chiusi di chi pensa di poter comandare la terra, ma così facendo, pur costringendola ad elargire i suoi frutti, si vedrà rifiutato il cielo, gli occhi di chi, condannandola con le parole e semplicemente opponendo un rifiuto, ha già perso.
BIBLIOGRAFIA
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Fabio Copiatti con Alberto De Giuli e Ausilio Priuli, Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola, Domodossola, 2003
Balma dei Cervi: la preghiera degli Dei
Nel 2012, quando la sovrintendenza ha ufficializzato la scoperta e ha posto sotto la sua protezione la Balma dei Cervi in Valle Antigorio, mantenendone segreta l'ubicazione, riscontrava che “si sono avuti alcuni distacchi della crosta calcarea, con l'asportazione delle pitture; alcuni distacchi sono in corso con margini sollevati di 1 o 2 mm”. Nella nostra breve visita due anni dopo, la delicata situazione in cui le pitture versano è stata inequivocabilmente evidente anche ai nostri occhi inesperti. È un miracolo che questi inestimabili messaggi sulla roccia siano ancora lì dopo millenni.
Ci appelliamo dunque affinché tutte le autorità provvedano al più presto
alla loro messa in sicurezza, così come già ampiamente promesso e prospettato.
E ci appelliamo a tutti voi affinché il vostro desiderio di avvicinarle, per quanto comprensibile,
alimenti invece il buon senso e il rispetto verso questo dono meraviglioso che viene da lontano.
Abbiamo raggiunto la balma non per curiosità, ma per raccontare, sensibilizzare e invitare al rispetto, affinché il nostro patrimonio non vada distrutto e dimenticato. Non riveleremo dove si trova. Questo gioiello deve rimanere segreto per rimanere protetto.
Ci appelliamo affinché la Balma continui ad essere per l'umanità.
- Francesco Teruggi, TriaSunt Associazione Culturale -
C'é una balma, da qualche parte in valle Antigorio, nell'estremo nord del Piemonte e dell'Ossola, alla quale solo i cervi salgono. Pare un grande orecchio teso ad ascoltare il ruggito distante del fiume. Sul colmo del rigonfiamento che sporge quasi come una mensola, a circa 1 metro e mezzo d'altezza, giace, nel silenzio, il più vasto e forse antico complesso di pitture rupestri delle Alpi Occidentali. Sono almeno una quindicina i siti noti, tra cui il Balm d'la Vardaiola dell'Alpe Veglia, a poche decine di chilometri di distanza, la Rocca di Cavour, la Balma ’d Mondon in val Pellice e Ponte Raut in val Germanasca, con cui sembrano avere molto in comune, ma le pitture antigoriane li superano tutti.
La fascia dipinta, lunga circa sei/sette metri è coperta di almeno una quarantina di pitture in ocra rossa di sfumature volutamente differenti, tracciate con la certezza e la calma di chi sa cosa significano. Un punto, un solo punto apre la narrazione che, poi, si sviluppa in almeno quattro zone, come capitoli di un libro, su un leggero strato candido di aragonite, depositata dall'umidità che percola dalla balma. Un altro punto conclude la storia. “Oranti in preghiera” simili a quelli camuni o a certe figurazioni “tombali” sarde si alternano a file di punti, recinti, simboli antropomorfi, ombre vive di una realtà che non sappiamo più riconoscere. Mai sapremo davvero di quale racconto si tratti, mai riusciremo a leggerlo.
È un racconto di eroi e di dee, il ricordo del tempo perduto in cui l'uomo parlava con le stelle. Sono simboli, concetti, astrazioni, di cui forse non capiremo mai la verità e l'essenza, poiché proprio non lo meritiamo. Ma dalla compassione di cui la natura ci fa partecipi, nonostante la nostra tendenza irrefrenabile a oltraggiarla, i segni della sua presenza sono riemersi nel 2008.
Se davvero è opera, come si pensa, di cacciatori eneolitici, non dovrebbe sorprendere che, millenni dopo, a imbattersi in questa scoperta sia stato proprio un loro lontano discendente. Solo un cacciatore si sarebbe spinto fino a quella balma, solo un cacciatore avrebbe potuto riconoscere i segni eterni lasciati dai suoi “avi”.
Altri anni sono poi occorsi prima che i tempi fossero adatti. Finché, nel novembre del 2011, poco distante da quello stesso luogo, un archeologo ha riconosciuto nelle foto quello che il cacciatore sapeva nel cuore.
Per ora non sono state rinvenute tracce di una permanenza dell'uomo in questo luogo, talmente sacro che sulla sua essenza religiosa sono d'accordo perfino gli storici e gli archeologi. Mani esperte e degne ebbero dalla natura, una volta soltanto, il permesso di scrivere su queste rocce parole eterne. Poi, su di esse, la Madre delle madri fece prodigiosamente scendere un sottile manto traslucido di concrezione calcarea, per proteggerle. E con esso, provvide ad avvolgerle nel giusto oblio che anche oggi dovremmo osservare.
Quando il cacciatore e l'archeologo la raggiunsero insieme per la prima volta, c'era un cervo ad aspettarli, il totem di quel luogo ancestrale, il suo vigile custode e fondamento. Solo i cervi infatti salgono alla balma, da quando il mondo l'ha plasmata. La raggiungono per strofinare le “corna” contro la roccia scintillante, dove sanno di avere il permesso per compiere quel rito naturale. Nessuna pittura è stata toccata dalle loro ruvide impalcature. Vengono tra la primavera e l'estate ad affilare e perfezionare i palchi con cui conquisteranno le femmine e sfregando, rendono più viva e feconda la dura roccia. Tornano solo nel più gelido inverno, i “tori delle fate”, per lasciarli come fiori sulla soglia della casa dove la loro amata dimora. E in quel ritmo raccontano la storia di tutto ciò che esiste. Nell'abbraccio della balma il cervo nasce, muore e morendo torna a nuova vita.
Di quegli “omini” dipinti alla balma, che paiono a tratti visitatori spaziali, perché giungono da epoche remote che non conosciamo veramente, dall'Era dell'Orsa, del Cinghiale Bianco e del Signore dei Boschi, si scrive, con tono asettico, che essi sarebbero “figure antropomorfe schematiche con le braccia alzate”. Eppure il fanciullino silente in ognuno di noi, “che non solo ha brividi [...] ma lagrime ancora e tripudi suoi”, guardando meglio ci spinge a sfuggire ai sensi e alla ragione per cercare nuovi significati. E allora in quelle “braccia” alzate, compaiono d'improvviso i profili dei palchi di cervo, in quelle “gambette” storte e sproporzionate le zampe possenti del sacro animale. Gli antropomorfismi pareidolici cedono subito il passo alla contemplazione della potenza di quei simboli, della forza universale che quei segni rappresentano ed esprimono.
I puntini pare formino “recinti”, “catapulte”, “ghirlande”, corde che legano”. Ma chi li fece, con davanti agli occhi le macchie bianche sul manto dei piccoli di cervo, li plasmò in forma di gocce e li disegnò facendo delicatamente leva con il dito sulla roccia, come a voler imprimere a ciascun punto il movimento vitale.
Poco a poco le fessure naturali, i rigonfiamenti, tutto su quella roccia pare vivo e pregno di sensi e significati impossibili da immaginare. Infine, anche quel triangolo fatto di punti e di “omini”, che i pochi fortunati visitatori d'istinto hanno definito “aquila” e l'innocenza di una bambina “la valle in mezzo alle montagne”, lo riconosci.
Quel profilo non è che il muso, il naso, della Bianca Regina dei Cervi, il cui alito dolcissimo emana parole di tenerezza per il mondo. Forse quei simboli sono allora, le idee pure, i progetti, la danza cosmica dei pensieri di quell'Intelligenza che ha creato ogni cosa.
Tra quei pensieri, uno è di certo per noi piccoli uomini, particelle infinitesimali nella grandiosità della creazione. Chissà che non porti un messaggio quel “capovolto”, a testa in giù e con un arco sulla testa... dicono che quello tra i “cacciatori” invitati alla Balma che lo dipinse, quel Buonarroti della preistoria, lo fece mettendosi a testa in giù altrimenti non ci arrivava e da quella posizione non poteva che disegnarlo al contrario...
Eppure è un simbolo già visto: i gitani, che in tarda primavera e in autunno si riuniscono in Provenza, lo chiamano “l'uomo che afferra il cielo”, stilizzazione del primo arcano dei tarocchi zingari. Nelle sue sembianze involgarite si cela l'antico Mercurio, messaggero degli dei. Lì, sulla parete della balma, così capovolto, pare proprio Hermes che porta il messaggio del cielo sulla terra. Anzi, che porta il cielo sulla terra, come a voler dire che il “cielo”, che tanto cerchiamo, è in “terra”. O, meglio, che l'unica strada per giungere al Cielo è la Terra.
La terra è mamma e maestra misericordiosa, mai matrigna.
Attese che uomini degni nascessero in quella valle e li accolse in quel preciso punto affinché disegnassero il suo messaggio.
Al resto avrebbe provveduto il vento di Nord Ovest soffiando, come le brezze degli altopiani asiatici sui cordoni dei mantra tibetani, su quelle preghiere di tenerezza, custodite dal “bestiame della Dea”, che la Natura rivolge incessante all'uomo:“Abbi fiducia in me”.
BIBLIOGRAFIA
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