La Testa e La Spada
Tre saggi che raccolgono
non solo la storia e le vicende
dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme,
ma anche i risvolti noti e meno noti della loro millenaria presenza,
l'anelito spirituale che ne animò la fondazione
e una disamina dei rapporti con gli altri Ordini,
sia di matrice occidentale che orientale.
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Concepiti inizialmente come testi per conferenze e convegni, i tre saggi che compongono «La Testa e la spada» raccolgono non soltanto la storie e le vicende note dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, ma anche risvolti poco conosciuti della loro millenaria presenza, l’anelito spirituale che ne animò la fondazione e una disamina dei rapporti con gli altri Ordini, sia di matrice occidentale che orientale.
Ne emerge una visione d’ insieme illuminante sull’Ordine Ospitaliero, impegnato nell’assistenza ai poveri e nella difesa della fede, ma animato nel profondo da una intensa ricerca spirituale tesa ben oltre i dogmatismi, intimamente legata alle tradizioni più antiche e pregna di elementi condivisi anche dalle cavallerie spirituali sufi mediorientali.
Conclude il trittico un’accurata analisi sull’attività di accoglienza popolare e nobiliare e sulla presenza dell’Ordine nell’estremo nord italiano, nell’area compresa fra Novara e l’Ossola, nelle cui installazioni locali e vicende è nuovamente possibile riconoscere la stessa spiritualità silenziosa che animò i Cavalieri Giovanniti a Gerusalemme, a Cipro, a Rodi, a Malta e in Europa.
Patrocinato da S.O.G.IT. - Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia, sezione di Verbania
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Girovagando edizione 2017
Perche si chiama "Répit"?
Il “ritorno effimero in vita dei bambini mai nati” viene spesso indicato con il termine francese “répit”. Si ritiene in genere che il primo studioso “moderno” di questo fenomeno millenario a utilizzare tale termine sia stato Émile Nourry, esperto di folklore, che pubblicò nel 1911 un saggio sul “rito della piuma” con lo pseudonimo di Pierre Saintyves.
I significati etimologici derivabili da tale sostantivo sono molteplici: termine di pagamento; si dice di una persona che si è rimessa dopo una malattia grave; Sosta, sospensione momentanea di un’azione, di un obbligo, di una tensione, di una sofferenza fisica o morale, interruzione, pausa, riprendere fiato, tregua; tempo di riposo, rilassamento, allentamento, sosta, pausa; riposo, rilassamento salutare, pausa di alcuni giorni, anno, istante, giorno, momento, settimana, tempo di pausa.
Ma Saintyves, in verità, permuta “répit” da un passaggio, preso quasi letteralmente, di un corposo lavoro dell'abbé Corblet che, nel 1881, aveva raccolto in otto tomi le sue ricerche sulla storia e le origini del Battesimo e già citava alcuni casi francesi di “ritorno effimero in vita” dei bambini mai nati.
Secondo il prelato, che non fornisce chiarimenti in merito, la denominazione sarebbe stata coniata in Piccardia e si riferirebbe non al rito, bensì al luogo in cui si svolgeva: “En Picardie on donnait le nom de répits, aux chapelles qui étaient censées jouir de ce privilège miraculeux” (In Piccardia è stato dato il nome di répit, alle cappelle che erano reputate beneficiare di tale miracoloso privilegio).
E poiché, nella regione i “répit”, conosciuti sono soltanto due - la Cattedrale di Amiens e Notre Dame de Liesse - è possibile che il nome o soprannome originario sia fiorito presso uno dei due santuari e in seguito sia diventato di uso comune.
Tra i due, il più antico e più probabile luogo di origine del termine è Notre Dame de Liesse, la cattedrale che custodisce una delle più antiche Vergini nere francesi, che operò prodigi della “doppia morte” per secoli prima che la stessa usanza cominciasse ad essere praticata anche ad Amiens (dove il primo caso risale al 1655 e si verificò nella Cappella dell'Annunciazione, di fronte alla pala d'altare di Nicolas Basset). La sua storia leggendaria è all'origine dei suoi numerosi prodigi tra i primi dei quali, appunto, figura proprio una “doppia morte”: la vita sarebbe stata brevemente restituita, infatti, tra il XII e il XII secolo, al figlio di un mercante borgognone. Si racconta che la madre si fosse addormentata durante il bagno lasciando cadere in acqua il bambino, di soli quindici giorni. Il mercante, tornato a casa, avrebbe trovato la consorte in prigione accusata di infanticidio e il figlio già sepolto da almeno quattro giorni.
Per tentare di salvare dalla pena di morte la moglie, il borgognone aveva infine deciso di disseppellire il corpicino e di portarlo al cospetto del giudice per dimostrare che si era trattato di un incidente. Ma, una volta che il bimbo era stato tra le sue braccia, vedendone lo stato ancora buono di conservazione, si era lasciato andare a una preghiera alla Signora di Liesse - alla quale era molto devoto e che già aveva invocato tempo prima affinché proteggesse quel parto - e improvvisamente il figlio aveva cominciato a dare segni di vita.
Il nome “répit”, potrebbe celare le sue origini nella leggendaria vicenda della statua della Beata Vergine Nera di Liesse. Per quanto poco o nulla, a parte il colore dominante, richiami quel lontano paese, il simulacro proviene dell'Egitto.
Protagonisti del suo arrivo in terra francese furono i Cavalieri di San Giovanni, stanziati nella vicina Làon, presso l'Abbazia di San Giovanni. La frammentaria ma precisa memoria lasciata dal cancelliere dell'Ordine fra' Melchiorre Bandini, racconta di come, nel 1134, tre dei cavalieri laonesi erano partiti per la Terra Santa e si trovavano quell'anno impegnati al confine meridionale del Regno di Gerusalemme, dove il re Foulques aveva affidato all'Ordine Ospitaliero la fortezza di Bethgebrim, l'antica Bersabea, all'indomani della conquista di Ascalona, presidiata invece dai Templari. Nel mese di Agosto i tre erano caduti un'imboscata tesa loro dai soldati del califfo egiziano mentre pattugliavano la strada di collegamento fra le due città.
Portati in catene fino alle prigioni de Il Cairo, gli aguzzini del califfo avevano senza successo tentato di convincerli a convertirsi all'Islam. Infine il califfo in persona, adirato per la loro resistenza, aveva mandato da loro l'amata e piacente figlia, Ismérie, con la speranza che cedessero alle sue lusinghe. Ma a vacillare era stata invece la stessa “sultana”, colpita dalla parole e dalla venerazione per la Vergine che i tre mostravano. Così, per metterli alla prova, aveva chiesto loro di realizzarne un'immagine, affinché potesse vedere con i suoi occhi questa figura celestiale e aveva dato loro strumenti e un lume. Nella notte, nonostante il Signore d'Eppes, il Signore di Marchois e il terzo cavaliere (di cui non si ricorda il nome), non avessero alcuna velleità e capacità artistica, era accaduto il prodigio. Un angelo aveva scolpito per loro, mentre dormivano, una statua della Vergine.
Il mattino seguente Ismérie, profondamente colpita dalla visione di quella effige, l'aveva portata nei suoi appartamenti. In sogno la Vergine le era apparsa, convincendola a convertirsi e a liberare i tre cavalieri e così era accaduto. Il quartetto aveva viaggiato per giorni nel deserto, cercando di sfuggire ai soldati del califfo, finché si erano addormentati sotto una palma e di nuovo, prodigiosamente, erano stati trasportati fino a Liesse.
Ismérie aveva ricevuto il battesimo con il nuovo nome “Maria” e aveva vissuto presso la cappella, pare, fino alla morte. Il suo corpo santo sarebbe stato sepolto nella navata della nuova cattedrale in costruzione, insieme ai tre eroici cavalieri.
Dove finisce la storia, però, comincia il mistero. Il racconto si snoda tra la realtà terrena e la dimensione del sogno che si alternano ripetutamente, indicando la precisa volontà di ricollegare e rendere “cristianamente” accettabili fatti che, altrimenti, non lo sarebbero. La verità, se ancora è possibile scorgerla, si nasconde nei dettagli.
I protagonisti sono tre, ma soltanto due hanno un nome, uno invece rimane imprecisato, quasi come se non fosse possibile attribuirgli - o non ce ne fosse bisogno - neppure un titolo oltre a quello generico di cavaliere. Sono dunque davvero tre diversi individui o sono forse le tre (in senso simbolico) “personalità” di uno stesso guerriero?
Quanto a Ismérie, ha un nome davvero insolito e tutt'ora senza una spiegazione esaustiva. Potrebbe essere una corruzione, come molti sostengono, del nome proprio germanico “Ismar”, il cui uso in Piccardia, però, non è semplice da motivare. Compare altrove solo nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, secondo cui si chiamava così la Madre di Santa Anna e nonna della Vergine Maria, di cui non c'é tuttavia, alcuna altra traccia, neppure biblica.
Scarsamente invece, poiché l'idea dominante è che la statua non possa essere venuta dall'Egitto e quindi la storia sia una “devota fantasia”, l'attenzione è stata rivolta proprio ad una possibile origine “moresca”. Nella lingua araba, esiste infatti il termine “izmer” o “zmer/zemer”, dalla radice “zmr” che, variando le vocali inserite (secondo la costruzione lessicale semitica), assume molteplici significati tra cui “cuore”, “avere a cuore” cioè “amare” e “fare musica/cantare”.
Nella forma in cui si presenta potrebbe assumere un valore ”passivo”, quindi potrebbe essere tradotto come “colei che sta a cuore a”, “l'amata da”. E questo è precisamente l'equivalente dell'antico titolo egiziano “mer-i-amon”, “amata da Amon” (e anche “nel cuore di Amon”), con cui veniva invocata la dea Iside. Più precisamente il nome completo era Is (is) Meri-a(mon), da cui potrebbe essere stato derivato Isméria/Ismérie.
Curiosamente, poi, il nome Ismérie viene attribuito indifferentemente sia alla “sultana” convertita che alla sacra effige di Nostra signora di Liesse. Essa stessa è Ismérie. Il motivo di questa confusione, solo apparente, è nella particolare spiegazione, assolutamente non gradita a Santa Romana Chiesa, che anticamente i fedeli di Liesse davano della venerata statua. In essa non vedevano un Madonna con Bambino, bensì - ce lo ricordano i primi “storici” che scrissero dei fatti di Liesse - la principessa egiziana Ismérie assisa in trono che “presenta” la Vergine. Quest'ultima dunque sarebbe stata rappresentata come una giovane Maria, Maria Bambina o Maria Nascente.
Così l'immagine ricorda molto la scultura antica egizia, non nelle forme ma nell'impostazione, con la divinità di grandi proporzioni, ai cui piedi o presso le cui ginocchia sta il faraone, di proporzioni nettamente più ridotte, che è anch'egli una divinità, ma di “rango inferiore”, più “terreno”, non ancora assunto nelle schiere celesti, in divenire.
L'aiuto provvidenziale che la Vergine Nera Ismérie elargisce è la “liberazione dalle costrizioni” (dalle catene): emancipa la principessa dalla non-fede (dalla non-credenza nella Vergine cristiana), attraverso di essa affranca dai ceppi i tre cavalieri e infine riscatta il quartetto dalla permanenza forzata in terra straniera, trasportandoli nel sonno fino a Liesse.
Questa stessa particolarità è propria della dea Iside Egizia in quanto “mer-i-amon”, in un suo particolare aspetto venerato, come altri, nell'immagine di una misteriosa e assai invocata dea dalla testa leonina (il leone è rappresentazione della forza che si sprigiona) che aveva templi da Elefantina ad Athribis. Africana era la sua origine, non tanto per la pelle scura (con cui tutti gli dei egizi venivano raffigurati) quanto perché rappresentata accanto a una gazzella, animale delle savane e tipica preda del leone, ma che il leone “può decidere” di lasciare libera.
Altrettanto “africana” doveva essere Ismérie, spesso indicata come “soudane”, non nel senso di “sultana” ma di “sudanese”: il padre è infatti stato identificato in uno dei califfi/imam egiziani (al-Ḥāfiẓ li-dīn Allāh), non in un sultano (il primo sultano d'Egitto fu Saladino, nominato nel 1175/1176).
La dea egizia era la protettrice delle cataratte, i “salti” o cascate del Nilo, vere e proprie porte attraverso cui l'acqua scura del fiume poteva raggiungere i campi e fertilizzarli. La sua benevolenza era della massima importanza affinché le cateratte rimanessero aperte, altrimenti l'acqua sarebbe rimasta imprigionata negli altipiani africani.
Era colei che “apriva la porta degli eoni”, poiché il giogo dei giochi, la prigione per eccellenza è il tempo, della cui progressione era la divinità. Era dunque il nume del rinnovamento, del tempo eterno e del rinnovamento. Poiché era “nel cuore di Amon” rappresentava il “cuore ideale” del defunto, leggero come la piuma, così da essere immune alla bilancia di Anubis, liberò dall'afflizione del tempo e degno di entrare nell'eternità.
Era venerata con mille nomi - Ahemait, Amam, Ammemet, Ammit, Ammut, Amtent, Aperetiset, Triphis (presso i greci) - e aveva il proprio importante sacrario nel tempio della nascita di Dendera e in tutti gli altri templi legati alla nascita terrena e alla rinascita. Ma aveva un nome particolare, lo stesso con cui veniva designata l' “immagine perfetta” di ogni Dio, come la miracolosa immagine di Liesse.
Il suo nome era Répit.
Ismérie, l'antica di tutti gli antichi è l'immagine (répit) di sé stessa che si rinnova (ringiovanisce, si mostra come bambina) in accordo con i nuovi tempi, liberandosi dal giogo della propria “vecchiaia”. La principessa “sultana” altrettanto, aveva visto sé stessa rinnovata e se ne era fatta veicolo, così come era accaduto a un'altra Maria a Nazareth molto tempo prima.
Liesse è il luogo (in occidente) del nuovo rinnovamento, così come l'antico luogo (in oriente) è l'Egitto (antico). Proprio questa liberazione da una certa “spiritualità antica”, per quanto cristiana, a favore di una spiritualità nuova, ma che nello stesso tempo è più vicina a quella primordiale, è ciò che con buona probabilità, cercavano e sperimentavano i Cavalieri di San Giovanni e i loro fratelli Templari, almeno nelle iniziali intenzioni. Tant'è che a Malta, fin dal 1620 esisteva una chiesa dedicata a Notre-Dame-de-Liesse, in quanto “patrona” dei Giovanniti, che era stata costruita a spese personali del bailo d'Armenia fra' Giacomo Chenn de Bellay. Tra le sue mura si conservano tutt'ora le spoglie di San Generoso, personificazione della tenera prodigalità della Nera Vergine; un dipinto del 1623 del Casarino (allievo di Caravaggio) raffigurante San Mauro che guarisce un fanciullo e un altro dello stesso autore che ritrae San Luigi, annoverato tra i patroni del répit.
A chi portare, dunque un fanciullo morto prima-del-tempo se non a colei che del tempo-che-ritorna è Signora?
[Le foto di questo breve saggio sono tratte da Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse-Notre-Dame, 1862]
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BIBLIOGRAFIA
Bandini, (frà) Mechiorre, Historia di Detta Religione, 1464
Corbet, (abbé) Jules, Histoire dogmatique, liturgique et archéologique du sacrement de baptême, Paris, V. Palmé, 1881
Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Histoire de Notre-Dame-De Liesse, Liesse Notre Dame, Liesse-Notre-Dame. Pottelain-Masson, 1862
Duployé, Aldoin, Notre-Dame-de-Liesse: légende et pélerinage, Laon, Brissard-Binet, 1862
Duployé, (abbé) Émile e Duployé, (abbé) Aldoric, Légende et cantique de Notre-Dame de Liesse, Laon, Ed. Fleury, 1862
Le Clere, Adrien, Des pélerinages de Notre-Dame de Liesse, Paris, Librairie de A. Le Clere et Cie, 1833
Petrie, William Matthew Flinders, Athribis, in Britsh School of Archaeology in Egypt and Egyptian Research Account XIV year 1908, London, Office of School of Archaeology University College, 1908
SaintYves, Pierre, Les résurrections d'enfants morts-nés et les sanctuaires à répit, in Revue d'ethnographie et de sociologie II (1911), Paris, Ernest Leroux, 1911
Villette, Etienne Nicolas, Histoire de Notre-Dame de Liesse, Laon, A. Rennesson, 1708
Villette, Etienne Nicolas, Histoire de l'image miraculeuse de Notre-Dame de Liesse: avec discours préliminaire sur la vérité de cette histoire, & sur l'antiquite de la chapelle de Liesse, Laon, C. Courtois, 1743
Nostra Signora Delle Vite
Notre Dame De Vie a Mougins, tra le alture alle spalle di Cannes, è uno di quei casi per cui non c'é traccia certa di quali e quanti prodigi del répit si siano verificati. Eppure, la dedicazione del santuario è una conseguenza nota di quel particolare rito che qui si svolgeva. Si sa infatti con precisione che, in precedenza, la cappella nota dal 1514 come “Santa Maria” aveva il nome di “Notre Dame de Ville Vielle” (Nostra Signora del vecchio paese) e che esso fu poi modificato in seguito ai fatti prodigiosi della “doppia morte”.
La “moderna” dedicazione “Notre Dame de Vie” (Nostra Signora di Vita), del resto, ben si addice al luogo e al suo ente: “protegge” e custodisce la vita, al punto da salvaguardarla, nei casi estremi del “rito della piuma”, perfino dalla morte. Nella lingua francese, però, “de vie” ha doppia traduzione: “della vita” oppure “delle vite”. È un'ambiguità che non può passare inosservata. Si potrebbe giustificare con l'idea che il “ritorno in vita effimero” dei bambini nati-morti fosse una sorta di “seconda vita”, anche se solo per il tempo di un singolo respiro. Ma la particolare condizione di questi infanti era quella del “nato (già) morto”, morto prima di nascere e quindi “mai nato”, per cui il répit era, di fatto, l'unica occasione di vita. Il termine che designa il “prodigio”, inoltre, è letteralmente traducibile come “sospensione”, con evidente riferimento non alla condizione stessa bensì alla morte. La “doppia morte” (non si parla mai di “doppia nascita”!) era dunque intesa come un temporaneo differimento, una “tregua”, un arresto dello stato di decesso insomma, che veniva poi “ripreso” definitivamente. Per identici motivi il riferimento a molteplici vite non può essere ricondotto neppure a vite diverse intese come quella “terrena” ed effimera provocata dal répit e quella successiva “nello spirito” guadagnata con il conseguente Battesimo.
In considerazione delle origini chiaramente “pagane” e pre-cristiane di questa forma rituale, invece, l'ambigua intitolazione potrebbe essere un rimando ad una concezione ciclica dell'esistenza: “le vite” sarebbero così quella mai iniziata, quelle eventualmente precedenti e quelle future che attendono il bambino. In tal senso, il répit in quanto sospensione, potrebbe non indicare la “soluzione” ma il “problema”. L'arresto sarebbe insomma l'evento che impedisce all'essenza spirituale (“anima”) del bambino di fluire da una vita all'altra. La pratica della doppia morte permetterebbe dunque di risolvere l'infausto ostacolo alla rinascita in una vita futura.
Notre Dame De Vie è certamente un luogo per natura coerente con tale visione, come confermano i ritrovamenti di cippi, lastre tombali gallo-romane e di elementi di reimpiego di un luogo /forse un tempio) precedente, usati per costruire la primitiva cappella (corsi inferiori delle porzioni di muro ritrovate e del campanile) sul colle e sotto la chiesa stessa, a testimonianza della sua lunghissima tradizione spirituale legata alla morte e alla rinascita.
La prima menzione del nuovo nome “popolare” del santuario risale a un documento del 17 Agosto 1656 in cui viene per altro messo in relazione proprio con la pratica dell' “ondoìement”.
Non è noto quanti “infanti” siano stati presentati” al santuario, né quanti di essi abbiano mostrato segni di vita e quindi beneficiato del répit. I lavori di ampliamento della cappella iniziati nel 1655 e che si concludono nello stesso anno e che trasformano la cappella in vera e propria chiesa con un ampio protiro frontale, suggeriscono però un rinnovato interesse per il colle.
Il 05 Maggio del 1669, con l'aggiunta della navata minore settentrionale e del nuovo altare maggiore, monsignor Louis De Bernage si reca nuovamente in visita e annota negli atti alcuni dettagli importanti e che testimoniano la frequentazione assidua del luogo: “...nous sommes acheminés à l'église de Nostre Dame de Ville Vielle vulgairement appellée Nostre Dame de Vie... prés la porte de l'église il y a un couvert, et prés de couvert des tombes où l'on enterre les enfants sans bapteme” (siamo stati condotti alla chiesa di i Nostra Signora dell'Abitato Vecchio, popolarmente detta Nostra Signora delle Vite... vicino alla porta della chiesa c'é una struttura coperta, e accanto alla struttura coperta le tombe dove vengono sepolti i bambini [morti] senza battesimo).
La cappella è dunque diventata “chiesa” e dispone al suo esterno addirittura di una sorta di cimitero per i bambini nati-morti (quelli che non mostravano segni di vita dopo essere stati portati davanti alla Vergine), evidentemente simile a quello di un altro celebre santuario in piena attività all'epoca, quello di Notre Dame de Beauvoir a Moustiers-Sainte-Marie, a un centinaio di chilometri di distanza. La collocazione del cimitero è nota e conosciuta ancora oggi, poiché le sue dimensioni continuarono a crescere fino alla proibizione del rito.
È interessante la menzione, da parte del vescovo di una qualche struttura coperta, diversa dal portico frontale, di cui non specifica l'utilizzo, ma che asserisce si trovasse presso le “tombe degli infanti”. Non è più esistente né si conoscono altre testimonianze, ma la sua collocazione fa pensare che si trattasse di una “recevresse” come quella di Avioth, in Belgio, presso cui venivano, appunto, accolti i cadaveri dei bambini nati-morti in attesa del répit.
Qualcuno asserisce che si trovasse presso la porta di ingresso sulla facciata della chiesa, ma una seconda porta esisteva lungo la parete nord. Le due porte sono già menzionate da monsignor Sdcipion De Villeneuve negli Atti di Visita del 15 Maggio 1634. Pertanto è possibile che la copertura in questione fosse una tettoia bassa all'esterno dell'abside o di fianco ad essa, in modo che gli infanti potessero essere deposti per la preghiera il più vicino possibile alla Vergine, rimanendo tuttavia fuori dalla chiesa.
Non va infatti dimenticato che, dagli albori del Cristianesimo e fino a non molto tempo fa, solo i battezzati erano generalmente ammessi all'interno delle chiese. Questo è uno dei motivi per cui i battisteri erano per lo più edifici separati oppure il fonte battesimale veniva posto di fianco all'ingresso.
Nel caso del répit, tale regola veniva puntualmente aggirata. Tant'è che spesso, negli atti con cui le curie giungevano a vietare la pratica, minacciando addirittura la scomunica, si specificava che era proibito non solo svolgere il rito ma anche di portare i bambini nati morti presso e dentro i santuari dove si credeva che il répit potesse avvenire.
Il 1669 è anche l'anno in cui viene “rivelato” il nome della preziosa reliquia custodita, almeno dal 1688 quando viene per la prima volta menzionata, a Nostra Signora delle Vite. Sono alcuni membri della comunità a fornire l'occasione, quando organizzano la prima “processione” della reliquia dal santuario alla parrocchiale del villaggio, che si trova sul colle accanto.
Così, Nostra Signora di Mougins torna al suo ruolo arcaico di “cappella pellegrina”, alla quale si recavano da secoli in solenne processione penitenziale i Penitenti Bianchi e i Confratelli di San Michele di Grasse, nell'occasione di pestilenze (come nel 1629) e di altri gravi pericoli per la città, circostanza più volte immortalata negli ex-voto. In occasione della traslazione temporanea della reliquia, dunque, ne viene svelata l'identità. Le sante ossa apparterrebbero a una certa “Innocenza”. Si ritiene che possa essere la martire sedicenne riminese uccisa nel 380 d.C. da Diocleziano di passaggio in quella città. Ma è quantomeno curioso che un nome così facilmente riconducibile all'innocenza perduta dei bambini nati-morti, che il répit prometteva di restituire loro, compaia proprio nel momento in cui la frequentazione del santuario, con la speranza di tale grazia, è all'apice.
Di chi possano essere in tal caso i frammenti ossei ancora oggi visibili nel reliquiario è un mistero. Potrebbero forse appartenere al primo nato-morto tornato in vita attraverso il répit a Mougins? Del resto l'unica altra reliquia che il santuario custodisce (dal 1788) è un frammento del braccio di Sant'Onorato di Lérins (Nostra Signora delle Vite era un possedimento della potente abbazia...), i cui resti, traslati a Ganagobie, erano diventati la personificazione del répit con il nome di San Trapasso. Perfino tra i dedicatari degli altari interni del santuario, insieme a Sant'Anna (madre della Vergine), Maria Maddalena e San Giuseppe (aggiunto tardivamente) compare Saint Claude, noto per essere uno dei più venerati intercessori del répit!
Saint Claude e Saint Louis (anch'egli intercessore per la “doppia morte”) sono addirittura ritratti mentre reggono la corona sul capo della Vergine nell'ancora dell'altare maggiore. L'ancona risale al 1669 ed è minuziosamente descritta negli atti di visita vescovili di quell'anno.
E come se non bastasse, è eloquente anche la data scelta per la ricorrenza di Notre Dame De Vie. Come si legge nel Calendrier Historique des Fétes de la Sainte Vierge, redatto dall'abate Orsini, il 27 Gennaio è “celle de Notre-Dame-de-la-Vie à Venasque en Provence qui a soyent rendu la vie aux enfants morts avant le bapteme, afin qu'ils reçussent le sacrement” (quello di Notre-Dame-de-la-Vie a Venasque in Provenza che ha sovente restituito la vita agli infanti morti senza battesimo, affinché questi ricevessero il sacramento). Il 27 Gennaio è il giorno precedente quello dedicato a San Tommaso d'Aquino, che fu forse il primo santo intercessore noto proprio del répit.
Il 1674 segna la separazione definitiva fra rettori della parrocchia di Mougins e quelli del santuario, che si insediano nell'eremo appena costruito sul lato settentrionale della chiesa. La copertura, il cimitero dei bambini e l'altare esterno esistono ancora e sono molto frequentati. Negli anni successivi, infatti, la fiorente casistica di bambini nati-morti tornati brevemente alla vita, attira su Mougins l'attenzione ecclesiastica e le conseguenti reprimende. Nel 1678 il nuovo vescovo di Grasse Louis-Aube de Roquemartine, infatti, fa recapitare l'ordine di distruggere “l'altare fuori dalla cappella”. L'ingiunzione, che non fornisce ulteriori dettagli, conferma però che “qualcosa” si svolgesse all'esterno del santuario, specificando che esisteva addirittura un altare. Forse serviva per le celebrazioni cui accorreva troppa gente per la capacità dell'edificio. Non si può però escludere che, invece, l'altare si trovasse sotto la struttura menzionata dal precedente vescovo, allo scopo di “esporre” i fanciulli in attesa del répit.
Quasi certamente l'ordine viene ignorato e trasgredito. Il rettore, fratello Jacques, eremita del santuario e un certo Estève Martin, carpentiere, di origini genovesi nel 1709 vengono sepolti all'interno della chiesa. Lo stesso onore verrà concesso a partire dal 1714 infatti a tre bambini dell'età di 7, 8, e 3 anni, tutti rampolli della famiglia Flour, una delle più in vista del paese e tra i “benefattori” del santuario”.
Negli stessi anni, intanto, prodigi del répit cominciano a verificarsi in altri santuari e chiese dell'oriente provenzale: presso le reliquie di Santa Roselina a Les Arcs, ai piedi della statua di Notre-Dame-de-la-Roquette (detta anche Notre-Dame-du-Spasme o Notre-Dame-des-Œufs) a Le Muy alla Chapelle Notre-Dame-des-Anges di Lurs. Un caso si verifica perfino all'interno della chiesa parrocchiale di Tourettes Sur Loup, appena fuori Grasse, di cui esiste testimonianza scritta: “Gasparde Agarde, femme de Germain s'etant accouché d'un enfant mort, et l'ayant recommandé au glorieux st Fauste, et porté dans l'éeglise et mis devant la ste relique, il a donné beaucoup de signes de vie, ce qu'ayant veu moy mesme, l'ay baptisé en présence du sir Giraud, mon curé, de Lucresse de Grimaldy, dame du Caire et de la sage femme. Signé Decormi, vicaire” (Gasparde Agarde, moglie di Germaine ha fatto venire alla luce un bambino morto e l'ha affidato al glorioso Saint Fauste, e portato nella chiesa e deposto davanti alla santa reliquia, ha mostrato molti segni di vita, tali che, dopo averli visti io medesimo, l'ho battezzato in presenza di Sir Giraud, il mio curato, di Lucrezia di Grimaldy signora di Caire e della levatrice. Firmato Decormi, vicario).
Una nuova ingiunzione, tremenda e definitiva viene inclusa negli Atti di Visita del 1730 (manoscritto G57, Archivio Dipartimentale delle Alpi Marittime) dal nuovo vescovo Charles Léonce D'Anthelmy che immediatamente recipisce il divieto promulgato l'anno precedente dalla Santa Sede. Ironia della sorte, il prelato ha per cognome un altro noto intercessore del répit, Sant'Antelmo.
Le sue dure parole sortiscono l'effetto desiderato e il santuario comincia il suo inesorabile declino: “Sur l'avis qui nous a été donné qu'on portait de differents endroits du diocèse et d'ailleurs les corps des enfants morts qui n'avaient pas reçu le baptéme dans la chapelle Notre Dame dans la confiance qui pourraient recouvrer la vie et recevoir, à l'occasion del quelque signe équivoque qu'ils donnèraient, le sacrement de bapteme, nous déclarons qu'encore que l'on ne piosse pas avoir trop de confiance en la puissante intercession de la Sainte Vierge auprès de Dieu nous ne saurions autorizer un tel usage qui nous parait plutot un abus que le fruit d'un culte religieux et réglé envers la Mère de Dieu. Nous défendons en conséquence au prétre qui dessert cette chapelle et de célébrer en présence la sainte Messe ordonnant que la masure qui est hors du portique ou halle et où les enfants morts sans bapteme étaient mis ici devant sera abattue et rasée, permettant néanmoins aux marguilliers de ladite chapelle d'assigner une place gors d'i celle pour y mettre les corps des enfants morts sans bapteme qui sera fermée à clef et la clef gradée par le pretre de la chapelle auquel nous défendons expressément de l'ouvrir pour y mettre corps de petit enfant étranger sans étre assuré par un billet du curé du lieu du nom du père ou de la mère à qui l'enfant appartient, dont il tiendra lui-meme mémoire et nous en donnera avis pour prévenir toute sort d'abus et pourvoir aux inconvénients” (Su segnalazione che ci è stata data secondo la quale vengono qui portati da diversi luoghi della diocesi e da altri i corpi dei bambini morti che non hanno ricevuto battesimo nella cappella di Notre Dame nella convinzione che possano recuperare la vita e ricevere, all'occasione del manifestarsi di qualche segno equivoco, il sacramento del battesimo, noi dichiariamo che non abbiamo troppa fiducia in tale potente intercessione della Vergine Maria presso Dio, né possiamo autorizzare una tale pratica che ci sembra un abuso più che il frutto il frutto di un culto religioso e regolato alla Madre di Dio. Diffidiamo di conseguenza il prete che serve la cappella e di celebrare al presente la Santa Messa, ordinando che la mensa che si trova fuori dal portico coperto e presso la quale i bambini morti senza battesimo vengono deposti, sia abbattuta e spianata, né permettiamo ai consiglieri di detta cappella di affittare il posto fuori da essa per mettere i corpi dei bambini morti senza battesimo, che sarà chiuso a chiave e la chiave custodita dal sacerdote della cappella, al quale noi vietiamo espressamente di aprirla per mettere il corpo di bambino estraneo senza essere assicurato con una nota del parroco del luogo del nome del padre o della madre a cui il bambino appartiene, di cui egli stesso terrà documentazione e ci darà comunicazione per evitare qualsiasi tipo di abuso e prevenire inconvenienti).
Tra il 1761 e il 1764 anche l'usanza dei pellegrinaggi a Nostra Signora delle Vite, si conclude e il santuario declina. Ma il répit, probabilmente, viene ancora praticato. Un solo ex-voto presente fra le sue mura e che risale forse al XVII secolo, è stato riconosciuto chiaramente come ringraziamento per un répit avvenuto. Ritrae una madre e un figlio in fasce, uno accanto all'altra, che sporgono dalle lenzuola in un grande letto. Il padre in atteggiamento di preghiera è ai piedi. Su tutto domina la Vergine.
Ma ci sono almeno altri due quadretti che mostrano elementi inequivocabilmente riconducibili alla “doppia morte”. In uno, racchiuso da una cornice tonda, ci sono una madre e una bambino in fasce in primo piano vicino a una culla, un angelo con qualcosa che parrebbe una piuma alle loro spalle e in alto, nel terzo e più profondo piano compositivo, la Vergine.
L'altro, in certo modo inquietante, mostra invece un bambino in fasce deposto in una culla avvolta dalle fiamme. Non è difficile riconoscere nelle lingue di fuoco quelle dell'inferno, quindi della condanna al limbo (che anche Dante aveva collocato negli inferi), evidentemente scongiurata.
I due ex-voto sono chiaramente “tardi” e il secondo riporta una data precisa, il 1852 che mostra come, più di un secolo dopo l'interdizione del rito, il répit ancora si svolgesse a Notre Dame De Vie, probabilmente in clandestinità.
La riscoperta del santuario avvenne soltanto negli anni '30, quando la famiglia Guinness (i celebri produttori irlandesi di birra), proprietaria dei terreni circostanti il complesso (tra cui anche l'area dove si trovava il cimitero e il giardino dietro l'abside), decise di rendere nuovamente fruibile la collina. In seguito al decesso della moglie di Benjamin Seymour Guinness nel 1931 e alla volontà di tumularla in una nuova tomba costruita accanto al santuario, i corpicini dei nati morti furono tutti esumati e raccolti nell'ossario interrato sul lato nord. Su di esso fu posta una lastra che recita: “ici reposent des petits innocents morts dés leur naissance”, letteralmente “qui riposano i piccoli innocenti morti nella loro nascita”.
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BIBLIOGRAFIA
Aa. Vv., Autur de notre-Dame de Vie – Actes de la journée d'études du 26 novembre 2011, Société Scientifique et Littéraire de Cannes, Cannes, 2013
Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène, Tourrettes sur Loup au XVIII siécle. Héresie et scandale au village, Editions Serre, Nice, 2009
Gélis , Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006
Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
I segni del ritorno in vita “per il tempo di un respiro”
Gli archivi parrocchiali di Moustier-Sainte-Marie, dove si trova uno dei più prolifici “santuari a répit” conosciuti, custodiscono una documentazione preziosa, vasta e unica nel suo genere circa gli eventi prodigiosi accaduti tra il 1666 e il 1673.
In quegli anni furono attentamente censiti 336 casi di “ritorno effimero in vita” di infanti nati-morti, per intercessione di Notre Dame de Beauvoir. Portati cadaveri al luogo sacro, anche da molto lontano, a volte disseppelliti dopo essere già stati sepolti, mostravano inequivocabili segni e segnali della ritrovata vita “per il tempo di un solo respiro” e potevano perciò essere battezzati, sfuggendo così alla “sospensione” nel Limbo.
Nel periodo in cui i prodigi si verificarono, sotto la giuda del curato Felix ogni caso fu minuziosamente valutato di persona da medici, avvocati, notai e personalità di alto livello e credibilità e fu poi catalogato in ogni suo aspetto e manifestazione. Il risultato costituisce una testimonianza eccezionale di ciò che davvero accadde.
Ex-Voto per avvenuto répit, per azione di un angelo che regge la piuma, dietro intercessione della Vergine
Quelle che seguono sono le “manifestazioni di vitalità” che furono registrate nel 1669.
Per quanto possano sembrare a tratti curiose e pittoresche oppure macabre e fastidiose, queste descrizioni sono in verità espressioni di gioia, meraviglia e inquietudine profonda di fronte quel mistero inconcepibile che è la vita.
Cambiamenti di colore:
-Ha cambiato il colorito rossastro in uno bianco, vivace e naturale.
-Ha cambiato il colorito pallido tre o quattro volte in uno vivido e meraviglioso.
Sudorazioni:
-Ha essudato dal lato destro. [del corpo]
-Ha essudato davanti allo stomaco.
-Ha sudato goccia a goccia su tutto il viso.
-Ha sudato da tutta la testa, gocce che erano grandi come perle, che sono rotolate fino ai panni. [i tessuti su cui il corpicino era disteso]
-Osservando il braccio sinistro [si è vista] una goccia d'acqua grande quanto un pisello di Verdun.
Lacrimazioni:
-Ha prodotto una lacrima da ciascun occhio.
-Ha aperto l'occhio destro, ha lacrimato dal sinistro.
Salivazione:
-Ha emesso della saliva dalla bocca che era stata molto secca in precedenza.
-Ha aperto la bocca umettata di saliva che è colata sul mento.
-Ha emesso saliva da entrambi i lati della bocca.
Sangue:
-L'ombelico ha versato copiosamente sangue bello e altrettanto la narice sinistra che ha colato fin sullo stomaco.
-Ha emesso una lacrima di sangue dall'occhio destro.
-Ha emesso due o tre gocce di sangue bello e vermiglio dalla coscia destra, senza che ci fosse in precedenza alcuna ferita.
-Ha fatto una goccia di sangue grossa come un grano del Rosario dietro l'orecchio, senza che ci fosse in precedenza alcuna ferita.
Bocca:
-Ha chiuso la bocca che in precedenza era aperta.
-Ha disteso la lingua sulle labbra umide di saliva forte e fresca.
-Ha mosso visibilmente [contratto, rimescolato] quattro o cinque volte la lingua.
Movimenti:
-Ha scosso [ruotato] la testa da un lato all'altro visibilmente.
-Ha scosso visibilmente il braccio destro.
-Ha disteso un dito della mani destra che era contratto.
-Ha disteso il pollice e l'indice della mano destra.
-Ha piegato le dita del piede destro che erano distese.
-Ha separato i due talloni che erano attaccati.
Effusioni:
-Ha prodotto deiezioni in abbondanza.
-Ha Urinato e prodotto deiezioni.
Gonfiore:
-Ha gonfiato il piccolo ventre.
-Ha gonfiato il suo corpo e particolarmente l'ombelico che era secco e arido in precedenza.
-Ha riempito le guance che erano svuotate in precedenza... e ha gonfiato tutto il corpo.
-Ha gonfiato il suo viso che in precedenza era scarno.
Palpitazioni:
-Ha pulsato tre o quattro volte sensibilmente al cervello.
-Ha pulsato sensibilmente al cervello e al fianco destro.
Gli studiosi da sempre si sono confrontati sulla realtà o meno degli accadimenti descritti nei répit. Spesso le manifestazioni di vita sono state intese come mere “illusioni”, fenomeni di “isteria collettiva”, di “credulità popolare” o più semplicemente come conseguenze casuali della particolare atmosfera che si creava intorno ai bambini durante la pratica rituale.
Le accurate testimonianze di Moustier-Sainte-Marie lasciano invece trasparire una possibile verità ben diversa. Sorprendentemente, infatti, tutti i "segni" descritti (sudorazioni ed effusioni, gonfiori, sanguinamenti localizzati, lacrimazioni e ripresa di colore) sono riconducibili con caratteristica precisione, secondo i principi di medicina dell'antica Cina, all'attività, armonica o meno, di uno dei dodici “meridiani” principali lungo i quali il Qi (l'energia vitale) fluisce nel corpo umano.
I segni descritti sono facilmente riconducibili a indicatori “visibili” della ripresa di una qualche funzionalità, almeno provvisoria e momentanea, del meridiano “Triplice riscaldatore” (il fuoco che anima il corpo). Difficile che il flebile calore delle candele, l'alito dei presenti e il clima di raccoglimento possano aver scatenato il manifestarsi di tali “segnali” nella notevolissima quantità e varietà di casi venuti alla luce in Italia, Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, Belgio, Spagna.
Qualunque fosse la causa, ciò che accadeva era forse più “umano” e terreno di quanto si credesse, ma non era, probabilmente, frutto soltanto della “fantasia” dei presenti.
Primo Convegno Culturale SOGIT Verbania
La roccia, i cavalieri, il répit
L'ARGENTIÈRE: UNA COMMENDA GIOVANNITA TRA I VALDESI E LA DOPPIA-MORTE
Alla confluenza delle valli della Durance, della Vallouise e del torrente Fornel, nell'alta Provenza alpina, esiste, almeno dall'anno mille, una ricca miniera di piombo argentifero (oggi dismessa).
Quando nel XII secolo era stata data in concessione al Delfinato, a protezione della stessa, che si apriva nelle pareti scoscese della gola del Fornel, era stato innalzato, all'imbocco della vallata, un poderoso castello, dal quale sorvegliare il “tesoro” della montagna e insieme presidiare il prezioso punto strategico sulla diramazione della via Francigena detta Via Alta. La strada, dalla Pianura Padana, attraverso il Monginevro raggiungeva Aix e Marsiglia, sul tracciato dell'antica via romana Domizia, chiamata Cottia per Alpem in questo tratto. Da qui era passato anche Annibale.
Ma L'Argentière nascondeva di certo anche altri motivi di interesse, meno noti. Tant'è che, fin dal 1183, avevano trovato rifugio, nel villaggio e nei dintorni, i valdesi, dopo la scomunica pronunciata nei loro confronti durante il Concilio di Verona (1184). Inoltre, ai piedi della fortificazione, vicino al punto in cui il tumultuoso Fornel si gettava nella Durance, c'era un luogo sacro molto antico che ancora resisteva, con le sue tradizioni, alla Sacra Religione. Non era che una grande pietra di origine glaciale, con la sommità piuttosto piatta, presso la quale, presumibilmente si celebravano quei culti di vita e di vitalità che oggi riduciamo offensivamente all'idea dei “massi della fertilità”.
In epoca imprecisata, sulla roccia era stato eretto un edificio cristiano, forse una semplice cappella votiva o un piccolo oratorio. Sei gradini intagliati nella pietra viva, consentivano da tempo immemore di salire fino alla sommità dello sperone, sul lato orientale. Si ritiene che questa curiosa caratteristica sia all'origine del nome dato al luogo, “Gradis Caroli”, “i gradini di Carlo”, forse un riferimento simbolico al “primo imperatore” Carlo Magno e allo scranno della sua incoronazione in San Pietro, oppure (più difficilmente) a Carlo I conte di Fiandra, noto per la sua premura e generosità nei confronti dei bisognosi. Più probabilmente, però, “Carolo” potrebbe essere la corruzione latino-cristiana del nome dell'antico nume tutelare locale “Carrus”, la divinizzazione della “montagna”, che i Romani riconducevano a uno dei numerosi aspetti del dio Marte. Più precisamente, Carrus era il fuoco marziale” del sole, il fuoco della creazione stessa, “coagulato” nella roccia delle montagne.
Intorno al 1208 i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni al comando di Guillaume de Faudon, insediati proprio presso quella roccia, fecero innalzare sul luogo da mastri costruttori italiani (Magistri Comacines) un nuovo edificio sacro (16,40 m di lunghezza per 7,70 di larghezza), in un austero stile romanico e un ospitale. La piccola commenda, fuori dalle mura fortificate e di difficile difesa, prese il nome di “preceptoria Saneti Johannis de Gradibus Caroli”.
La chiesa, in pietra brunita, si eleva dalla viva roccia, sul bordo orientale. È orientata verso il sorgere visibile del sole equinoziale a Est ed è dotata di un piccolo campanile a vela posto centralmente sopra l'abside. Le sei mensole scolpite, che reggono gli archi accoppiati di ciascuna ripartizione absidale, ripetono per ciascun arco la testa di un toro, ma con un diverso elemento di contrappunto: un drago cornuto, un viso umano con estremità appuntite simili a corna, una terza “testina” cilindrica ormai consunta che potrebbe di nuovo essere un toro.
La simbologia complessiva, con i riferimenti al Sole “marziale” (testa umana dotata di corna), alla Luna (drago) e ad un terzo astro, Venere (in astrologia pianeta “maestro” della costellazione del Toro e tramite fra la Luna e il Sole) e la ripetizione delle “corna” quale costante di tutto l'insieme, è un potente richiamo al sacrificio di ogni parte di sé quale atto necessario alla “rinascita spirituale” a nuova vita. I segni lasciati dai costruttori sono così, verosimilmente, una rinnovata codificazione del valore spirituale della roccia in cui furono intagliati i gradini.
Chi ancora oggi si sofferma presso questo luogo non può, infatti, non notare la croce incisa profondamente nei mattoni bruni alla base esterna dell'abside, non esattamente in asse con il centro dell'emiciclo, ma proprio in corrispondenza con la scala scolpita. La particolare posizione fu scelta, con tutta probabilità per indicare il corrispondente punto della roccia sottostante, ma fu ovviamente realizzata dopo la costruzione della chiesa ed è contornata da altre due croci, più piccole e meno visibili, realizzate successivamente.
L'inevitabile conclusione è che la tradizione originaria e più antica del luogo si sia dunque mantenuta anche dopo l'arrivo dei Cavalieri giovanniti. L'ordine ospitaliero, non entrando in dispute teologiche e spirituali, ma prendendosi semplicemente cura dei viandanti e dei bisognosi e rispettandone le convinzioni, senza distinzioni religiose, razziali o politiche, mantenne in tal modo viva, la pratica rituale esistente.
La natura di tale usanza è riemersa inaspettatamente grazie ai recenti scavi archeologici (1999-2005). Sono state rinvenute tutt'intorno all'edificio, sepolture riconducibili ad almeno tre diverse fasi di utilizzo. Un gruppo di fosse rupestri sul lato sud dello sperone roccioso, vicino alla chiesa, ha restituito resti umani di sesso maschile, che potrebbero essere quelli dei Giovanniti responsabili della commenda.
La maggior parte delle fosse, invece, scavate nella roccia in forma di “loggette” antropomorfe e appartenenti a maschi e femmine di diverse età, è databile almeno al XI secolo. Tra queste le sepolture più stupefacenti sono quelle rinvenute in una zona più appartata, lungo il bordo tra sud e est, contenenti le membra (di incerta datazione) di almeno tre bambini prematuri, nati-morti (per lo più tra l'ottavo mese e il parto), inumati nella nuda terra. I corpi sono stati ritrovati proprio ai piedi della “scala” intagliata” nella roccia. Tali sepolture sono il segno inequivocabile di una tradizione ancestrale di “affidamento” degli sfortunati infanti alla “roccia sacra” che è riconducibile al fenomeno millenario del répit.
Saint Jean di L'Argentière, dunque, non solo si trovava su una trafficata via di pellegrinaggio, ma era evidentemente esso stesso un santuario, molto antico, al quale si ricorreva per ottenere il “ritorno effimero in vita” dei bambini “morti durante la nascita”, per il tempo di un solo respiro.
I minuscoli cadaveri, dopo il lungo viaggio, venivano portati a braccia su per i gradini dalle madri che li salivano uno alla volta “ondeggiando” a destra e sinistra. La scala è infatti realizzata con superfici e pendenze che impongono, appunto, di spostarsi secondo una certa cadenza, così come accade quando ci si trova sul ponte di una barca scossa dalle onde. Giunti all'ultimo gradino venivano deposti sulla sommità della roccia nuda (più tardi proprio sotto la croce) affinché Carrus/Marte-Sole, “maestro” dell'Ariete, il segno della rinascita all'inizio della Primavera, concedesse quell'ultimo sospiro.
Non a caso il “battesimo sub condicione”, che era lo scopo finale del répit nella sua forma cristianizzata, era chiamato anche “ondoiemént”, ondeggiamento, proprio per ricordare la somiglianza simbolica dello stato “sospeso” del nato-morto (il limbo) che non può trovare pace, con il “mare in tempesta” per il quale unico sollievo è il “porto sicuro” del Battesimo (ben rappresentato dalla dedicazione del luogo a San Giovanni Battista).
Determinante era poi il “sacrificio necessario” (quello del toro, ripetuto in ben tre delle sei mensole d'arco absidali) rappresentato dal pellegrinaggio stesso, lo sforzo consapevole senza il quale il prodigio non si sarebbe potuto compiere.
La prosecuzione dell'usanza rituale, conservata e mantenuta anche dai Cavalieri di San Giovanni, nonostante la forte avversione della Chiesa, è testimoniata da almeno altre 25 sepolture di fanciulli di età variabile (non solo prematuri) più discoste dalla roccia e databili al XVI secolo grazie anche al rinvenimento, in una di esse, di due monete effigiate con il duca Carlo II di Savoia) e di alcune ceramiche dipinte.
Non sono noti documenti comprovanti la pratica del répit a L'Argentiére. L'unico accenno potrebbe essere quello contenuto negli atti del processo a Chaterine Charbonelle, originaria di Val des Prés, condannata per stregoneria nel 1445, in cui la stessa “strega” testimonia di aver incontrato il diavolo mentre si recava in pellegrinaggio a San Giovanni di L'Argentiere insieme ai suoi bambini.
Le parole dell'imputata contengono almeno due elementi interessanti. La donna afferma di essersi recata a L'Argentière “in pellegrinaggio”, quindi con l'intento di ottenere presso la chiesa di Saint Jean una qualche grazia. Specifica inoltre, senza alcuna necessità, di averlo compiuto “insieme ai suoi bambini”. Potrebbero essere sibilline indicazioni del fatto di aver preso parte al répit? I bambini citati erano realmente i suoi figli, oppure si riferiva ad alcuni “nati-morti” di cui si era presa cura in quanto forse era una levatrice (come gran parte delle “streghe” perseguite dagli inquisitori)?
L'elemento più sorprendente, poi, è l'incontro che avrebbe avuto, presso il santuario, con il diavolo in persona! Era davvero il demone degli inferi quello con cui si era intrattenuta o un qualche altro ente ritenuto “diabolico” da Santa Romana Chiesa? In effetti, come detto, la testina umana cornuta posta come mensola d'arco all'esterno dell'abside maggiore di San Giovanni, potrebbe davvero essere descritta come un'immagine diabolica. Ciò si rivelerebbe, per altro, assai coerente con la partecipazione al “pellegrinaggio del répit” e alla presenza di certi bambini. Del resto, il “dio delle streghe”, identificato proprio con Satana, era un dio cornuto, il misterioso Cernunno.
Non esistono allo stato attuale elementi sicuri per confermare o meno tale ipotesi. La precettoria di San Giovanni De Gradibus Caroli rappresenta comunque un caso unico nel suo genere, quello di un santuario ancestrale sostituito da un primo edificio cristiano e successivamente dalla chiesa ospitaliera, presso il quale continuò a perpetuarsi lo stesso rituale e di cui la roccia continuò a essere l'intercessore.
La sua importanza spiega di certo anche la presenza a L'Argentière di ben due ospitali, quello giovannita già citato e quello indicato in alcune fonti come “Saint-Sépulcre-de-la-Pierre-Sainte”, esistente fin dal 1264, quando ne era precettore Pierre de la Blache, passato poi in gestione alle monache di Boscodon con il nome di “Hôpital Sainte-Marie de Boscodon de la Pierre Sainte”.
La “Pietra Santa” indicata nell'intitolazione è, di nuovo, la roccia su cui sorge la Chiesa di Saint Jean e ha fatto ipotizzare, in un primo momento, che l'ospitale delle monache fosse quello giovannita anziché una struttura distinta, ipotesi che oggi è stata abbandonata.
Le due istituzioni, ben distinte, erano probabilmente necessarie per gestire non solo l'afflusso dei viandanti di passaggio ma anche e soprattutto quello dei pellegrini in visita al santuario. Ancora nel 1501 il notaio di Gap François Farel constatava in forma scritta, essendosi recato a L'Argentière per seguire certi affari della commenda, che erano almeno duemila le persone provenienti dalle vallate vicine a portare candele accese nella chiesa ospitaliera, in onore di San Giovanni, nei giorni della sua ricorrenza.
Meno di cinquanta anni più tardi, però, soltanto uno dei diciotto “testamenti di Cervières”, contenenti una richiesta di pellegrinaggio, quello di Jean De Borrel, datato 17 Aprile 1523, menziona la cappella di Saint Jean a L'Argentière: la fama del luogo si è spenta.
Intorno al 1380-90, a poche decine di chilometri, sono giunte al Priorato di Ganagobie le preziose reliquie di Sant'Onorato, qui traslate da Lerìns per preservarle dagli invasori Saraceni. Sistemate sul ballatoio sospeso sopra il portale d'ingresso della chiesa abbaziale e protette da un enigmatico “transitus” (scultura cadaverica sul coperchio del sarcofago), hanno cominciato ad attrarre fedeli e curiosi. Tra i prodigi che elargiscono c'é quello di ridare la vita ai bimbi nati-morti per il tempo di un respiro.
Carrus/Marte ha ora il corpo mortale di un santo cristiano e un nuovo luogo riservato alla sua adorazione...
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BIBLIOGRAFIA
P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883
J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière. Paris, Picard, 1883
S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008
G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974
F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015
Il sator di Aosta: Saturno Regna!
Questa mia idea ha un inizio semplice: il centro del "sator circolare" della Collegiata di Sant'Orso ad Aosta non c'é un leone e tantomeno la raffigurazione si riferisce a Sansone.
Senz'altro molte volte rappresentazioni con tali caratteristiche (un personaggio a cavalcioni di una fiera nell'atto di spalancarle le fauci), sono state indicate come "Sansone che smascella il leone". Alcune presentano addirittura un titolo riferito all'eroe biblico (a Modena ad esempio). Per lo più si ipotizza una convergenza di miti pre-cristiani ( Ercole e il leone Nemeo) e biblici (Sansone).
Il dettaglio curioso, però, è che né Sansone né Ercole vengono mai descritti nell'atto di "aprire la bocca" al leone. Il primo lo squarta (quindi gli apre il ventre), il secondo lo percuote e poi lo strangola.
Procedendo di particolare in particolare, a Sant'Orso la "bestia", a ben guardarla, del leone ha solo la corporatura e il muso. Le peculiarità del felino "maschio" (la criniera ad esempio) sono assenti. Potrebbe essere una leonessa, allora, ma sul suo capo sono ben evidenti due lunghe corna e la coda è innaturalmente lunga, sembra più un serpente...
L'animale mitico cui più si avvicina è la chimera, così descritta da Omero nell'Iliade (VI, 223-226): "...Era il mostro di origine divina, lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l'eroe la spense...".
Certo, quella di Sant'Orso non è una figurazione classica: manca la testa caprina e il muso da canide, sostituiti da lineamenti leonini e vistose corna. Ma è altrettanto singolare che sia una "presenza" ricorrente ad Aosta: una sua raffigurazione inequivocabile (con tanto di didascalia) fu infatti inserita anche nella pavimentazione del duomo della città (XIII sec.).
La sua nemesi è Bellerofonte, figlio di Glauco. Pare che l'avesse infilzata con la sua lancia dalla punta di piombo la quale, scaldandosi con il fuoco delle fiamme che erompevano dalle fauci del mostro, si sarebbe sciolta colando nella sua gola fino a soffocarlo. La strana "lama" triangolare su cui la veste dell'eroe, a Sant'Orso, sembra essersi impigliata lo identificherebbe proprio con il nobile di Efira.
La lotta con il mostro è incorniciata da un triplo cerchio. In quello mediano scorrono le lettere del quadrato magico". La croce che separa l'inizio e la fine dell' "acrostico" si trova proprio sopra alla testa dell'eroe. Il palindromo rotas-sator alla destra e alla sinistra della croce, finisce così per identificarsi con il nome proprio del personaggio sottostante.
Sator è Saturno (Saturno da satus, "semenza" e sero, "seme"). Ma anche saturare (saziare). La preziosa informazione, sulla quale non ci si sofferma mai troppo, la regalò al mondo suo malgrado il noto esoterista Samuel Liddel MacGregor Mathers già nell'Ottocento, nella pur scarsa traduzione del quattrocentesco “The Sacred Magic of Abramelin the Mage”, in cui senza indugio identifica l'enigmatico nome con il dio-pianeta.
Ora l'immagine sembra farsi più nitida: è Saturno che "apre la bocca" alla chimera, la "invita" a sputare, a rigurgitare qualcosa. Sulla natura saturnina di Sansone e di Ercole esistono diversi studi...
Astrologicamente Saturno è il maestro del Capricorno, il suo "governatore" e la chimera con le corna caprine e la coda serpentiforme (il serpente che vive nell'acqua?) ricorda molto tale segno zodiacale.
Le membra leonine ne sottolineano la potenza (il tema è perfettamente rappresentato dalla XI carta dei Tarocchi), l'energia che da essa si sprigiona: Saturno è l'unico che può “tenerle aperta la bocca” e quindi gestire tale forza, senza pericolo.
Il sesto pianeta era nell'antichità (prima della "scoperta" dei tre pianeti "moderni") il più esterno del sistema solare. Il suo particolare moto di rivoluzione intorno al sole è di 28 anni terrestri (7 x 4). Ogni anno si sposta di circa 7° sull'orizzonte e ogni 7 anni di circa 49°. Gli antichi astrologi ritenevano che il "ciclo di Saturno", suddiviso in settenari fosse il ciclo celeste fondamentale, quello che (essendo il più esterno di tutti) regolava tutti gli altri. I cerchi, sei in totale (Saturno è il sesto pianeta per distanza dal sole), che contornano l'enigmatica immagine di lotta a Sant'Orso, forse richiamano proprio l'idea dei cicli cosmici... così si spiegherebbe anche la particolare disposizione ad anelli concentrici del Sator dell'abbazia templare di Valvisciolo (LT).
L'identificazione copta e bizantina dei cinque termini del quadrato del Sator con le Cinque Piaghe (o con i nomi propri dei Cinque Chiodi) di Cristo, fornisce un ulteriore spunto. Quattro sono "periferici" (le due mani, la ferita dei piedi e quella del capo causata dalla corona di spine), una è centrale (la ferita del costato): non è difficile immaginarsi una ruota definita proprio dal chiodo centrale (il mozzo) e da quattro punti sulla circonferenza che definiscono i due assi di una croce.
Saturno è un'allegoria del piombo da trasformare in oro di cui favoleggiano alchimisti, ma è anche il piombo del filo del muratore (il sole), che fornisce la misura.
Perciò è detto "aratro": il solco che traccia è quello in cui poi si ordineranno i semi della vita. Ma quel solco è anche la divisione fra la vita e la morte, il taglio netto del tristo mietitore.
"Saturno, l'aratro, governa i cicli della vita".
Questa forse è la più semplice traduzione del celeberrimo quadrato magico. L'aratro è la scansione del tempo. Più precisamente: "Saturno con il suo ciclo (tempo) regge (governa) i cicli della vita (dell'esistenza universale)".
Nel Sator circolare di Aosta, Saturno tiene il Capricorno: poiché questo è il primo segno zodiacale dopo il Solstizio Invernale (il momento in cui "il sole muore"), Saturno, che è il suo pianeta "maestro", è il "regolatore" di tutto ciò che ri-nasce.
Gli elementi che contornano Saturno al governo del Capricorno, sono la "quadratura del cerchio". I quattro animali agli angoli, anziché essere i quattro emblemi degli evangelisti (leone, uomo alato, toro, aquila, ovvero Marco, Matteo, Luca e Giovanni), sono creature mostruose, di un ordine diverso.
Il "piccolo leone" e l' "uomo in bocca al pesce" sono rispettivamente la costellazione zodiacale del Leone e dell'Aquario (astrologicamente equivalgono alla posizione in cui Saturno è in Esilio e in Domicilio), mentre il "drago" e l' "aquila a due corpi" sono i due segni zodiacali che precedono il Toro (Luca) e L'Aquila/Angelo (Giovanni). Corrispondono all'Ariete e alla Bilancia e sono, di nuovo, due posizioni chiave di Saturno, Caduta ed Esaltazione!
Insieme rappresentano i quattro momenti cruciali del ciclo di Saturno.
Ma non finisce qui. Le gambe di Saturno a cavalcioni della chimera sono di un color rosso mattone piuttosto acceso, come se l'autore avesse voluto evidenziarvi un particolare senso. Fin dai tempi di Sparta la gamba piegata all'altezza del ginocchio è un simbolo di forza, di dominio e insieme di appartenenza sociale.
Le due gambe rossastre e piegate ad angoli diversi del Sator di Sant'Orso sono in qualche modo collegate, tramite il medesimo colore, al collo (la testa) dell' "aquila a doppio corpo" e con la pinna caudale (i piedi) dell' "uomo inghiottito dal pesce". Le gambe sono dunque il doppio ritmo che collega la testa ai piedi: un richiamo alla ciclicità e alla doppia spirale del tempo, di cui Saturno è ìl fulcro.
Per calcolarne la posizione in cielo è sufficiente osservarlo in rapporto all'Orsa Maggiore, detta appunto Aratro e "trainata" dai Septem Triones, i sette buoi che sono le sue sette stelle maggiori.
Perfino lo spiritualista russo Gurdjieff nei suoi libri potrebbe averlo citato come signore del tempo, anagrammandone la qualità di "arepo" (aratro, solco) in "(h)eropa(s)".
Saturno è il "Signore del Mulino (del cielo)", l'antico dio arabico Hubal, che dimora nel pozzo presso la Ka'aba. La Pietra Nera incastonata nel luogo più sacro della Mecca è essa stessa Saturno. Egli è dunque la "pietra angolare", l'origine e misura di ogni cosa.
È il mesopotamico Enki-Ea e l'egizio Ptah, gli dei creatori. Ed è anche il mitico Imperatore Giallo orientale, "inventore" della medicina cinese e di tutte le arti ad essa collegate.
Nella mitologia celtica è Fearn-Foroneo, detto Bran-il-Benedetto, la testa oracolare che restituisce responsi e vaticini, poiché conosce il passato e il futuro.
Ma Saturno è il "tempo" dei pagani. Perciò fu nascosto sotto il pavimento della collegiata di Sant'Orso (sorgeva forse su un tempio dedicato al dio Sator?), ma non dimenticato.
Sulla sua testa (quella di Adamo, il Golgotha) il Cristo piantò la sua croce, spodestandolo. La vita però aveva bisogno di lui. Come i "celti" percuotevano l'ontano a lui caro cantando "vieni fuori dalla tua pelle!", così il Crocifisso lo privò della sua, gli mise in mano un coltello al posto della falce/aratro e gli diede il nuovo nome di Bartolomeo.
Perfino il curioso rituale del "passar sotto l'altare" nella cripta della chiesa, richiama nella sua ciclicità il trascorrere del tempo e di conseguenza una qualche usanza per "annullarlo". Si dice che si tratti di un "rito di fertilità". Ma, poiché, il complesso sorge su una antichissima e assai vasta necropoli, sembrerebbe piuttosto indicare una volontà diversa: rivolgersi al tempo-Saturno per "trascorrere", "passare attraverso" e procedere verso la "rinascita"...
Conoscere i ritmi di Saturno, il ciclo che è alla base di tutti i cicli e che tutti li governa, come l'anello dei romanzi di Tolkien, è anche l'inizio di un cammino di conoscenza.
Il Quadrato del Sator, perciò, forse non era un qualche simbolo di potere o un talismano miracoloso, bensì il segno di appartenenza di quelli che, quel cammino, decidevano di intraprenderlo, che fossero streghe silvestri (che lo chiamavano Cernunno), probi viri romani o prodi cavalieri Templari.
Era il sovrano della Festa dei Folli, che intonando "il Canto dei Cervi" invitava i sudditi al sollazzo, così come già era accaduto molti secoli prima durante i Saturnalia. Così, le differenze, ritualmente si annullavano in ricordo della vita terrena di Saturno: "Orfeo ci rammenta che Saturno visse apertamente sulla terra e tra gli uomini" (frammento orfico).
I rilievi hanno evidenziato come il mosaico del Sator sia stato ricavato (nel XIII secolo) sopra e al centro del vano funerario più importante dell'intero complesso. La nicchia era confinante con la parete della cripta ancora visibile attraverso un muro in cui erano ricavate tre finestrelle opportunamente polarizzate: due monofore (plus e minus) e una bifora centrale (neutro), che consentiva di "vedere", almeno simbolicamente, i "corpi santi". Quali ossa ospitasse esattamente non si sa. Il complesso è da sempre intitolato ai santi Pietro e Orso. Che quest'ultimo giacesse sotto al Sator, quasi a farne le veci?
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Varchignoli: orti del cielo, giardini di gioia
Salendo la stretta strada che da San Bartolomeo penetra nella valle Antrona, laterale dell'Ossola, si incontrano quasi subito piccoli borghi aggrappati alla montagna che una volta erano abitati da vignaioli.
Gran parte del declivio montuoso è stato trasformato, in tempi passati, in terrazze delimitate da poderosi muri a secco, nei quali si aprono decine di ambienti di ignota destinazione e sotto i quali scorrono canalizzazioni d'acqua.
Solo negli anni '80 e '90, però, gli studiosi si sono accorti che l'intera struttura era molto più antica di quanto si pensasse. È un piccolo tesoro di mura megalitiche, buie camere sottofascia e strutture riferibili ad attività agricola, che potrebbe essere stato concepito almeno dieci o venti secoli prima di Cristo.
“Io, Assur-na¯sir-apli,
non smetto di cogliere frutti
nel giardino della gioia”
(stele di Assurbanipal)
A cosa poteva servire? Poiché fino a poco tempo fa, a Varchignoli si coltivava la vite, che cresceva proprio su alcuni di quei terrazzamenti e veniva fatta correre su pali tenuti dai “palanghér”, la spiegazione che gli studiosi hanno dato é, appunto, che già millenni fa l'uomo svolgesse la medesima attività. Tale conclusione è però non più che un'ipotesi. Per loro stessa ammissione, infatti, se fosse vero, l'apparizione della viticoltura a Varchignoli sarebbe avvenuta con un difficilmente spiegabile “rilevante anticipo sui tempi”.
Sorvolando sull'inevitabile e deplorevole abbandono in cui versa il sito (dopo gli iniziali interventi e la costituzione di un piccolo museo, la comoda incertezza che erode l'autorevolezza e l'indolenza atavica che affossa ogni slancio hanno avuto la meglio!) molti sono i dubbi e le domande che rimangono aperti. Ma più di questo non sembra possibile dire, a meno che futuri ritrovamenti offrano nuovi spunti.
Casa de' Conti (Varchignoli): nicchia con copertura a tòlos (probabile tomba)
usata come "inceneritore" per gli sfalci del bosco
Così, non si riesce ancora a motivare le conoscenze dei suoi realizzatori, la particolare localizzazione dell'insieme o la presenza e l'utilità delle camere sotterranee, che hanno manifestamente un aspetto “cultuale”, oppure ancora delle innumerevoli doppie-scale monumentali addossate ai muri o da essi emergenti, visibilmente in esubero rispetto alla reale necessità di spostarsi da una balza all'altra e di solito affiancate a formare doppie scalinate opposte convergenti o divergenti.
Invero, se ci si perde per un po' tra le balze terrazzate, respirando l'aria umida che fluisce dalle vetuste condotte idriche ormai prosciugate e sostando in silenzio accanto alle mura poderose, il sospetto che non si tratti di un semplice impianto agricolo, alla fine viene.
Da buon curioso ma “non addetto ai lavori” dopo ripetuti pomeriggi in solitudine trascorsi a Varchignoli, mi sono fatto “la mia idea”, attingendo alla mia povera sensibilità. E qui umilmente, come sempre, la propongo.
Cardine di tutto l'insieme, sembra siano i “palanghér”, null'altro che fori praticati in una lastra orizzontale di pietra lungo i muri di pietra, in modo da inserirvi la base di un palo, fatta poi appoggiare su una mensola al di sotto, o fissata con cunei. Sui pali si poteva poi far crescere la vite. E non solo quella. Almeno è così che fin dal medioevo la coltivazione viticola si sarebbe sviluppata.
Sembra che esistessero due tipi di “buche da palo”: quello più antico formato da due metà avvicinate, come fosse una tenaglia; quello più “moderno”, a foro unico praticato in una pietra piatta.
Ho guardato bene... i tipi potrebbero essere invece tre, se non quattro. I palanghér a foro unico, infatti, presentano spesso curiose (e oserei dire “volute”) svasature del foro, più aperto a volte verso il basso, a volte verso l'alto.
Sono insomma “polarizzati”, come se dovessero raccogliere qualcosa dal basso (o dall'alto) per convogliarlo (e addensarlo filtrandolo) dalla parte opposta. Lo stesso può dirsi del “tipo vecchio” in cui le due “braccia” sono sempre dissimili per dimensioni.
E quando capita di scorgere diversi di questi dispositivi, ad altezze differenti e polarizzazioni varianti, la mente li riconosce intuitivamente come una sorta di enorme “tastiera”, fatta per suonare suoni invisibili e soavi.
Posizionati sulla verticale della bocca di una canalizzazione, ai piedi di una delle scalinate ad aggetto lungo i muri, poi, paiono proprio comporre la sezione longitudinale di uno di quegli incredibili pozzi sardi, con un piccolo buco svasato sulla sommità, quasi un invito al Cielo a “buttarsi in acqua” passando da quello stretto foro.
E le scale... le scale... troppe, ridondanti e disagevoli. Lo spazio per scalinate più ampie e sicure non mancava di certo! Sono quasi sempre a coppie, divergenti o convergenti secondo la necessità. Di nuovo i paralleli con altre culture non mancano. Pare di vedere l'interno del meraviglioso pozzo Chand Baori ad Abhaneri, nel Rajastan, risalente al VII secolo. L'invaso circondato da scale divergenti/convergenti consente di raggiungere l'acqua sul fondo, che le scalinate rendono “nettare della gioia” (come la dea cui il pozzo è dedicato).
C'é anche un particolare sito a una manciata di chilometri da Cuzco, in Perù, che fa il paio con Varchignoli. Fu ricavato terrazzando una conca a Tipòn. Non si sa con certezza quando. Doppie scale punteggiano le mura di contenimento e le acque incanalate dalle sorgenti della montagna vi scorrono accanto. Di nuovo, in questo caso, i gradini ad aggetto non paiono avere un'effettiva funzionalità, anche in considerazione della presenza di ben più comode scalinate frontali che collegano i terrazzamenti. Anche di Tipòn si dice che fu un'installazione ad uso agricolo.
L'immagine più vivida che queste doppie scale richiamano è però quella dei fregi sopra gli ambienti trogloditici della meravigliosa Petra, in Giordania. Nella capitale dei Nabatei, per molto tempo fiorente e strategico snodo commerciale del medioriente, la decorazione sul fronte delle case sembra fosse un'indicazione imprescindibile dei suoi occupanti. Dicono gli archeologi che, in città, case e tombe di oriundi egizi fossero sormontate da piramidi, mentre le doppie scale incoronassero le case e le tombe dei Nabatei: la doppia scala convergente indicherebbe le sepolture, mentre la variante divergente le abitazioni o comunque ambienti riservati ai viventi.
Così, a distanza di migliaia di chilometri e di anni da Varchignoli, ricompaiono gli stessi simboli polarizzati: le scale divergenti a indicare “vita” e quelle convergenti l' ”altro mondo”. Ma a Petra è per lo più l'unica traccia che si può seguire per tentare di collocare le grandiose facciate scolpite nella roccia rosata e le camere che custodiscono.
Anche a Varchignoli non esiste un'indicazione chiara e valida del motivo per cui numerose camere furono ricavate sottofascia. Diverse per dimensioni, impianto e tipologia costruttiva, presentano coperture megalitiche realizzate con lastroni (forse già presenti e sotto i quali furono ricavate), con lastre e pietre più piccole oppure “a tòlos”, una sorta di “cupole” ante-litteram spesso adottate per gli ambienti di sepoltura. Ciò farebbe propendere per un uso “cultuale” almeno di alcune.
In certi casi internamente sono state ricavate “panche” la cui funzione è ignota, oppure nicchie.
Per parte mia, ho constatato quanta perizia sia stata messa nelle loro impostazione e non solo nella loro costruzione. Se, dunque, nulla fu “fatto a caso”, l'orientamento, le dimensioni, la tecnica, lo stile potrebbero rappresentare validi indizi sulla loro reale funzione.
Una delle più ampie, quella contrassegnata con i numeri di rilevamento 171-172 (località “Valin Bianch”), è comodamente raggiungibile dalla parte più occidentale del muro in cui è ricavata, confinante con terrazzamenti piuttosto ravvicinati e larghi, anche se crollati. In posizione opposta, dove il muro è più elevato c'é l'immancabile scala discendente in direzione dell'ingresso.
Il muro in cui si apre la camera non è rettilineo, bensì curvo: una doppia curva studiata, come quella di certi “oranti” rinvenuti nei pittogrammi rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio, non lontano da qui.
e ci si pone a questo punto con le spalle all'ingresso della camera, si nota subito un particolare: è orientata perfettamente verso il punto in cui il sole scompare dietro le montagne al tramonto del Solstizio Invernale (21 dicembre).
La parete di fondo però é inclinata, si rivolge ad un punto diverso, l’ovest, che la cima più alta del panorama contrassegna perfettamente e che corrisponde al tramonto equinoziale. 26° circa più a nord-ovest il sole tramonta al Solstizio Estivo, disegnando, a partire da alcuni gradi a nord dell’ovest un cono d’ombra nella camera, che si estende fino all’unica pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.
Al tramonto Solstizio Invernale mentre la “bocca” inquadra il punto in cui il sole viene occultato dalle montagne (stagliandosi sul Capricorno), la via lattea, in verticale sulla direzione ovest si “riflette” sulla pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.
Al tramonto Equinoziale mentre Il sole, stagliandosi sull’Ariete, si riflette sul fondo della camera e la “bocca” indica la costellazione dell’Aquario.
Al tramonto del Solstizio Estivo, infine, la parete di fondo inquadra la costellazione del Leone, mentre la “bocca” abbraccia la Vergine.
Così accadeva nel 1350 a.C. circa, la data approssimativa nella quale secondo gli studiosi, sarebbe stato costruito in complesso di Varchignoli.
La mia ipotesi è che, perciò, questa struttura (e di conseguenza anche le altre) sia una “camera di risonanza” attraverso cui richiamare, condensare e avvicinare una certa porzione zodiacale del cielo alla terra. Ciò non contraddice l'idea che Varchignoli possa essere nato come impianto agricolo, piuttosto riveste di una nuova importanza i frutti della terra che qui si coltivavano.
Se la mia ipotesi è corretta, qui non si coltivava soltanto la vite. Inoltre, se erano importanti i periodi di semina individuabili attraverso i movimenti solari (le camere funzionavano forse anche come “orologi”) e probabilmente anche lunari, altrettanta importanza dovevano avere i legami di ciascuna specie seminata con il rispettivo “maestro” celeste e il corrispondente “nume” ipogeo.
Di tali misteriose associazioni, che potremmo impropriamente definire “astrologiche” in effetti qualche traccia documentale si è trovata. Il controverso “La Dea Bianca” di Robert Graves, ad esempio, mal compreso da molti e travisato da molti altri, ne è un notevole compendio.
Forse Varchignoli e le aree circostanti erano un insieme unico e altamente organizzato, suddiviso in aree delle giuste dimensioni, in cui era presente il “richiamo” a una precisa parte del cielo e nella cui terra veniva seminato il vegetale che si riteneva corrispondervi.
L'acqua pura sapientemente incanalata vivificava il suolo, scale e “palanghér” (almeno quelli che non sostenevano nulla) aumentavano l'effetto, ricomponendo gli eccessi e riequilibrando i difetti.
Così, i frutti della terra diventavano “pomi d'oro”, cibi celestiali, il nutrimento da offrire agli dei.
Alcuni ambienti sotterranei non è escluso fossero destinati alla sepoltura dei custodi di quel luogo che, in tal modo, avrebbero potuto continuare a vegliarlo anche dall'aldilà. Altri ambienti infine, potevano essere “di riequilibrio” per gli esseri umani sullo stesso principio di corrispondenza fra gli astri e i diversi “tipi” umani.
Forse Varchignoli era simile ai leggendari “giardini pensili di Babilonia”.
“L’acqua incanalata scendeva dall’alto fino ai giardini; i viali sono odorosissimi, le cascatelle brillano come gli astri del cielo in questo giardino di delizie. I melograni, coperti di grappoli di frutti come la vite di uva, ne aumentano il profumo. Io, Assur-na¯sir-apli, non smetto di cogliere frutti nel giardino della gioia...”. Così si legge nella stele di Assurbanipal.
I giardini babilonesi, avevano anche un altro nome: “Al suo palazzo egli fece ammassare pietre su pietre, fino ad ottenere l’aspetto di vere montagne, e vi piantò ogni genere di alberi, allestendo il cosiddetto «paradiso pensile»”.
Erano un “paradiso” in terra, un giardino di delizie riservato ai re, agli dei e agli eroi, come quello delle Esperidi.
Forse lo era anche Varchignoli.
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PORTOFINO INCONTRA AUTORI 2016
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Santa Cazzuola
Raccontano le agiografie che all'alba del Cristianesimo nel Nord Italia, sulle rive del Lago d'Orta erano giunti due fratelli predicatori dalla lontana Grecia. Le gesta dei fantomatici Giulio e Giuliano sono piene di accadimenti prodigiosi. Tra le tante, è curiosa la storia di come, mentre l'uno erigeva San Lorenzo a Gozzano e l'altro la futura Basilica sull'isola in mezzo al lago, si lanciassero l'un l'altro l'unica cazzuola e l'unico piccone che possedevano. Gli arnesi volavano dunque di continuo per chilometri, cascando alternativamente nella mani di questo e di quello che, in tal modo portarono avanti contemporaneamente i due divini progetti. Si dice che una volta Giuliano non si sarebbe accorto dell'arrivo volante del piccone e che si sarebbe di conseguenza ferito una mano per cercare di acchiapparlo. Lo schizzo di sangue lasciato su una pietra diventò oggetto di intensa devozione.
Identica faccenda pare essere accaduta anche sulle rive del Lago Maggiore, poco più a est. Qui sorge, sulle alture varesotte di Ranco, una placida, millenaria chiesa dedicata a San Quirico. Si racconta che fu edificata da un qualche “monaco errante”, che aveva viaggiato insieme ad un confratello, il quale aveva proseguito fino al Monte San Salvatore sopra Massino Visconti, sull'opposta riva del lago.
San Quirico al Monte (Ranco di Angera) - fonte: Wikipedia
Mentre l'uno innalzava San Quirico, l'altro costruiva la primitiva chiesa che probabilmente pre-esisteva al santuario benedettino che vi sarebbe sorto nell'anno Mille.
Di nuovo, a causa della mancanza di attrezzi, si vide per diverso tempo una cazzuola sfrecciare fischiando di traverso al lago, da una chiesa all'altra. Di tale mirabolante prodigio sarebbe stata ripetutamente testimone tale Servilia, rifugiatasi nei boschi circostanti insieme all'anziano padre per sfuggire ai dominatori longobardi.
Più tardi le leggende finirono per sovrapporsi e i due santi monaci cristiani di Angera (Ranco) e San Salvatore diventarono Giuliano e Giulio, i quali vi sarebbero arrivati dopo essere passati dalla vicina Brebbia e prima di giungere ad Angera. Dei due, ovviamente, Giulio si sarebbe occupato di San Salvatore, “andando avanti” lungo la strada, come poi avrebbe fatto anche tra Gozzano e Orta.
Una volta di più è valido ciò che ormai molti storici confermano e cioè che le agiografie dei santi furono creazioni molto più tarde di quando i supposti santi sarebbero vissuti, confezionate ad arte su modelli stereotipi ben definiti. Del resto, a parte quella leggendaria storia che le accomuna, le due chiese non sembrerebbero avere nulla a che fare l'una con l'altra.
Cambia il lago, cambiano i protagonisti e la faccenda si ripete. Ma l'ispirarsi ad una medesima fonte per redigere le agiografie, forse, non spiega ogni cosa. Dovrebbe essere quantomeno sospetto che sia stato inserito un evento tanto strano e poco rappresentativo in luoghi diversi e differenti storie di santi.
Monte San Quirico (Ranco di Angera), vista dalla riva occidentale del Lago Maggiore
San Quirico Al Monte è dedicata a un santo bambino. Senz'altro è essa stessa una chiesa-bambino. Però Quirico è di solito accompagnato dalla figura materna. Essendo questo un caso in cui la dedicazione è riferita soltanto a lui e non a “Quirico e Giulitta”, la “madre” dove può trovarsi?
Il “lancio della cazzuola” avanti e indietro, come a tessere una tela invisibile, conduce inevitabilmente a San Salvatore. Non è difficile immaginare che tale Santo non sia probabilmente la dedicazione originaria. La “Salvezza”, il Cristo evangelico, venne dal grembo della “Madre”, Maria e forse proprio a lei fu intitolata, prima dell'arrivo dei Benedettini la sommità del monte. Come già intonava una celebre preghiera mariana orientale, Sub Tuum Praesidium: «Proteggici o Madre di Dio / sotto la Tua ala da ogni pericolo: / Tu sei il nostro rifugio, la nostra massima speranza...». La Theotokos è dunque anche la fonte della “speranza di salvezza”.
Abbazia/Santuario di San Salvatore (Massino Visconti)
Del resto il monte, prima dell'arrivo dei benedettini, si chiamava “Biviglione”, con il significato di “(montagna) delle grandi betulle”. L'albero in questione è di certo di natura femminile e femminili erano le “vesti” con cui veniva adornato nei giorni della Pentecoste (mese di Maggio, il mese della Vergine Maria) prima di essere gettato nel fiume per propiziare la pioggia. Nelle saghe europee e soprattutto nordiche è infatti un albero della vita, un veicolo della creazione e precisamente l'entità arborea che dona la luce al mondo.
Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti
Non a caso, dal XV secolo, quando il monastero passò agli Agostiniani, proprio questi ultimi vi portarono (o riportarono) il culto della Madonna, quella detta “della Cintura”, di origini bizantine. L'originale, la reliquia della cintola, una sorta di fascia indossata sopra i fianchi per reggere le vesti, pare fosse custodita a Bisanzio-Costantinopoli nella chiesa di Santa Maria Chalchoprateia, in un prezioso reliquiario, la Santa Cassa.
Madonna della Cintura (statua moderna) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti
C'é poi un curioso legame con la femminilità e l'atto creativo nascosto nelle “absidi da celebrazione” del complesso di San Salvatore. Questi curiosi ambienti semicircolari sovrapposti voluti dai benedettini e la cui funzione non è chiara, hanno infatti dedicazioni non casuali: Santa Margherita di Antiochia, Maria Maddalena e lo stesso San Quirico! La prima è la patrona delle partorienti, l'ultimo dei fanciulli ed è fanciullo egli stesso e ciò porta a supporre che nella loro presenza fu codificata una vera e propria venerazione per l'atto spirituale e terreno di “creazione e manifestazione della vita” nelle sue tre fasi salienti.
Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti
Ecco dunque la chiesa “madre”, in cui il bambino è presente e la chiesa “bambino” sull'altra sponda del lago. La cazzuola parrebbe dunque una sorta di legame invisibile tra i due luoghi, mantenuto vivo attraverso il suo andirivieni “sul filo della cintola”. Il “dono della cintura” fatto dalla Vergine a Santa Monica (madre di S.Agostino), all'origine di tale culto, era infatti un chiaro simbolo di appartenenza e di fiducia insieme, come già era stato scritto in Isaia 11,5: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà”.
Scala santa e ingressi delle absidi da celebrazione - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti
Quanto allo strumento attraverso cui viene indicata la “cintura invisibile”, un attrezzo da costruttore, è facile ricondurlo ai simbolismi del compagnonage libero-muratorio, per lo più come indicazione di una volontà precisa e studiata, appannaggio di pochi sapienti.
Se poi si cerca un motivo per cui la cazzuola sarebbe stata messa nelle mani di Giulio e del suo fantomatico “fratello” Giuliano, di nuovo San Salvatore offre uno spunto curioso nella figura di una delle dedicatarie delle cappelle da celebrazione. Prima di Giulio, già Santa Margherita di Antiochia era stata una “ammazzatrice di draghi”, una “sauroctona”.
Infine vale la pena soffermarsi su un dettaglio del Libro di Isaia. Due sono le “cinture” ricordate. Una è quella chiamata dai greci “zone”, la cintura vera e propria annodata soprai fianchi, che è il segno della fedeltà, della fede che è come un “filo” che “mantiene” un legame, una promessa come quella dei Templari che indossavano, per tale motivo, un filo di candido lino in vita, sopra l'armatura... la promessa della salvezza, appunto, su cui fu edificato il Monte San Salvatore.
L'altra è invece quella indicata in Grecia come “strophinon” ed è la fascia che avvolge il seno, annodandosi nella zona renale/lombare, segno di giustizia, secondo Isaia. Forse anche questa “fascia invisibile” esiste sul Lago Maggiore.
Poco più a nord di San Quirico al Monte, sorge infatti l'antico Eremo di Santa Caterina del Sasso, fondato, si racconta, come ex-voto dal mercante Antonio Besozzi, scampato ad una violenta tempesta mentre attraversava il lago.
Esattamente di fronte, sull'opposta sponda, fra le alture di Stresa, esiste un altrettanto antico oratorio, quello della Madonna di Passera, la cui leggenda di fondazione è identica a quella dell'eremo: di nuovo ne è protagonista un mercante, di vini questa volta, salvatosi miracolosamente anch'egli da un nubifragio mentre attraversava le acque del Lago Maggiore.
Leggenda di fondazione (miracoloso salvataggio da naufragio) - Oratorio della Madonnadi Passera, Stresa
La coincidenza dei fatti non è passata inosservata. Più nascosto invece il legame tra i due luoghi e le rispettive dedicatarie. Da una parte vigila la santa alesandrina -forse mai esistita, forse confusa con l'eroica Ipazia- patrona dei giuristi, degli uomini di giustizia; dall'altra parte si venera la Presentazione della Vergine al Tempio. Tale è la denominazione esatta dell'oratorio. Ma la Madonna fanciulla presentata al Tempio ha anche un altro nome: Madonna della Salute.
La salute è integrità. L'integrità è giustizia. E una fascia sottile, la stessa che tenne sollevati i mercanti naufraghi dalle onde del Lago, è ancora tesa fra le due.
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Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur-Rizzoli, Milano, 1999
Gli occhi della Sfinge
Il Cairo, “La Soggiogatrice” è la moderna capitale egizia e la più grande metropoli africana, sorta su precedenti insediamenti arabi ai tempi dei Fatimidi, impegnati a restaurare il califfato. Appare fatiscente, fumosa, inquinata ma anche in continuo fermento, come una cittadina di frontiera, da cui si parte per nuove conquiste.
Il suo simbolo è Grande Piramide. La sua enormità mi schiaccia. È una sensazione a cui non si riesce fare l’abitudine: milioni di blocchi squadrati ed impilati accuratamente, ai quali Napoleone stesso si ispirò per l’arringa finale ai suoi soldati, in vista della celebre “Battaglia delle Piramidi” del 1798.
Molto si dice, si è detto e si dirà di questi monumenti. Qualcuno ha scomodato perfino extraterrestri e atlantidei per cercare di spiegare come e perché i faraoni della IV dinastia costruirono le piramidi. Se ne parla come di tombe, di grandiosi mausolei, ma nessuno è mai stato sepolto al loro interno. I sarcofagi ritrovati nei loro recessi, infatti, erano tutti miseramente vuoti. Non svuotati, bensì mai utilizzati e di questi faraoni – Cheope, il figlio Chephren ed il nipote Micerino – non è mai stata scoperta alcuna sepoltura. Essi vivono come fantasmi, figure mitiche e semi-divine nel calcare delle loro piramidi e nei vaghi ricordi, non sempre benevoli, lasciati da qualche storico antico.
La storia di quel Khufu, Cheope, cui è attribuita la più grande e perfetta piramide egiziana è una manciata di parole, la prova della sua esistenza una statuina alta non più di quindici centimetri, che è ancora possibile vedere, se si riesce a trovarla, al Museo Egizio Del Cairo, che custodisce le più incredibili produzioni artistiche dell’Antico Egitto.
La prima volta che si entra in questa secolare istituzione vengono quasi le vertigini per la quantità di reperti di ogni dimensione e forma strizzati, ammassati in ogni centimetro di spazio disponibile.
Aggirarsi per il museo è un po’ tornare bambini e scoprire un nuovo tesoro ad ogni passo, sotto lo sguardo attento del “sorvegliante”, la lignea figura di Ka-Aper, primo sacerdote di Saqqara, la cui effige in legno è talmente realistica da sembrare viva. I suoi occhi vivaci e guizzanti, realizzati con pasta di vetro e ceramica, ancora scrutano con attenzione chi si mostra al suo cospetto.
Al piano superiore la principale attrazione sono le incredibili meraviglie del corredo appartenuto al faraone fanciullo Tutankamon, che rilucono d’oro, di gemme e di pietre dure. Tutto si è conservato mirabilmente, dai sarcofagi, alla splendida maschera funeraria, alle vesti, ai giochi, ai bastoni da passeggio, ai bauli e ai ricchi corredi del bambino che fu re.
In un angolo, una porta si schiude sul luogo più misterioso del museo, la Sala Delle Mummie Reali, dove riposano i grandi sovrani, nell’immortalità dei loro corpi, mirabilmente conservati. Tra le altre è sicuramente degna di nota quella del potente faraone biblico Ramsete II che, posizionata nel museo nel 1881, dopo aver vagato a lungo, secondo le cronache dell’epoca avrebbe addirittura alzato un braccio in segno di ringraziamento.
Lontano dal Museo, a poca distanza dalla Piramide di Cheope, su tutta la città e oltre vigila la Sfinge. Chissà, sempre che sia vero, quali immensi segreti cela sotto la sua zampa destra, laddove si apre un vasto antro, una grande camera che conterrebbe la sapienza perduta di Atlantide. Quante cose avrà mai visto questo plurimillenario e muto testimone del tempo?
Il suo viso di pietra, forse quello di Chephren, con il mento alto e lo sguardo ieratico, sfida il mondo intero, contemplando il sole all’orizzonte. Attende risposta al millenario enigma: “Cos’è che al mattino cammina a quattro gambe, al mezzodì con due e al tramonto con tre?”.
Fotografie: Yuri Minghini
Testo: Francesco Teruggi
Il dipinto di casa Gozzano: una mappa sapienziale seicentesca
Fin dal XVI secolo esisteva in Valstrona una nobile famiglia di conti, detti «Gozzano», la cui residenza dominava l'abitato di Luzzogno. La stirpe diede parroci al paese e vescovi alla cristianità. Nell'edificio, ancora esistente, al piano alto, sulla parete del loggiato nella quale si apre la porta di accesso alla camera da letto patronale, è ancora presente un complesso ed enigmatico dipinto allegorico.
Poche o pressoché nulle sono le informazioni su questo «gioiello», che è tale non tanto per stile e qualità artistica, quanto per la sua profondità sapienziale e la sua vastità simbolica. Se le poche ricerche sull'argomento ne hanno individuato i tratti essenziali, bisogna spingersi in direzioni nuove per riuscire ad afferrarne i preziosi segreti.
Luzzogno: Santuario della Colletta
Il dipinto si presenta come una sorta di tabella, di tavola ben spaziata in quattro quadri, separati a coppie in senso verticale da una colonna, avvolta in spire da un drappo e terminante in un «sole» con la Madonna e il Bambino Gesù al centro.
I due riquadri bassi presentano ciascuno una teoria di personaggi femminili, allegorie dei vizi e delle virtù. I due alti presentano invece schiere angeliche con tratti maschili. Una linea di cartigli o forse di tende separa le immagini angeliche da quelle femminili, come a oscurare le une dalla vista degli altri.
Le due teorie maschili e femminili sono senz'altro un riferimento alla terra (femminile e umano) e al regno celeste (maschile e angelico). In senso orizzontale, le figure femminili delle due teorie sono le stesse, ma ritratte ciascuna in comportamenti antitetici: lo specchio che induce prudenza, il guardare bene dentro sé stessi è anche lo specchio della vanità che genera superbia. Così, il bene e il male terreni si fronteggiano, ma esistono insieme, sono aspetti di una stessa cosa.
Ma, appunto, bene e male sono soltanto terreni; nel regno celeste non c'é spazio alcuno per il male. Infatti, sono angeli anche quelli che si avvicendano sopra ai vizi e sono precisamente quei 7 vittoriosi, di cui parlano i profeti biblici e l'Apocalisse, ciascuno sopra ogni afflizione. Gli angeli più esterni portano emblemi eloquenti che si rifanno ai Vangeli: il velo della Veronica, che fu «sollecita» nel soccorre Gesù, la croce del Cireneo che fu suo «alleato» nella salita al Golgota, ecc.
Se poi facciamo caso alla scelta di porre i vizi alla sinistra della Madonna e le virtù a destra, otteniamo una precisa direzione di lettura, aiutata anche dagli sguardi reciproci di tutti i personaggi: dai 7 angeli guardiani con gli sguardi verso il basso, l'occhio viene condotto ai vizi, da questi alle virtù e di nuovo in alto verso i 7 «angelici» Doni dello Spirito. Lo sguardo e il corpo del Bambino Gesù sono rivolti a chi «lo segue», quelli della Madre a chi è lontano e ancora deve percorrere il «sentiero irto di ostacoli». Si compie con gli occhi una spirale, discendente e poi ascendente, quella della fallacità umana che, con l'aiuto del cielo può diventare virtù e attraverso questa ci può portare al cielo e ai suoi doni spirituali.
L'albero al centro, rifà lo tesso movimento, di discesa attraverso le spire del drappo, di risalita attraverso l'albero vero e proprio, avvolto all'interno... il sole che alimenta le foglie e il nutrimento delle radici che, grazie alla luce si trasforma e risale fino alle fronde, facendo germogliare nuova vita.
Potremmo definire quindi questa rappresentazione un «viaggio dell'anima» per immagini o una «mappa dello spirito», che trae certamente ispirazione dal genere letterario-artistico-teologico di cui la Divina Commedia dantesca è senz'altro il più elaborato rappresentante occidentale.
Luzzogno
Il destino dell'uomo e della sua anima dopo la morte è uno dei quesiti esistenziali fondamentali e ha prodotto in tante culture ed epoche opere che cercano di spiegarlo con mirabile bellezza, dall'Apocalisse di San Paolo ai testi sufi (ad esempio il «Libro della Luce» di Bistami o il «Cammino degli uomini verso il loro ritorno» di Sanai, il «Racconto di Hayy Ibn Yaqzan» di Avicenna, il «Libro del viaggio notturno verso la maestà del Generoso» e «L’Alchimia della felicità» entrambi di Ibn Arabi), dalla «Navigazione di San Brandano» (VII sec.) ai poemetti medievali cui si ispirò con buona probabilità anche Dante («La Gerusalemme Celeste e Babilonia città infernale» di Giacomino da Verona o il «Libro delle tre Scritture» di Bonvesin della Riva), alle «visioni» (quella di Alberico di Settefrati e quella di Tugdalo sono forse le più celebri), fino al trecentesco «Libro dei Vizi e delle Virtù» di Bono Giamboni.
Se quest'ultimo può essere stato di ispirazione per parte del dipinto in casa Gozzano, ce n'é però uno soltanto dal quale l'ignoto pittore può aver tratto l'idea generale della composizione. Ben noto già al tempo di Dante, è il testo islamico, di autore anonimo, noto come «Libro della scala di Mometto», che narra del «miraj», il viaggio nell'aldilà compiuto dal profeta, solo accennato nel Corano.
Nel capitolo VI, Maometto, salendo la scala verso l'altro mondo, guarda in alto e vede ciò che lo attende: «...guardando in alto vidi un grande angelo assiso in trono, il quale reggeva tra le mani una tavola che si stendeva da oriente a occidente. Alla destra di quell'angelo ce n'erano molti altri, coi volti rilucenti come luna piena, per lo splendore della grazia di Dio. E tutti quegli angeli indossavano vesti verdi, più splendenti dello smeraldo, e avevano profumi più soavi del muschio e dell'ambra. E a sinistra c'era una schiera di angeli più neri dell'inchiostro, con gli occhi rosso fuoco, e puzzavano e avevano voci più forti del tuono e il loro aspetto era immensamente spaventoso».
Così si presenta il dipinto di casa Gozzano a Luzzogno: La Madonna che regge la «tavola» della nuova legge, il Bambino Gesù (che ne è il portatore), angeli lucenti alla sua destra e angeli «tenebrosi» alla sinistra.
La composizione stessa è una tavola, coperta di numerose epigrafi che, fingendo di spiegare il contenuto delle immagini, traggono in inganno l'occhio inesperto e spalancano invece nuovi livelli di lettura a chi ne è meritevole.
Si legge, in basso sotto i vizi un duro monito: «Ai cattivi non giova avere buone conoscenze, se non onorano il Dio vero e santo». Poiché il bene e il male sono governati dalle stesse leggi (le buone conoscenze), non è cosa buona che esse cadano nelle mani di chi vuol compiere il male. Questo non soltanto perché è un'offesa a Dio, ma anche perché «non giova» a loro stessi. Il male che potrebbero fare, su di loro si ritorcerebbe.
Queste parole dunque, alludendo a certe «conoscenze» ne indicano la presenza nascosta nel dipinto stesso. L'epigrafe gemella, sul lato opposto, prosegue, seguendo sempre il percorso a spirale, a svelare il mistero: «Se c'é qualcosa che conviene ai bambini, giovani e vecchi, cogli con chiarezza tutta la forza delle virtù». Quelle «buone conoscenze» sono, con una perifrasi sibillina, «la forza delle virtù» ed esse sono invece buona cosa (sono convenienti) per i «bambini», per i puri di cuore, siano essi giovani o anziani. La pratica delle virtù è ciò che li porterà al cielo.
Solo a questo punto l'albero, la palma, al centro ci rivela il successivo livello di comprensione. Volano via, uno dopo l'altro, i veli che coprono la verità. Il primo era già alzato, il secondo si è scostato, ora si solleva il terzo, donando nuovi significati anche al primo e al secondo.
Indubbiamente potremmo identificare la pianta nel dipinto come quella che stava al centro del Paradiso Terrestre. Ma nella Genesi, come più volte è stato fatto notare, gli alberi sono ben due, quello della «Vita» e quello della «Conoscenza del bene e del male». Uno sta, appunto, al centro, l'altre accanto ai cancelli. Da quello della Vita, su cui sta il serpente, Eva coglie il frutto. Soltanto quando lei e Adamo verranno cacciati, invece, s'accorgeranno di quello della Conoscenza e non ne potranno più avere beneficio alcuno!
Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta
Nel dipinto l'Albero che vediamo e che adesso possiamo riconoscere è quello della Vita, il cui tronco è avvolto dal serpente, non il tentatore, ma la sua antitesi, il «serpente celeste», la parola saettante di Dio che scende verso la terra. Le brevi epigrafi che saltano sul tronco, di nuovo, cercano di trarre in inganno lo sprovveduto, ma regalano altre preziose verità ai più puri di cuore.
«Questa è la celeste pianticella», proclamano. È l'albero che ha in cielo le proprie radici e che «supera le piante sabee». Così, ritroviamo lungo il cammino Dante e la sua Commedia e precisamente il Canto XXXI dell'Inferno in cui è contenuta una sibillina frase attribuita al gigante biblico Nimrod: «Raph el mai amech zabi almi» (Contra chi [vieni] all’acqua del Gigante, al profondo del Zabio?).
«Zabio», sabeo, è l'epiteto con cui il sommo poeta definisce il leggendario primo re di Babilonia. Non è difficile scorgere per questo semplice motivo, nella «pianta sabea» spiraleggiante, simile all'albero del dipinto, la mitica Torre di Babele. Secondo il patriarca alessandrino Eutichio, infatti «...al dire d’alcuni, chi prima aveva istituito la religione degli Zabi, era stato nel numero di coloro che avevano edificato Babele». Ma qui non si indica la sola torre biblica, la perifrasi è infatti utilizzata al plurale. Potrebbe sottintendere che la «celeste pianticella», che di per sé è anche un «tempio mistico» è più alta, cioè elevata (in senso spirituale) di qualunque altro tempio.
In termini di «buona conoscenza», quella da cui è iniziato il percorso nel dipinto, l'epigrafe potrebbe dunque suggerire che la sapienza di cui si parla è la più elevata di tutte, anche di quella dei «Sapienti». A tal proposito, un controverso e oscuro testo arabo-spagnolo del XI secolo, il Ghàyat al-Hakìm (conosciuto anche come Picatrix Latino), contiene un'interessante chiave di lettura, poiché indica i sabei come «servi nabatei (copti) dei Caldei» e li indica come «sottomessi alla luna» e come fabbricatori di amuleti, esperti di magia e dediti al culto dei sette pianeti e dell'Orsa Maggiore. I sabei, a quanto pare erano «sapienti» pagani, come i re Magi. Ma neppure questo risolve il problema del termine «piante», plurale nell'epigrafe.
Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta
C'é però anche la possibilità che l'idea di riferirsi a questo popolo leggendario sia di nuovo stata ispirata da testi islamici. Dei «sabei» parla infatti il Corano in ben tre sure, tra cui la II e la V, in cui sono annoverati al terzo posto tra le Grandi Religioni. Il primato ovviamente spetta all'Islam, ma la religione sabea risulta «migliore» di quella ebraica, ma non elevata quanto quella cristiana, sebbene sia ad essa la più prossima.
Sheba o Saba è il mitico regno della sposa di Salomone. Il suo popolo avrebbe dunque ben ragione di essere definito «sabeo». Nel periodo di maggior espansione il popolo Nabateo controllava pressoché tutta la penisola arabica compresi i territori delle tribù yemenite, discendenti della Regina di Saba. Secondo la tradizione africana, invece, la sovrana sarebbe di origini etiopi e ciò potrebbe spiegare perché nel Picatrix si usi la locuzione «nabatei-copti».
Proprio dai territori di Sheba/Saba proviene la più celeste delle piante, l'incenso, l'arbusto «spiritualmente» più elevato. La sua resina è la più pura delle sostanze conosciute e ad essa potrebbe riferirsi il cartiglio del dipinto di casa Gozzano, per indicare che la «celeste pianticella» è un'essenza ancora più pura della più pura tra le essenze conosciute.
L'epigrafe successiva in questa prospettiva, conferma appieno l'ipotesi: «questa pianticella è un giglio di pudore». Il giglio è notoriamente il simbolo stesso della purezza, mentre il «pudore» è ciò che rende «inarrivabile». La pianticella è quindi di «irraggiungibile purezza».
Procedendo leggiamo che la pianticella è «Madre» della salvezza, è colei che genera la salvezza per tutti. Infine, nel più lungo di tutti i testi del dipinto, ritroviamo il termine «Madre» . La pianticella «purissima» e produttrice di salvezza è anche Madre di Dio.
Anagramma puro! Non perché si legga anche al contrario ma, in senso ermetico, perché tutto sta in tale purezza e comunque si cambi l'ordine delle lettere, essa sarà sempre pura... come in alto, così in basso, come in cielo così in terra...
Luzzogno: Santuario della Colletta
E l'altro albero del Paradiso? Qui sta la grande prova. Perché, nella Genesi, Adamo ed Eva si accorgono troppo tardi della sua esistenza, perché lo vedono soltanto quando vengono scacciati? Forse perché quell'albero è l'Eden stesso e solo quando ne escono scorgono finalmente, da fuori il su tronco.
Nel dipinto di casa Gozzano l'idea, almeno, sembra essere questa. Il bene e il male, i vizi e le virtù, sono ben rappresentati, quasi fossero radici di un grande albero, insieme a parole che esortano a «conoscerli». A sorvegliare entrambi ci sono gli angeli, come quelli posti all'ingresso dell'Eden, poiché una tale sapienza è sapienza «angelica» o, per dirla come Salomone nel Corano, la «lingua degli uccelli» (esseri del cielo, angeli, appunto): «O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ullimna mantiqat-tayri) e colmati di ogni cosa».
Il percorso ora è giunto a compimento ed è pronto a ricominciare.
C'è un ultimo dettaglio. Quando l'osservatore si pone davanti al dipinto, inconsapevolmente guarda verso nord-ovest, là dove si trova, secondo le tradizioni mistiche, l'ingresso per l'aldilà...
BIBLIOGRAFIA
Anonimo, Libro della scala di Maometto, XIII sec.
Arioli, Luigi, La casa Gozzano di Luzzogno, in Lo Strona, nr.1/1976, Magazzeno Storico Verbanese, Verbania, 1976
Berti, Giordano, Dante Alighieri, in I mondi ultraterreni, Mondadori, Milano, 1998
Cerulli, Enrico, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1949
Chevalier, Jean e Gheerbrant, Alain, Dictionaire des symboles, Robert Laffront, Paris, 1969
Guénon, René, Symboles de la science Sacrée, Gallimard, París, 1977
Guénon, René, L'ésoterisme de Dante, Charles Bosse, París, 1925
Teruggi, Francesco, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2012
"Il dipinto di casa Gozzano..." è disponibile in formato PDF su
FRÀ RÀTT - Un alchimista in Valstrona
Si racconta che il medico condotto Innocenzo Ratti, vissuto a Massiola, piccolo centro della Valstrona, sul finire dell'800, fosse anche un alchimista. In gioventù frate allievo di padre Appiani, dottore, erborista, botanico, agronomo e geologo di fama, abbandonò l'abito talare per amore della bella Teresa (una delle modelle di Hayez) e finì per stabilirsi a Massiola continuando ad esercitare come medico.
Eletto sindaco e sempre tenuto in gran considerazione per le opere pubbliche a favore del paese e della valle, fu sempre noto con il soprannome di «Frà Ràtt» o «sciùr Padàr».
Casa Ratti
La vita ritirata e solitaria che conduceva nella sua grande casa, le voci sussurrate sul suo conto e le frequentazioni illustri quanto strane - Massimo D’Azeglio, noto per il suo interesse verso lo spiritismo, era solito raggiungere da Cannobio, dove trascorreva parte dell'anno, la Valstrona per consultarlo – alimentarono voci su certi «poteri» che si diceva possedesse e sulla sua dedizione all'alchimia.
Non esistono però, almeno per quanto è dato sapere, informazioni esaustive che possano confermare la sua «vocazione». Nulla emerge chiaramente dai pochi documenti rintracciati negli archivi del paese.
Le sue carte, i libri in cui probabilmente aveva raccolto tutte le sue conoscenze, sono andati distrutti nell'incendio che ha coinvolto la sua casa di Massiola nel 1922, una cinquantina di anni circa dopo la sua morte.
Casa Ratti - fontana sotterranea
Il sopralluogo presso la casa, ancora esistente, ha però permesso di rintracciare alcuni indizi interessanti. L'insieme sorge sul versante scosceso della valle, proprio sotto la strada che attraversa il paese.
È esposta a sud e si trova in un punto «prezioso», protetto e ben soleggiato, tanto che nel giardino crescono all'aria aperta e senza sofferenze, nonostante la generale inadeguatezza del clima della valle, agrumi (limoni) e fiori che richiedono temperature miti.
Il meticoloso terrazzamento del versante in più balze voluto dallo stesso medico, insieme agli investimenti fatti per fornire di acqua corrente il giardino e la casa suggeriscono che il luogo non fu affatto scelto a caso. Fece infatti realizzare la piazza e la fontana pubblica antistante la casa, lungo la via principale, appositamente per poter incanalare la stessa fonte che la alimentava fino alle balze del suo giardino «all'italiana», dove ricavò cascate e fontanili.
Volendo rintracciare in questi lavori esigenze di tipo «alchimistico», si potrebbe ipotizzare che abbia voluto realizzare un vero e proprio «paradiso terrestre» o «giardino delle delizie», ricco di simbolicamente il luogo di tutte le conoscenze naturali che l'alchimista indaga1.
Casa Ratti - planimetria e rilievo generale
Seguendo il tema dell'acqua, quasi fosse il «filo d'Arianna» capace di sciogliere il mistero di «Frà Ràtt», di particolare interesse durante il sopralluogo si è rivelato uno degli ambienti del piano più basso della casa.
In questa grotta artificiale, fu fatta giungere l'acqua della sorgente che alimenta anche le altre fontane in giardino.
Essa è collegata direttamente con l'esterno attraverso un corridoio, usato anche come ingresso di servizio e attiguo al forno per il pane e alla lavanderia. Nel muro di separazione tra il corridoio e la grotta sono «incastonate» due colonne, che cingono i lati del varco rettangolare senza porta.
Se di simbologia alchemica si tratta, non è difficile riconoscere nel grottino l'oscuro crogiolo alchemico, o meglio ancora quelle «Interiora terrae», le profondità interiori della Terra che il celeberrimo motto/acronimo alchemico detto V.I.T.R.I.O.L (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem) invita a «visitare»2.
Altrettanto la fontana ricavata nella grotta potrebbe alludere alla «fonte della conoscenza» e l'acqua pura che vi sgorga alla sapienza «divina» che «stilla dalla terra».
Casa Ratti - ingresso con colonne alla fontana sotterranea
Le due colonne che preludono alla grotta, posizionate in modo tale da essere ben visibili quando si entra, ma non quando si esce, potrebbero allora essere le «colonne del tempio»3, Jachim e Boaz, i due «pilastri del cielo», il «maschile» e il «femminile» la cui riunione costituisce l'ottenimento della Pietra Filosofale.
In casa Ratti le due colonne sono identiche, non appartengono, come vorrebbe la tradizione a due diversi ordini (ionico e dorico), ma una delle due è spezzata a circa due terzi dell'altezza partendo dal basso.
Per quanto il dettaglio sia curioso (nel procedimento alchemico il rapporto tra gli ingredienti è sempre 2/3-1/3) non è possibile stabilire se la rottura sia stata voluta o meno.
Casa Ratti - interno della torre
Qualche indizio impreciso e non esaustivo può poi essere rinvenuto in alcuni rapporti numerici tra i due ambienti contigui (volumi e lunghezze) nelle cui proporzioni si ritrova a volte il «numero aureo» (1,618), che potrebbe indicare una qualità «iniziatica» del luogo.
Il corridoio e la grotta potrebbero infatti essere una sorta di «percorso di conoscenza», come suggerisce l'analisi radioestesica, da compiere anche fisicamente, prestando attenzione al lato da percorrersi in ingresso, a non sostare tra le colonne, a non porsi frontalmente rispetto alla fontana nella grotta e a raggiungerla invece con un ampia curva.
La copertura della grotta è un piccolo cortile, aperto su due lati, su cui si affaccia una terrazza delimitata da una coppia di «absidi» non identiche per dimensioni.
Oltre la terrazza, sul livello stradale si innalza la parte più voluminosa della villa con una curiosa torre ottagonale.
Anche in queste architetture è possibile in qualche modo riconoscere ascendenze «alchemiche».
Casa Ratti - interno della torre con dettaglio pianta ovale della scala
Se la grotta è l'unità, l'«uno», «salendo la scala» di incontrano le due absidi, a rappresentare il «due» (nonché nella loro differenza volumetrica, di nuovo il «maschile» e il «femminile»).
La torre potrebbe quindi essere l'«otto», inteso come insieme ma anche moltiplicazione e perfezionamento dei precedenti.
Inoltre, la torre, che ha funzione quasi esclusivamente decorativa, ospita al suo interno soltanto una scala di collegamento tra i piani del blocco cui è annessa.
Ma, curiosamente, la scala interna a chiocciola non è perfettamente circolare, bensì ovoidale, nonostante la regolarità dei lati dell'ottagono, perfettamente uguali.
L'uovo alchemico è uno dei massimi simboli dell'intera Opera, è il crogiolo stesso (raffigurato anche come torre ottagonale!) e il luogo di ogni trasformazione. Dalla sua schiusa si rigenera la fenice.
Casa Ratti - decorazioni sulla facciata
Ancor più insolite sono poi le volute dipinte presso le finestre della facciata della casa volta a mezzogiorno.
Il motivo ad archi ricorda molto certe architetture gotiche e sembra concepito per reggere i davanzali delle finestre.
Il doppio elemento identico richiama, ancora una volta il doppio principio «maschile» e «femminile» ed è identico a quello che cinge la sommità della lapide che chiude la tomba di Innocenzo Ratti nel cimitero di Massiola.
Sulla lapide, tuttavia, il motivo è riportato una sola volta e cinge completamente le parole commemorative scelte dallo stesso «Frà Ràtt», come a voler indicare che il mistero celato dietro quel simbolo «abbracciò» tutta la sua vita, dandole forma compiuta.
Cimitero di Massiola - lapide di Innocenzo Ratti
Oltre il motivo ad archi la lapide è delimitata da una cornice decorata con cerchi (il cerchio con un punto al centro, antico geroglifico che indica il sole, è anche il noto simbolo astrologico corrispondente) e losanghe, che termina in un frontone triangolare.
Nello spazio libero sotto la cuspide compare un'immagine di difficile decifrazione.
Da un minuscolo esagono chiuso in un cerchio emerge una sorta di goccia al contrario divisa in tre parti «piene» e due «vuote».
Cimitero di Massiola - lapide di Innocenzo Ratti, dettaglio della cuspide
Dalla goccia si schiudono verso l'alto sette «petali» che paiono quasi raggi proiettati verso il cielo.
Due rami con tre foglie si allargano invece ai lati della goccia, come mani protese: giunto al termine dell'Opera, l'alchimista è un «nuovo nato», è rinato come il sole dopo l'inverno.
Come tale, riluce di luce propria, suddivisa nei suoi sette colori e domina sui tre regni della natura.
Dedicato a Barbara Piana, Severino e Maria Piana,
che hanno reso possibile la visita a casa Ratti
NOTE
1Si vedano ad esempio il XVII emblema dell'Atalanta Fugiens di Mayer («Il giardino alchemico resta chiuso per chi non ha i piedi per camminare e seguire le orme della natura») o il testo «rosacruciano» di Daniel Stolzius von Stolzberg «Il giardino alchemico delle Delizie».
2Ben nota a tal proposito è la leggenda delle tre potenti «grotte alchemiche» nascoste nel sottosuolo di tre città europee, tra cui Torino.
3Di tale simbologia si sono impadronite soprattutto le logge massoniche, ma era in uso già tra gli alchimisti.
BIBLIOGRAFIA
Barbara Piana, Innocenzo Ratti: Frà Ràtt, viaggiatoricheignorano.blogspot.com, 2015
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur, Milano, 1986
Francesco Teruggi, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2012
Giorgio Baietti, L'Enigma di Rennes Le Chateau, Ed. Mediterranee, Roma, 2003
"FRÀ RÀTT - Un alchimista in Valstrona" è disponibile in formato PDF su